È così naturale il bisogno di aiuto. La richiesta del favore,
della protezione, del soccorso o semplicemente del conforto di qualcuno.
Sostienimi è la preghiera che rivolgiamo ad un altro significativo per
continuare a vivere. Gli uomini chiedono sostegno a Dio e ad altri uomini. L’autore
del Salmo 51 della Bibbia, rivolgendosi
a Dio, dice infatti: «sostienimi con uno
spirito generoso»; e così nel Salmo
119 ripete nuovamente: «Sostienimi
secondo la tua promessa e avrò vita, / non deludere la mia speranza. / Aiutami
e sarò salvo». Dal Salmo antico
alla canzone religiosa di Josh Wilson, "Carry Me”, in cui l’autore, angosciato dall’esistenza e da
eccessive preoccupazioni, implora Dio dicendo: «Portami, portami, portami ora / Dalla sabbia su cui sto affondando /
alla Tua terra solida. / L’unico modo che ho per farcela / È se mi porti, se mi
porti Tu. / Signore sostienimi, ti prego sostienimi ora». Attraversare la
vita non è certo uno scherzo. Così, in una delle lettere contenute nell’opera di
S. Agostino, Paolino di Nola chiede al filosofo di diventare suo maestro e lo prega
in questo modo: «Sorreggi dunque questo
fanciulletto che striscia ancora per terra e insegnagli a camminare seguendo i
tuoi passi». Come molti uomini, per uscire indenne dal groviglio dell’esistenza,
egli cerca qualcuno su cui fare affidamento e la forza intellettuale e quella spirituale
di Agostino gli sembrano indispensabili. Egli supplica così il suo aiuto: «Intanto, mentre cerco di sfuggire ai
pericoli di questa vita e all'abisso dei peccati, sostienimi con le tue
preghiere come su d'una tavola affinché, spoglio di tutto, possa scampare da
questo mondo come da un naufragio». Nei momenti di difficoltà abbiamo
necessità di essere supportati dalla famiglia, dagli amici o dalle persone che
suscitano la nostra fiducia. Quante volte abbiamo invocato il soccorso di qualche
persona cara pronunciando queste semplici parole: «aiutami in questo momento difficile». Infinite richieste di
affidamento vengono rivolte – anche tacitamente – esclusivamente agli uomini. Per
rimanere nell’ambito della musica, vi è una canzone di Renato Zero, “Putti & Cherubini S.P.A.”, in cui il
cantautore afferma di voler contribuire alla felicità del prossimo tralasciando
di occuparsi di sé. Volendo dedicarsi alle persone sole, chiede al suo
ipotetico interlocutore: «Sostienimi,
comprendimi. / Sarà più facile, sì». Un’idea bella, condivisibile: molto umana.
I filosofi stoici, tuttavia, avrebbero storto il naso di fronte a tale pretesa.
Perché? Perché prima di chiedere un aiuto – sia pur legittimo e comprensibile –
a chicchessia, gli stoici invitavano gli uomini a sostenersi da soli, a cercare
soccorso in se stessi. L’imperativo «Sustine»,
significa infatti «sostieniti» e non
«sostienimi». È un capovolgimento delle
aspettative degli uomini che attendono dagli altri la risoluzione dei loro
problemi. Il motto è un suggerimento rivolto al soggetto che soffre, ma non rappresenta
il venir meno della pietà umana né un’omissione di soccorso. Non vuol dire: «arrangiati da solo, io non ti aiuto», e
non ha l’intonazione respingente o sgarbata di chi disdegna il richiamo disperato
del prossimo. È parte di una massima che non solo invita a sopportare il dolore,
ma anche ad astenersi – «abstine» – dal
volere che i fatti accadano in modo diverso da come si verificano. A
sintetizzare complessivamente questo concetto: «anéchou kài apéchou», cioè «sopporta
ed astieniti», è il filosofo stoico greco Epitteto vissuto tra il I e il II
sec. d. C., anche se l’espressione con cui è ricordato non compare nella sua
opera ma è una sorta di schematizzazione del suo pensiero riportata nelle “Notti Attiche” di Aulo Gellio. Epitteto,
schiavo liberato, è autore di un meraviglioso “Manuale”. Come Socrate ha trovato in Platone il proprio biografo, così
Epitteto ha trovato in un suo seguace, lo storico Flavio Arriano, colui che ha
composto il testo condensando in esso le frasi più celebri e significative del
filosofo. Il “Manuale”, il cui titolo
deriva dal fatto che «deve essere sempre
a portata di mano, per chi vuole vivere bene», ha avuto molto successo
nella storia. Tradotto dal greco in latino dall’umanista marchigiano Niccolò
Perotti (1451), segretario del filosofo bizantino cardinal Bessarione, e dal
poeta fiorentino Agnolo Poliziano (1479) è stato stampato moltissime volte a partire
dal Cinquecento. Amato dai laici e dai moralisti cristiani, ha avuto anche un
grande estimatore in Giacomo Leopardi che ne ha fornito una bellissima
traduzione nel 1825, ancora oggi spesso riproposta in coda alle traduzioni
contemporanee. Il testo è stato, ed è, molto amato perché fornisce indicazioni
semplici e chiare per perfezionare se stessi. Gli stoici sono uomini
razionali. Di fronte allo smarrimento e al dolore procurati dagli eventi
drammatici, essi oppongono una forma di saggezza concreta. Ritengono che gli
uomini debbano imparare a sostenersi autonomamente e invitano così ogni persona
ad essere responsabile e a prendersi cura di sé. Prendersi cura di sé diventa
dunque un dovere dell’uomo. Come lo scheletro sorregge il corpo dall’interno, l’uomo
deve alimentare la propria struttura razionale per reggere il dolore. Apprendere
tale pratica diventa l’incombenza principale per vivere bene.
lunedì 26 luglio 2021
Sustine et abstine
lunedì 19 luglio 2021
Poco tempo
Il tema del tempo è caro a Lucio Anneo Seneca, il filosofo stoico
romano del I sec. d.C., che dedica il libro “De brevitate vitae”, “La
brevità della vita”, a chiarire la differenza tra vivere ed esistere. Il
libro è rivolto a Paolino, un funzionario di Stato che si sta ritirando dall’attività,
a cui il filosofo offre alcuni eccellenti consigli per la vecchiaia. L’opera
inizia riferendo una popolare lagnanza degli uomini che protestano contro la «taccagneria» della natura, madre
ingenerosa che concede all’uomo solo una manciata di anni per vivere («nasciamo destinati ad una vita molto breve
ed il tempo che ci è stato assegnato scorre tanto veloce»). Una lamentela che
Seneca ritiene propria non solo dell’uomo comune, ma spesso anche di persone di
cultura o di presunti saggi (e che appartiene anche all’uomo contemporaneo quando
pensa: «avevo troppe cose da fare e
troppo poco tempo per farle»). Seneca intende confutare tale tesi e già all’inizio
dell’opera chiarisce la propria posizione, contraria al sentire abituale: «Non è vero che abbiamo poco tempo: la verità
è che ne perdiamo molto». Spesso, secondo l’autore, lasciamo scorrere la
vita tra pigrizia e apatia, incapaci di mettere a fuoco le opportunità: siamo
sostanzialmente degli «sciuponi». Il
tempo viene così paragonato ad una grande ricchezza che può cadere nelle mani
di un re o un padrone inetto ed essere pertanto rapidamente dissipata, oppure nelle
mani di una persona abile e responsabile in grado di moltiplicarla nel corso degli
anni. Il fatto che gli uomini non trovino tempo da dedicare a se stessi, di
guardarsi dentro o – per dirla nel linguaggio giuridico – di «darsi udienza», significa che non hanno
imparato a vivere bene. Siamo, in fondo, esseri un po’ singolari: «avari delle nostre cose e prodighi di noi
stessi», dice l’autore; mentre quando
si tratta di perdere tempo diventiamo
«quanto mai prodighi dell'unico bene
di cui è bello essere avari». Destiniamo parte della vita alle polemiche, a
rivangare dissapori, alla chiacchiera, alle relazioni superficiali, alle preoccupazioni
futili, alle visite di convenienza, e molto altro tempo rimane inutilizzato. Tanto
che se sottraessimo dalla nostra vita tutti gli istanti sprecati, saremmo molto
più giovani dell’età cronologica che ci caratterizza. Seneca biasima coloro che
pensano di riservare del tempo per sé solo quando si ritireranno dal lavoro
attivo, che al tempo voleva dire a cinquanta o a sessant’anni. Chi garantisce
che avranno la fortuna di vivere così tanto e perché gli uomini dovrebbero dedicare
a se stessi solo dei «rimasugli di vita»?
Egli cita tre persone famose che si sono rammaricate: il grande Augusto – l’uomo
in grado di determinare le sorti dei popoli e degli uomini – in una lettera anticipava
con la fantasia la propria vita privata; Cicerone, «insoddisfatto nella prosperità ed insofferente nell'avversità», in
una lettera ad Attico rimpiangeva il passato, si lamentava del presente e
disperava del futuro; così il famoso tribuno Livio Druso malediceva la sua vita
irrequieta. Lamentarsi non serve. Secondo Seneca occorre organizzare le
giornate «come se ciascuna valesse una
vita», senza desiderare né temere il domani. Chi vive così non vacilla di
fronte alla sorte: la fortuna gli può predisporre ogni impedimento, ma la sua
vita è già al sicuro. Certo, qualcosa si può sempre aggiungere ad essa, ma nulla le si
può togliere e, scrive il filosofo, «le
aggiunte sono come il poco cibo che si offre ad un uomo già abbastanza sazio:
lo accetta, ma non lo desidera». C’è dunque una grande differenza tra
vivere ed esistere: si può esistere a lungo, sino ad avere i capelli bianchi,
ma non è detto che l’esistenza sia stata soddisfacente. Chi esce dal porto e si
muove in cerchio sul medesimo tratto di mare, perché sballottato da una brutta
tempesta, non si può dire che abbia navigato: è stato semplicemente spinto dalle
onde. Occorre quindi fare tesoro del tempo, perché «Nessuno ti restituirà gli anni, nessuno ti restituirà a te stesso».
Ecco l’invito a «vivere subito» senza
programmare oltremisura il futuro, perdendo di vista la quotidianità. Seneca esorta
a non vivere alienati, perché il futuro è incerto. Nelle nostre mani è solo il
presente, che dobbiamo abitare adeguatamente («devi contrapporre alla rapidità del tempo la tua prontezza nell'usarlo,
devi attingere come da un torrente rapido, che non scorrerà sempre»). Seneca
riprende così un’intuizione di Lucrezio e scrive: «come non giova a nulla versare nel vaso grandi quantità di liquido, se
non c'è un fondo che lo riceva e conservi, così non importa la quantità di
tempo che viene loro concessa, se non trova dove depositarsi: filtra attraverso
animi sconnessi e sforacchiati». Solo il saggio non spreca le opportunità, perché
dialogando con i grandi del passato aggiunge il loro tempo al proprio. Le fatiche
degli antichi hanno portato alla luce realtà meravigliose e chi dialoga con
loro può spaziare nel tempo. Conversare con i grandi significa aggiungere istanti
preziosi alla vita, comprendendo più rapidamente ciò che da soli non saremmo in
grado di conoscere. È preferibile dunque sottrarsi alla folla e rifugiarsi in
un posto tranquillo. E poiché Paolino è un amministratore, Seneca gli dice che
è meglio tenere in ordine il registro della propria vita che qualunque altro fascicolo
di cui quotidianamente e con tanta cura ci occupiamo.
Alberto
lunedì 12 luglio 2021
Carpe diem
Tutti ricordiamo il film “L’attimo fuggente” e il momento in cui l’attore Robin Williams (il prof. Keating) chiede ad uno studente di leggere i primi versi di una poesia. I ragazzi sono tutti in piedi intorno al docente e il giovane Pitts legge: «Cogli la rosa quando è il momento, / che il tempo, lo sai, vola / e lo stesso fiore che sboccia oggi, / domani appassirà». Si tratta di una poesia secentesca di Robert Herrick che parla della fugacità della vita e della necessità di vivere con consapevolezza ciò che accade. Il professor Keating rammenta che in latino lo stesso concetto è espresso da Orazio nella locuzione «Carpe diem», «Cogli l’attimo». La frase completa è «carpe diem, quam minimum credula postero», «Cogli la giornata d’oggi e confida il meno possibile in quella di domani». È tratta dal primo libro de “Le odi”, del poeta romano Orazio, nato a Venosa, in Basilicata, nel I sec. a.C. L’autore si rivolge a Leuconoe, una fanciulla di cui non abbiamo altre informazioni, e le dice: «Non domandare, o Leuconoe (ché saperlo non è lecito), qual termine gli dèi abbiano assegnato a me, quale a te; e non consultare le cabale babilonesi. Quanto è meglio prendere in pace tutto quello che ha da venire! Sia che Giove ci abbia concessi molti inverni, sia che l’ultimo sia questo, che ora fiacca sugli opposti scogli il mare Tirreno, tu sii saggia. Filtra il vino da bere e restringi in un àmbito breve le lunghe speranze. Mentre noi parliamo, sarà già sparita l’ora, invidiosa del nostro godere. Cògli la giornata d’oggi e confida il meno possibile in quella di domani». Pierre Hadot, uno dei grandi studiosi della filosofia antica, nel libro “Ricordati di vivere” riferisce che l’espressione «carpe diem» non deve essere intesa come un invito a godere in modo smodato i piaceri della vita, ma come esortazione a vivere bene il presente senza estraniarsi da esso, rimuginando i tempi andati o fantasticando quelli a venire. I latinisti fanno notare che il verbo «carpere» è un verbo che si usa in modo specifico per raccogliere la frutta o i fiori: «carpite de plenis pendentis vitibus uvas», «cogliete le uve che pendono da viti cariche»; o «aut violas aut candida lilia carpit», «coglie viole e candidi gigli». Come a dire: accogli quello che ogni giorno ti offre, concentrati su di esso e fanne buon uso. Afferra ciò che di positivo la vita ti concede, perché la felicità è a portata di mano: consiste nel vivere consapevolmente il tempo. Gli uomini, tuttavia, non sanno vivere pienamente ciò che si presenta loro, perché sono spesso distratti. Gli epicurei affermano che «gli stolti non ricordano i beni passati, non sanno godere dei presenti; aspettano solo i futuri; e poiché questi non possono essere sicuri, son logorati sempre da angoscia e timore». Troppo spesso la vita esclusivamente protesa verso il futuro è priva di gratitudine e piena di angosce. Come disporsi allora nei confronti del tempo? Epicuro diceva che si può essere felici se si limitano i propri desideri e l’invito di Orazio sembra anch’esso volto ad eliminare le ambizioni superflue e a concentrarsi su ciò che siamo chiamati a sperimentare. È importante saper dunque godere del piacere presente senza polarizzare l’attenzione sugli eventi vissuti, né disperdere le proprie energie idealizzando il futuro, nella misura in cui tale riflessione provoca eccessive preoccupazioni o vaghe speranze. La qualità del godimento, in fondo, non dipende dalla quantità dei piaceri che vengono soddisfatti né dalla loro durata. Il piacere non ha bisogno di essere prolungato all’infinito per essere perfetto, perché l’anima beata è concentrata su ciò che vive e non guarda oltre. Invece di accogliere l’invito a vivere bene il tempo, nel mondo contemporaneo gli uomini rischiano di ridurre la vita al consumo immediato di ogni cosa. Il motto non è più «vivi bene il presente», ma «riduci tutto al presente», come se non ci fosse un domani. Per paura di non vivere abbastanza e di perdere delle occasioni, gli uomini hanno scatenato i desideri – che sono diventati peraltro omogenei –, ma in questo eccesso di «coglimento dell’attimo» molti ricordano che si sta preparando la distruzione del pianeta. La giovane attivista Greta Thunberg che si batte per uno sviluppo sostenibile, nel libro “La nostra casa è in fiamme” scrive: «C’è stato un periodo in cui coglievamo l’attimo con il retino e la canna da pesca, adesso saccheggiamo i fondali degli oceani alla costante ricerca di autorealizzazione, sviluppo personale ed esperienze. Non ci sono confini. Tutto è possibile». E ancora: «Carpe diem» diceva il povero Robin [William], e noi andavamo in giro per il mondo a fare proprio questo. Ma non coglievamo soltanto l’attimo. Coglievamo intere settimane, mesi e anni. Il tutto a caccia di drink al tramonto, una nuova cucina di design danese o un paio di scarpe che non si potevano comprare da nessuna parte tra le montagne del Nord». L’interpretazione letterale del frammento di Orazio in cui il poeta invita a contrarre «in un àmbito breve le lunghe speranze» rischia, di fatto, di annientare il futuro. Ci riporta all’invito originario di Orazio la poetessa Wisława Szymborska che nella poesia «Sulla morte senza esagerare» afferma: «Non c’è vita / Che almeno per un attimo / Non sia stata immortale / La morte / è sempre in ritardo di quell’attimo […] A nessuno può sottrarre / il tempo raggiunto».
Un caro saluto,
lunedì 5 luglio 2021
La vita in prestito
Nel terzo libro del poema “De rerum natura”, “La natura delle cose” Tito Lucrezio Caro, il principale esponente dell’epicureismo romano del I sec. a.C., scrive: «Vitaque mancipio nulli datur, omnibus usu», «la vita non è data in proprietà a nessuno, ma in uso a tutti». La vita non ci appartiene. O forse ci appartiene solo in parte. Nessuno ha generato se stesso, ognuno ha ricevuto la vita da altri; per questo spesso si dice che la vita è un dono. E Lucrezio ricorda che questo dono è di natura particolare: non è definitivo, ma provvisorio. Come si riceve in prestito un libro, un appezzamento di terra o un appartamento per le vacanze. Prima o poi occorre restituirlo. Prima o poi, dunque, dovremo rendere il bene più prezioso che abbiamo: la vita intera. Si tratta certamente di un debito singolare. In genere, quando si prende in prestito un libro dalla biblioteca, si conosce la data di scadenza. Conoscere il termine ultimo condiziona il tempo residuo a disposizione. Posso accelerare la lettura per completare l’opera o rinunciare ad essa, ma ogni giorno so esattamente quanto manca alla scadenza. La vita, invece, non ha un limite univoco: nessuno sa se diventerà vecchio o morirà giovane o in età matura; così, senza tale certezza è più faticoso e problematico organizzare efficacemente il tempo in funzione di una fine inevitabile, ma indefinita. Talvolta si sprecano le opportunità e talvolta si è presi da angoscia e disorientamento. Il fatto che la vita vada consegnata tassativamente, senza eccezioni, ci ricorda che è un bene diverso dagli altri. Ci si può anche dimenticare di restituire un libro, andando incontro alla sanzione della biblioteca o al biasimo di un amico; ma anche se ci dimenticassimo dell’impegno preso alla nascita, la vita verrebbe restituita comunque, indipendentemente dalla nostra memoria o dalla nostra volontà. Quando si restituisce qualcosa di solito si ringrazia. Perché si è consapevoli di aver usufruito di un bene e ne si avverte il giovamento. Della vita sappiamo ringraziare? Consci di non averla ottenuta per i nostri meriti, spesso la abbandoniamo con un certo fastidio. A meno che non siamo sopraffatti da dolori irreversibili, cerchiamo sempre delle proroghe. E anche coloro che oggi fanno tentativi per ibernare il proprio corpo, e vorrebbero continuare a vivere in futuro, magari in eterno, molto probabilmente anch’essi dovranno restituire la vita. Qualcuno ringrazia Dio per aver preso parte ad un’esperienza straordinaria e pensa di restituire a lui la vita in prestito; altri esprimono una sorta di soddisfazione del pensiero, consapevoli di essere inseriti in un cosmo complesso che eccede la comprensione individuale e collettiva. Ciò che abbiamo ricevuto in prestito: libro, terreno o vita, possiamo però usarlo efficacemente per crescere e per potenziare noi stessi, ma, secondo Lucrezio, non dovremmo mai lamentarci per la restituzione. In questo senso i filosofi dell’antichità dicevano che gli uomini sono stolti a reclamare altro tempo. Lucrezio scrive che l’uomo è come un «pozzo senza fondo» che non si accontenta mai, sempre pronto a esigere nuovi tempi supplementari. Ma se è stato in grado di gioire per quello che ha avuto e non si è disposto nei confronti della vita come un «paiolo bucato» che mai si potrà riempire d’acqua, dovrà anche imparare gradualmente a cedere alla «necessità ineluttabile» dell’esistenza. Va da sé che il problema per gli uomini è sempre legato alla restituzione. Quello che abbiamo non lo restituiamo facilmente, vogliamo tenerlo per noi, magari per un tempo illimitato. Si può restituire la vita ringraziando, come pensavano epicurei e stoici, godendo del tempo avuto a disposizione e mettendolo a frutto. C’è tuttavia una differenza tra restituire un abito di scena affittato per una recita e restituire la vita. Si indossa l’abito di scena, poi lo si cede, ma si rimane quelli di prima. Cosa rimane di noi dopo la restituzione della vita? C’è ancora differenza tra soggetto e oggetto? Secondo Lucrezio la restituzione è totale. Ci sarà ancora altra vita, quella della natura, ma non ci saremo più noi. La poetessa polacca Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996, ha scritto una bellissima poesia su questa tematica dal titolo: “Nulla è in regalo”. «Nulla è in regalo, tutto è in prestito. / Sono indebitata fino al collo. / Sarò costretta a pagare per me / con me stessa, / a rendere la vita in cambio della vita. / È così che è stabilito, / il cuore va reso / e il fegato va reso / e ogni singolo dito. // È troppo tardi per impugnare il contratto. / Quanto devo / mi sarà tolto con la pelle. // Me ne vado per il mondo / tra una folla di altri debitori. / Su alcuni grava l’obbligo / di pagare le ali. // Altri dovranno, per amore o per forza, / rendere conto delle foglie. // Nella colonna Dare / ogni tessuto che è in noi. / Non un ciglio, non un peduncolo / da conservare per sempre. // L’inventario è preciso, / e a quanto pare / ci toccherà restare con niente. // Non riesco a ricordare / dove, quando e perché / ho permesso che aprissero / questo conto a mio nome. // La protesta contro di esso / la chiamiamo anima. / E questa è l’unica voce / che manca nell’inventario». Szymborska e Lucrezio hanno punti di vista differenti: la prima ritiene che l'anima sia esclusa dalle cose da restituire, il secondo è convinto che anche tale voce faccia parte dell’inventario.
Un caro saluto,
Alberto