Il grande umanista e libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci ha
definito Nicola Cusano «poverissimo cardinale» che né «la pompa, né
la robba stimò molto», in quanto era profondamente dedito allo studio. I
suoi interessi furono molteplici: matematica, filosofia, politica, religione.
Alcuni libri, come “La concordanza universale” e “La pace nella fede”,
che trattano temi religiosi e politici, sono stati tradotti e pubblicati per la
UTET nel 1971 da un nostro illustre conterraneo, don Pio Gaia (1922-2003), originario
di Vezza d’Alba. L’anno dopo, Graziella Federici-Vescovini ha pubblicato invece
le opere filosofiche, tra cui “La dotta ignoranza”, composta dal
filosofo nel 1440. Il tema centrale della sua ricerca è legato alla conoscenza.
«Dotta ignoranza» è un ossimoro. Perché un accostamento tra termini così
fortemente contrastanti? Un po’ perché, come dicono i suoi biografi, Cusano
cercava di stupire e di creare concetti nuovi, un po’ perché tale espressione
ricorda la professione di ignoranza di Socrate («so di non sapere»)
grazie alla quale il filosofo greco era stato definito l’uomo più sapiente di
Atene. A Cusano sta a cuore il rapporto fede-ragione, una questione già a lungo
affrontata nel periodo della Scolastica medievale. Non si può avere una «scienza»
di Dio, ossia una conoscenza precisa, ma solo una «sapienza». Qualunque
tentativo di racchiudere Dio in un concetto, definirne il perimetro con la
ragione, è destinato a fallire. E allora: «Nessun’altra dottrina più
perfetta può sopraggiungere all’uomo (anche più diligente) oltre quella di
scoprire di essere dottissimo nella sua propria ignoranza: e tanto più uno sarà
dotto, quanto più si saprà ignorante». Per la ragione finita, legata al
principio di non-contraddizione, capace di procedere in modo lineare nella
dimostrazione, non c’è alcuna possibilità di giungere a racchiudere in concetti
esaustivi la complessità di Dio. È un po’ il limite del software che vivifica
il nostro corpo: le applicazioni della nostra mente sono certamente
eccezionali, ma circoscritte; un po’ come quelle del pipistrello che permettono
al mammifero di orientarsi nello spazio, ma non di vedere una scritta
bidimensionale su una parete o distinguere le indicazioni «entrata» e «uscita»
in un cinema. Gli applicativi del nostro cervello per quanto potenti non
sarebbero in grado di codificare una dimensione che supera quella del finito.
Ogni tentativo compiuto in tale direzione è inadatto a rappresentare Dio,
esattamente come il disegno di un bambino è lontano dal restituire fedelmente l’immagine
dei propri genitori. Dio è infinito e immenso. Cusano lo definisce – con
un’immagine tratta dalla geometria – «una sfera infinita il cui centro è
dappertutto e la circonferenza in ogni luogo». Che rapporto possiamo avere
con una sfera infinita? Non c’è proporzione alcuna. Noi stiamo alla verità come
il poligono al cerchio: «Quanti più angoli avrà il poligono inscritto, tanto
più sarà simile al cerchio: tuttavia, non sarà mai uguale, anche se avremo
moltiplicato i suoi angoli all’infinito, a meno che non si risolva
nell’identità con il circolo». Possiamo dunque aumentare enormemente il
numero del lati di un poligono inscritto in un cerchio, ma nessun poligono sarà
sovrapponibile ad esso. Solo una figura con un numero infinito di lati
combacerà con il cerchio, ma una perfetta coincidenza uomo-Dio è impossibile
perché l’essere umano non può eludere le proprie caratteristiche. Se ci
rendiamo conto che «Dio è incomprensibile per l’immensità della sua
eccellenza», abbiamo dunque compreso che cos’è la «dotta ignoranza».
Intuiamo che c’è qualcosa che supera la ragione e che ad essa non si può
ridurre. Siamo certi dunque di ignorare, e tale cognizione fa di noi dei
piccoli dotti, ferrati nella comprensione di ciò che sappiamo e di ciò che
ignoriamo. Spesso si dice che l’ignorante non può sapere che cosa ignora.
Quando gli Europei non erano mai stati in America, non solo non si curavano
delle popolazioni che vivevano là, ma non sapevano neppure che cosa ignoravano
e non potevano immaginare. Era un vuoto di sapere profondo e incolmabile.
Invece, per quanto riguarda la conoscenza di Dio l’uomo può intuire che Dio
esiste ma, nonostante tutti gli sforzi, la sua comprensione sarà sempre
inadeguata. La nostra ignoranza è dunque “dotta”, solo se riusciamo ad
immaginare la nostra insufficienza. In un’altra opera intitolata “Le
congetture”, l’autore scrive che «ogni proposizione affermativa circa il
vero, che l’uomo può formulare, è una congettura. L’accrescimento
dell’apprendimento del vero, infatti, non si esaurisce mai». Chi pertanto
sa che la conoscenza di Dio è inesauribile, è dotto; chi pretende di giungere
ad esso è stolto. È il vero ignorante, in quanto ignora che Dio è
inconoscibile. Possiamo incrementare la nostra conoscenza solo se c’è
proporzione tra ciò che sappiamo in un dato momento e ciò che dobbiamo
conoscere. A partire dalla scuola dell’infanzia, ogni anno, infatti,
incrementiamo il nostro sapere. Gradualmente. Ma con ciò che è massimo non c’è
più proporzione e il nostro apprendimento non ha più parametri di riferimento.
Così, in “La caccia della sapienza” (1463), Cusano ribadisce che «Dio
è più grande di ogni concetto e di ogni scibile». E più avanti afferma che
Proclo «solamente, che ha avuto intuizioni più profonde degli altri
filosofi, ha detto che si sarebbe meravigliato se avesse potuto trovare Dio, e
più ancora se, trovatolo, fosse riuscito a divulgarlo».
Un caro saluto,
Alberto
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