Secondo Aristotele gli esseri umani si uniscono perché non
sono in grado di vivere separati gli uni dagli altri. Così i maschi e le femmine,
per la riproduzione; chi comanda e chi è comandato, per ricavare beneficio da
un’attività. Il primo nucleo a formarsi è la famiglia, la più piccola comunità
che si organizza per soddisfare i bisogni della vita quotidiana. Nel libro
dedicato alla politica il filosofo ricorda che Caronda, uno dei più antichi
legislatori della Sicilia, chiamava infatti i membri della famiglia: «compagni di tavola», mentre il cretese Epimenide
li appellava «compagni di mensa». La
prima comunità che si genera dall’unione di più famiglie, per sopperire invece a
bisogni non immediati, è il villaggio. E la comunità che risulta dall’insieme
di più villaggi è lo Stato. Questo rappresenta il punto più alto dell’unione
delle persone. Rende possibile la vita, ma soprattutto rende realizzabile una
vita felice. È un concetto che il filosofo ribadisce sia nell’ “Etica” sia nella “Politica”. Nel primo libro dell’ “Etica nicomachea”, parlando della felicità, egli afferma infatti che «è assurdo anche fare dell’uomo beato un
individuo solitario, dato che nessuno sceglierebbe di avere tutti i beni
possibili a questo prezzo: l’uomo è animale politico, e per natura tende a
vivere in comune». Secondo Aristotele lo Stato esiste dunque “per natura”, e
per natura esistono anche le prime comunità. Che cosa dobbiamo intendere con
tale espressione? Aristotele dice che la “natura” «è quel che ogni cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo». Le
varie cellule si differenziano nei vari organi del corpo e producono un cavallo
o un uomo; le pietre e gli elementi di un’abitazione possono comporre una casa.
Così lo Stato è considerato un prodotto spontaneo che deriva dall’associazione
degli uomini, perché secondo il filosofo l’uomo è intrinsecamente un essere
socievole, tanto che se qualcuno vivesse fuori dalla comunità dello Stato non
per qualche fatalità della vita, ma per la propria inclinazione sarebbe considerato
«un abietto o […] superiore all’uomo».
Gli uomini non sono pertanto presenze isolate, simili a pedine utilizzate nel
gioco dei dadi. Nella “Politica” Aristotele
afferma ancora di più, quando sostiene che «è chiaro che l’uomo è animale politico, più delle api, e di qualsiasi
altro animale che vive in branco». Perché più delle api e degli animali
gregari? Perché se la natura orienta l’uomo alla vita associata, la razionalità
che lo caratterizza gli consente non solo di ambire istintivamente a ciò che è
utile, ma anche di distinguere concettualmente il bene dal male, ciò che giusto
da ciò che è ingiusto, e sulla base delle valutazioni condivise – elevate a valori
– organizzare la propria vita. In questo senso lo Stato precede gli individui,
perché è grazie allo Stato che le persone possono educarsi, formarsi e ambire
alla propria realizzazione. Lo Stato è ritenuto anteriore, perché un individuo
separato dagli altri è nella condizione delle parti rispetto al tutto: come un organo
isolato – una mano, un piede – che ha perso la sua funzione perché strappato alle
relazioni col resto del corpo. Vi è dunque in tutti gli uomini questa spinta
verso la comunità, tanto che Aristotele è ancora più esplicito ed efficace perché
afferma che chi non è in grado di entrare in una comunità – o per la sua indipendenza
non ne avverte l’esigenza – è «o bestia o
dio». Scrive l’autore: «È evidente
dunque e che lo stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo:
difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa
condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado di
entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno,
non è parte dello stato, e di conseguenza è o bestia o dio». L’uomo può
realizzare se stesso solo nei legami con gli altri uomini. Ma l’uomo è un
animale sociale o anche un animale socievole? Assodato che è un animale che per
natura tende a vivere in società, ci possiamo chiedere se si unisca per la sua intrinseca
benevolenza, perché è disponibile, amabile, cordiale, aperto, o perché quella
condizione gli è maggiormente utile per sopravvivere. Gli studiosi De Luise e
Farinetti sottolineano questo aspetto: «Che
l’uomo non possa vivere fuori della società non è insomma una buona ragione per
ritenerlo socievole». C’è infatti una tradizione, che va da Thomas Hobbes (“De cive”) a Bernard de Mandeville (“La favola delle api”), che non reputa l’uomo
particolarmente socievole: considera infatti che gli uomini si uniscano per
soddisfare meglio i propri interessi egoistici. La filosofa svizzera Jeanne
Hersch, nella sua “Storia della filosofia
come stupore”, spiega bene come dobbiamo intendere l’espressione «zòon politikòn», «animale politico», di Aristotele. Scrive la filosofa: «Ciò non significa che ogni uomo debba
diventare un politico, ma vuol dire che l'essere umano è per sua essenza membro
di una società organizzata, di una polis. La parola polis indica la
"città-Stato". L'essere umano è non per accidente (in virtù di certe
circostanze), ma per essenza (in virtù di ciò che è) un cittadino. I problemi
dello Stato non sono quindi per l'uomo fortuiti o marginali, ma lo riguardano
in modo essenziale, in quanto uomo». È all’interno dello Stato che gli
uomini dovranno trovare la conciliazione tra tante urgenze diverse: un
equilibrio che non si può raggiungere definitivamente una volta per tutte e che pertanto deve essere continuamente ricreato.
Un caro saluto,
Alberto
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