La locuzione latina «homo
faber fortunae suae», «l’uomo è
artefice del proprio destino», attribuita al politico e letterato romano
Appio Claudio Cieco (IV-III sec. a.C.), è stata ampiamente rielaborata da uno dei più noti umanisti italiani, Giovanni Pico della
Mirandola. Pico, purtroppo, non è diventato longevo: è morto
a 31 anni, e solo qualche anno fa i Ris di Parma hanno scoperto che è stato
avvelenato con l’arsenico, due mesi dopo l’altro grande umanista e suo amico, Angelo
Ambrogini, il Poliziano. Pico della Mirandola è morto il 17 novembre 1494, lo
stesso giorno in cui l’esercito di Carlo VIII entrava a Firenze, dando inizio
alla prima delle guerre per conquistare l’Italia. Pur avendo scritto molte
opere filosofiche, è ricordato da tutti per un breve testo che nel corso del
tempo è diventato l’emblema della concezione dell’Umanesimo: l’ “Oratio de
hominis dignitate”, il “Discorso sulla dignità dell’uomo”. Pico compone questo
discorso nel 1486, quando ha 23 anni. All’inizio del testo egli dice di aver
letto negli antichi libri degli Arabi che il saraceno Abdallah, interrogato su
quale cosa gli sembrasse massimamente degna di meraviglia nel
mondo, aveva risposto che «niente vi appare di più meraviglioso dell’uomo». Per
carità, pare che tutti gli uomini nel corso della storia abbiano sottoscritto
convintamente questa intuizione: analfabeti e sapienti hanno sempre ribadito
che l’uomo è sovrano della natura per acutezza dei sensi, intuito, ragione, capacità
creativa e per altre varie e indiscutibili abilità. D’altra parte, l’uomo è un
essere in grado di comprendere gli oggetti eterni della matematica e di
costruire strumenti complessi per il lavoro o per la conoscenza, di orientarsi
nel mondo; di pensare Dio, l’eterno, e il fluire del tempo, ossia i
processi della storia. Un essere che fa da tramite tra il necessario (ciò che
non muta) e il contingente (ciò che è transitorio); definito «interstizio tra
l’immobile eternità e il fluire del tempo» oppure «imeneo del mondo», vale a
dire intermediario tra il mondo angelico e quello bestiale. Il limite più
elevato del mondo animale e, nello stesso tempo, l’estremità inferiore di
quello celeste. Ma a Pico della Mirandola queste analisi, che certamente condivide,
non sono ancora sufficienti. Egli invita a mettere a fuoco un altro aspetto: la
condizione dell’uomo, quella che ha avuto in sorte nell’universo intero. Avventurandosi
in una breve sintesi della concezione teologica e cosmologica del tempo, egli afferma
che Dio, «sommo Padre e architetto», ha posto gli angeli nell’iperuranio, ha
animato le sfere celesti con gli spiriti beati e ha popolato la Terra, «il
mondo inferiore» composto di parti «sozze e fangose», con svariate specie
animali. Alla fine interpreta in modo mirabile la peculiare condizione umana,
affermando pertanto che Dio: «Prese dunque l’uomo, questa creatura di aspetto
indefinito, e, dopo averlo collocato al centro del mondo, così gli si rivolse:
«O Adamo, non ti abbiamo dato una sede determinata, né una figura tua propria,
né alcun dono peculiare, affinché quella sede, quella figura, quei doni che tu
stesso sceglierai, tu li possegga come tuoi propri, secondo il tuo desiderio e
la tua volontà. Tu, che non sei racchiuso dentro alcun limite, stabilirai la tua natura in base al tuo
arbitrio, nelle cui mani ti ho consegnato. Ti ho collocato come centro del
mondo perché da lì tu potessi osservare tutto quanto è nel mondo. Non ti
creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, in modo tale che tu,
quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa
foggiarti nella forma che preferirai. Potrai degenerare negli esseri inferiori,
ossia negli animali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo animo, essere
rigenerato negli esseri superiori, ossia nella creature divine». E più avanti, chiarendo le peculiarità dell’essere
apparentemente più privilegiato della natura, scrive: «Chi non ammirerà questo
nostro camaleonte?». Già, l’uomo è considerato un camaleonte che può assumere
forme diverse e mutuare le caratteristiche dall’ambiente con cui desidera
identificarsi. Sappiamo bene che l’uomo è sottoposto ai vincoli della natura,
della cultura, della genetica, ma sappiamo che nonostante questi limiti e i molteplici
condizionamenti ogni persona può comunque essere artefice del proprio destino. Pico
della Mirandola ci ricorda quanta responsabilità è affidata a ciascun individuo.
L’uomo è dunque «faber», artefice. La
parola «faber» ricorda il fabbro,
colui che manipola e forgia il metallo, perché con l’energia del proprio corpo,
la robustezza degli attrezzi e con il calore del fuoco imprime ad esso la forma
che desidera. «Faber» deriva dal
verbo «facere», ossia “fare”.
Attraverso l’azione progettuale, è possibile correggere e affinare la propria
natura, fino ad assomigliare sempre più al proprio ideale. Ognuno può variare,
trasformare e migliorare il destino o almeno la propria sorte, «fortunae suae», immettendo una direzione
alla vita, conferendole scopi che si accordano con le idee che ritiene consone
alla propria visione del mondo. Essere artefici significa essere creatori e,
come dice il filosofo, ogni uomo è un’opera d’arte che si scolpisce gradualmente
dall’interno: le scelte ripetute e l’adesione a determinati princìpi fisseranno
a poco a poco i colori di questo prodigioso e singolare camaleonte.
Alberto
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