Capita un po’ a tutti – ed è capitato anche al buon Cartesio
– di riconoscere che nei nostri pensieri abbiamo accolto fin dalla tenera età
informazioni illusorie e che i ragionamenti che poggiavano su di esse erano
quantomeno discutibili e tali da condurci in errore. Ci sono momenti nella vita
in cui occorre «rimuovere e rovesciare»
le vecchie conoscenze e ricominciare da zero, magari proprio dalle fondamenta.
Cartesio sa che si tratta di un’impresa «immane»
ed estenuante non solo per l’uomo comune. Pensiamoci bene: da dove provengono
le informazioni e i convincimenti che abbiamo? Dai sensi e dalla tradizione. Purtroppo
talvolta i sensi sbagliano: le strade non rimpiccioliscono a distanza e le mani
poste in un secchiello pieno d’acqua non aumentano di volume; così, anche la
tradizione viene spesso smentita da scoperte inattese e nuove acquisizioni. Secondo
Cartesio è bene «non fidarsi mai completamente di coloro che una sola volta ci hanno
ingannato». Consideriamo poi che persino i sogni ci inducono a credere vere
realtà che invece sono fittizie e che talvolta non ci è facile distinguere tra
la veglia e il sonno: una tapparella che cade può far visualizzare la
ghigliottina e proiettarci ai tempi della rivoluzione francese; allora tremiamo
di paura fino a quando non ci svegliamo, perché crediamo che non sia affatto
uno scherzo e preferiremmo sapere di avere la testa dove l’avevamo lasciata la
sera prima di addormentarci. Alla fine occorre ammettere che le presunte verità
sono vacillanti e che forse è meglio lasciare aperta la porta al dubbio, per
evitare di aderire con passione a ciò che non si può asserire con certezza. Se
poi dietro l’organizzazione del mondo, invece di un Dio, fonte di verità, ci
fosse un genio maligno sommamente potente e astuto che si diverte ad
ingannarci, noi crederemmo vere cose che non lo sono senza neppure la possibilità
di rendercene conto. Uno potrebbe dire: «beh,
due più due fa quattro anche nei sogni. Vi
è quindi almeno una corrispondenza tra ciò che accade in sogno e ciò che accade
nel mondo reale». L’ipotesi del genio maligno, però, non è una stravaganza.
Fuori dalla metafora, vuol dire che se la nostra modalità di condurre i
ragionamenti – così come la struttura del calcolo – fosse difettosa, penseremmo
di ragionare e conteggiare in modo corretto senza fiutare l’abbaglio. Bizzarro?
No. Immaginiamo di viaggiare in auto e di avere la convergenza delle ruote non
perfettamente allineata. Se non avessimo punti di riferimento precisi, saremmo
convinti di procedere dritto, ignari che un lieve scostamento dell’asse della
ruota già dopo pochi chilometri ci porterebbe molto lontano dalla direzione
desiderata. Se tutte le auto avessero poi tale difetto, tutti viaggerebbero con
una deviazione inconsapevole credendo di procedere su un rettilineo. Facciamo
allora il punto della situazione: i sensi ci deludono, facciamo fatica a
distinguere il sonno dalla veglia, a volte anche la ragione deduce informazioni
sbagliate, e non sappiamo se il nostro software è stato progettato bene o è difettoso.
Tutto questo getta un po’ di inquietudine nella mente umana e potremmo dire con
Cartesio: «come improvvisamente caduto in
un gorgo profondo, sono così agitato da non riuscire né ad appoggiare i piedi
sul fondo, né a risalire a nuoto in superficie». Che cosa possiamo
affermare di certo? Possiamo anche illuderci della nostra esistenza? Cartesio
dice di no, perché il genietto potrebbe confonderci su quello che avvertiamo (il
mio corpo è diverso da come lo percepisco) e su quello che pensiamo (le idee
possono non avere un rapporto con la realtà), ma se noi ci inganniamo proprio nel
momento in cui pensiamo, ciò significa che quel «qualcosa che pensa» e si inganna deve pur esistere per essere
ingannato. Scrive il filosofo: «Non
possiamo dubitare senza esistere mentre dubitiamo; e questo è ciò che per primo
veniamo a conoscere quando filosofiamo con ordine». Ed ecco allora che
Cartesio è pronto per affermare la sua scoperta: «E notando che questa verità “Io penso, dunque io sono” era così ferma e certa che tutte le più
stravaganti supposizioni degli scettici non erano in grado di scuoterla,
ritenni che potevo accoglierla, senza scrupolo, come il primo principio della
filosofia che cercavo». Approfondendo la tematica, egli si rende conto che
il pensiero e la materia sono davvero diversi, come l’acqua e l’olio. Il
pensiero non ha estensione, cioè non ha dimensioni, mentre la materia deve per
forza avere qualche dimensione, seppure piccolissima. Parla così del pensiero come
di una «cosa pensante non estesa», «res cogitans, non extensa», e della
materia come di una cosa estesa, ma non pensante. Secondo l’autore in noi
convivono due realtà completamente diverse: il pensiero e l’estensione, la
mente e la materia, la ragione e il corpo. La materia è estesa e quindi
divisibile, il pensiero è inesteso; la materia è finita, il pensiero infinito;
la materia è inconsapevole, il pensiero è consapevole. Da qualche parte deve
però esistere una sorta di interfaccia che li collega. Cartesio individua il
collegamento nella «ghiandola pineale» («conarium»),
ossia l’epìfisi, una ghiandola posta nel cervello. Scrive il filosofo: «C'è nel cervello una piccola ghiandola in
cui l'anima esercita le sue funzioni più specificamente che non nelle altre
parti». Già, ma pensiero e materia sono ancora troppo diversi per poter
interagire tra loro. L’uomo, da questo momento, difficilmente può scorgere la
propria unità.
Un caro saluto,
Alberto
Alberto
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