«Homo sum, humani
nihil a me alienum puto», «Sono uomo,
niente di umano ritengo mi sia estraneo», è una citazione di Publio
Terenzio Afro contenuta nella commedia “Heautontimoroumenos”,
“Il punitore di se stesso” (163 a.
C.). Terenzio è un commediografo romano, non è “propriamente” un filosofo, ma la sua sentenza ha un significato filosofico
profondo: è stata interpretata molte volte nel corso della storia ed è stata
assunta a simbolo di “umanità”. A cosa si riferisce? È contenuta nel primo atto
della commedia ed è pronunciata dall’anziano Cremete in un dialogo con Menedemo.
Anche Menedemo è anziano, ha sessant’anni o più, e ha comprato un podere
accanto a quello di Cremete. È ricco, possiede schiavi in quantità, ma agisce
in modo irrazionale: lavora dall’alba al tramonto in modo forsennato. Cremete lo
vede ogni giorno nel campo «a scavare, ad
arare, a trasportare». Questo comportamento, già inopportuno per l’età, è anomalo
per un uomo di condizione agiata. Menedemo agisce così per punirsi: per aver
impedito al proprio figlio Clinia di sposare Antifilia, la figlia di una povera
donna di Corinto. Quando ha scoperto la loro relazione e si è reso conto che i
due si comportavano come persone sposate, ha reagito in modo troppo severo: «alla maniera dei vecchi padri», scrive
Terenzio. Ha detto al figlio che tale scelta era frutto del troppo far niente e
che lui alla sua età non pensava all’amore ed era partito «sotto la spinta della miseria» per l’Asia a combattere, trovando poi
in quella terra lontana denaro e gloria. Ha poi scoperto che il figlio, a forza
di sentirsi ripetere tale vicenda – fidandosi del padre – è partito di nascosto
per l’Asia al seguito dell’esercito del re. Ora è disperato e si punisce
condannandosi a un durissimo lavoro. Non si concede un attimo di tregua e si
tormenta per non essere stato un buon padre. Teme per la vita del figlio. Cremete,
colpito dalla condotta atipica del vicino, gli chiede: «In nome degli dèi e degli uomini, che cosa vuoi ottenere?». Menedemo
risponde: «O Cremete, i tuoi affari ti
lasciano bel tempo, eh?, e così puoi impicciarti negli affari altrui e in ciò
che non ti riguarda». Cremete replica: «Sono
uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo». Il semplice fatto di avere
poderi adiacenti impone a Cremete di interessarsi alla vita del prossimo e di
prendersi cura di lui. Il filologo e antropologo Maurizio Bettini ha dedicato un libro intero all’interpretazione
di questa sentenza, “Homo sum” (Einaudi),
per sollecitare le persone a sviluppare la loro umanità, “impicciandosi” di coloro
che giungono come stranieri sulle coste italiane. Egli riferisce una bella storia
accaduta qualche anno fa e narrata dalla giornalista Valentina Ruggiu sul
quotidiano «la Repubblica». Alcune signore irpine tra i settantacinque e gli ottant’anni
hanno incontrato sul pullman un ragazzo del Gambia di nome Omar. Dialogando con
lui, hanno ricordato che anche i loro figli e mariti erano emigrati. Una
signora gli ha detto: «Weee, quant si
bell, io pure tengo a nepùteme ca sta in Inghilterra, pure da qua se scappa, ma
sembra ca tutti se l'ann' scurdato sto fatto». Un’altra ha ricordato che il
marito aveva lavorato per vent’anni in Germania, un’altra ancora che le persone
del Sud si sono sempre spostate al Nord e che non è «un problema sta cosa di viaggià pè potè campà meglio...». Bettini
prende spunto da questo episodio per fare un elogio di una particolare forma di
“indiscrezione”. Non quella che esprime vana curiosità, mancanza di tatto o sfacciata
invadenza nei rapporti interpersonali, ma quella che esprime interesse
autentico e coinvolgimento. È una forma di “attenzione” che rivela una
partecipazione al destino degli altri quando viene riconosciuto come un destino
comune. Ha grande valore, è un modo positivo di essere un po’ impiccioni, perché
rivela l’umanità dell’uomo. Allora il verso di Terenzio, scrive Bettini, «nasce dunque come invito non solo alla
comunicazione fra gli uomini, ma piuttosto al suo eccesso, alla indiscrezione:
al superamento delle barriere in nome della comune “umanità”». La sentenza
di Cremete è stata ripresa e commentata anche da Cicerone, nel “De officiis”, “I doveri”, un libro scritto nel 44 a.C. e dedicato al figlio Marco
che al tempo studiava filosofia ad Atene. Scrive Cicerone: «poiché comprendiamo e sentiamo le fortune e le sventure che capitano a
noi più di quelle che capitano agli altri, e consideriamo le cose altrui da una
grande distanza, noi giudichiamo diversamente su noi e sugli altri». E poco
prima aveva biasimato il comportamento di coloro che per proteggere il loro
patrimonio familiare o per odio nei confronti degli altri uomini si occupano
esclusivamente dei loro affari. Apparentemente essi danno l’impressione di non
commettere atti di ingiustizia, invece, scrive il filosofo romano: «Costoro, anche se non commettono un tipo di
ingiustizia, incorrono nell’altro: vengono meno infatti alla dimensione sociale
della vita, poiché a essa non dedicano interesse alcuno, sforzo alcuno,
investimento alcuno». Venir meno alla dimensione sociale della vita è un
atto di ingiustizia che quelle donne non hanno commesso, perché prima di
scendere si sono girate e hanno salutato il ragazzo così: «Wee, Omar, mantienete forte, non te preoccupà, nui te vulimm' bene».
Come donne hanno intuito e mostrato che
tutto ciò che riguarda gli altri riguarda anche noi.
Un caro saluto,
Alberto