Può essere curioso che i filosofi abbiano considerato che si
deve «imparare a morire». Si potrebbe pensare – se proprio è necessario apprendere qualcosa di importante –, perché
non “imparare a vivere felici”? La
felicità è in fondo preferibile ad ogni obiettivo, tanto che Aristotele diceva
che tutti i beni sono conseguiti come mezzi in vista della felicità Ad esempio,
di solito si cerca il lavoro in funzione della gratificazione personale o per
accrescere il proprio reddito; si compra una casa nuova per avere più spazio e
più comodità: gratificazione, reddito, comodità servono ad essere più felici, ma
la felicità non è conseguita in funzione di altro. Per questo è un fine e non
un mezzo. Capire e sperimentare che cos’è la felicità potrebbe essere dunque il
compito prioritario dell’uomo. Oggi vengono offerti molti manuali di autoaiuto:
prontuari che promettono di risolvere qualche aspetto dell’esistenza: si
propongono di far scomparire qualche carenza relazionale e di perfezionare delle
abilità. Imparare «a gestire le emozioni», «a parlare in pubblico», «a studiare», «ad affrontare i problemi in modo positivo», «a suonare uno strumento», «a
parlare fluentemente una lingua», «a
cucinare». Sono abilità per la vita, per vivere meglio. Ma imparare a
morire può essere considerata un’abilità fondamentale? Ci serve a vivere meglio
o è preferibile – come diceva Spinoza – che l’uomo si dedichi alle meditazioni
sulla vita, tralasciando i pensieri sulla morte? Nel corso dell’esistenza di
solito si ampliano le conoscenze, si instaurano relazioni, si realizzano
progetti e poi si muore. La morte accade, ed è l’evento che accomuna tutti gli
esseri viventi. Non sarebbe meglio non pensarci? Cicerone nelle “Discussioni Tusculane”, ritiene invece
che sia necessario affrontare tale riflessione e addirittura che sia importante
«abituarsi a morire». Dialogando con
un giovane su tali questioni, nella villa di Tusculo, vicino a Frascati, nel 45
a.C., egli afferma: «La morte infatti è
per così dire il distacco e la separazione, lo strappo di quelle parti che
prima della morte erano tenute da qualche giuntura». Per questo dice al suo
interlocutore: «Perciò, dà retta a me,
esercitiamoci a ciò e teniamoci disgiunti dal corpo, cioè abituiamoci a morire».
Cosa intende con l’espressione “abituiamoci
a morire”? Come stoico sa quanto è importante svincolare l’anima – la
ragione – dalle eccessive distrazioni del corpo, dagli affari e dal piacere
stesso. Più l’uomo conduce una vita razionale, più è autonomo. In questo senso,
se la maggior parte degli uomini è così ossessivamente legata ai beni materiali
e ritiene che la vita coincida con il massimo possesso o col massimo godimento di
questi, allora separarsi progressivamente dal corpo è un venir meno a ciò che
la massa considera vita, ed è dunque un abituarsi a morire. Egli invita
pertanto a far sì che la condotta di ciascuno sia perfetta, ineccepibile, e a
liberare progressivamente l’anima dal corpo. Ricorda che Socrate si è preparato
a lungo alla morte e l’ha affrontata con dignità. Non ha cercato avvocati per
il processo e non si è rivolto in modo supplichevole ai giudici, ma ha parlato
con fierezza. Non è evaso di prigione, anche se avrebbe potuto farlo senza
difficoltà, e quando ha dovuto bere la cicuta ha parlato in modo tranquillo. Era
calmo. Sapeva che all’uomo si presentano due strade: il sonno eterno o una
dimensione diversa al cospetto degli dei. Socrate non temeva né l’una né l’altra.
Se tutto finisce, aver vissuto in coerenza con la giustizia e con le leggi sarebbe stato sufficiente. Se si apre un’altra dimensione, allora chi si è
comportato in modo virtuoso non ha nulla da temere. Socrate fa l’esempio dei
cigni che, prima di morire, cantano. Egli afferma: «cantano allora il loro canto più lungo e più bello, presi come sono
dalla letizia che di lì a poco se ne andranno al dio di cui sono devoti». E
così dovrebbero comportarsi le persone sagge e virtuose. La sapienza consiste
nel saper prendere congedo gradualmente da tutto ciò che lega al mondo e da ciò
che è effimero. Anche Montaigne ritiene che eludere il problema della morte sia
il «rimedio del volgo», mentre le
persone serie hanno il dovere di «guardare
in faccia la negatività». Per questo egli dedica un intero capitolo dei “Saggi” al tema: «imparare a morire». Egli rivela che il pensiero della morte è
sempre stato presente nella sua vita, anche nella sua stagione più dissoluta. La
meditazione sulla negatività dell’esistenza non deve condurre però alla
paralisi dell’azione, alla depressione dell’umore, alla rinuncia ai progetti,
ma deve semplicemente gettare luce sulla condizione umana. Scrive l’autore: «I bambini hanno paura perfino dei loro amici
quando li vedono mascherati, e così noi. Bisogna togliere la maschera alle cose
come alle persone». Togliere la maschera alla morte e accettarla come parte
della vita. Montaigne insegna a rapportarsi in modo corretto alla vita e a non
illudersi, perché la morte può sorprendere ad ogni età. Imparare a morire altro
non è che un modo di relazionarsi con l’esistenza che consente all’uomo di
distinguere ciò che è essenziale da ciò che è accessorio. Il più grande
vantaggio di tale consapevolezza è che chi ha imparato a morire, ha «disimparato a servire». Scrive il
filosofo: «È incerto dove la morte ci
attenda, attendiamola dovunque. La meditazione della morte è meditazione della
libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Il saper morire ci
affranca da ogni soggezione e costrizione».
lunedì 8 novembre 2021
Imparare a morire
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