Se si possiedono nozioni migliori per deviare i corsi
d’acqua o nelle tecniche agricole si possono ottenere raccolti più abbondanti;
se si apprendono le lingue e le leggi di un paese si possono realizzare affari eccellenti
nel commercio riducendo impedimenti e seccature. Gli uomini hanno sempre conosciuto
e sperimentato i nessi formidabili tra «sapere
e potere», ma a stabilire una sorta di accordo indissolubile, perentorio e
soprattutto irreversibile tra queste due dimensioni è stato Francesco Bacone, filosofo
londinese e Lord Cancelliere sotto il regno di Giacomo I d’Inghilterra nella
prima metà del Seicento. Bacone ha una grande idea: ricostruire dalle fondamenta
le scienze, le arti e tutta la conoscenza del proprio tempo. Pensa così ad un
titolo pomposo: “Instauratio magna”,
“La grande instaurazione”. La
pianificazione è ambiziosa e accurata; tuttavia, nel 1620 si affretta a dare
alle stampe solo alcune sezioni – l’introduzione e la seconda parte intitolata
“Nuovo Organo” –, perché nel caso
fosse morto («se gli capiterà di morire»)
avrebbe almeno potuto indicare ai suoi contemporanei la nuova direzione che,
secondo lui, la conoscenza avrebbe dovuto intraprendere. Se il merito
principale di Galileo Galilei è stato quello di aver inventato metodo
scientifico, quello di Bacone è stato quello di aver messo in luce il profondo
legame tra la scienza e la tecnica, tanto da essere stato considerato il «profeta» dell’età della tecnica. Già nel
1597 in una famosa formula, contenuta in uno dei suoi “Saggi” intitolato “Meditationes
sacrae” aveva scritto: «nam et ipsa
scientia potestas est», «poiché la
scienza è di per sé una potenza». Aveva individuato non solo una semplice
relazione tra «sapere e potere», ma una
corrispondenza profonda, un’identità totale tra queste due attività umane, che
viene di solito viene tradotta nella locuzione «sapere è potere». Egli considerava infruttuosa la condizione delle
scienze a lui contemporanee e che fosse opportuno indicare nuove strade all’intelletto
umano. Giudicava il sapere dei Greci una «sorta
di infanzia della scienza», una forma di erudizione «sterile di opere» e riteneva che alla scienza del proprio tempo mancasse
la funzione produttiva, ossia la capacità di generare nuove invenzioni. Secondo
l’autore le scienze erano rimaste quasi immobili rispetto al passato e non erano
ancora in grado di generare un progresso incessante. Scriveva sconsolato: «spesso, non solo le asserzioni restano mere
asserzioni, ma anche i problemi restano problemi, che dalle discussioni non
vengono risolti». Si entusiasmava invece per le arti meccaniche, perché di
queste avvertiva la forza crescente e travolgente. Diceva: «si sviluppano ogni giorno di più e sono
sempre più produttive». Nell’illustrazione del frontespizio dell’ “Instauratio magna” egli pose pertanto un
vascello a tre alberi e a vele spiegate che sta per varcare le Colonne
d’Ercole. Sotto l’immagine c’è una frase del profeta Daniele: «Multi pertransibunt et augebitur scientia»,
«Molti passeranno di qui e la scienza
aumenterà». Se in passato molte scoperte furono conseguite «per caso e per circostanze fortunate» egli
ambiva a fornire all’uomo gli strumenti idonei per superare continuamente i
propri limiti. All’inizio dell’ “Instauratio
magna” dice gli uomini non conoscono bene le proprie forze e forse confidano
troppo poco su di esse. Sembra dunque che anche le scienze abbiano le loro
colonne d’Ercole «fatali», perché talvolta gli uomini non sono spinti a
superarle «né dal desiderio né dalla
speranza». Ritiene pertanto che occorra passare dalla contemplazione del
mondo – che può certo anche dare appagamento e felicità –, alla sua
manipolazione grazie alla tecnica, la sola arte in grado di modificare la realtà a vantaggio di tutti, per cambiare il destino e la fortuna del genere umano. Egli
sa bene che «la scienza e la potenza
umana coincidono», e che i benefici delle invenzioni possono riguardare tutta
la specie. Se si considera la grande differenza tra la vita degli Europei del
Seicento e quella dei popoli che vivevano in un’area più selvaggia e barbara
nelle Americhe, Bacone afferma allora che «l’uomo
è un Dio per l’uomo», non solo per gli aiuti che l’uno può fornire all’altro,
ma anche se si confrontano le loro rispettive realizzazioni. Bacone ritiene che
le differenze tra le culture non dipendano dal terreno, dal clima o dalla
costituzione fisica, ma solo dalle arti. Oggi diremmo dalla tecnica. Basta
considerare tre invenzioni rivoluzionarie: l’arte della stampa, la polvere da
sparo e la bussola. Scrive l’autore: «Queste
tre scoperte hanno cambiato la faccia del mondo e le condizioni di vita sulla
terra: la prima, nelle lettere; la seconda, nell’arte della guerra; la terza,
nella navigazione». Tanto che nessun regno, nessuna setta, nessuna stella
sembra aver esercitato maggiore influenza sulle vicende umane rispetto a tali «scoperte meccaniche». Qual è allora l’ambizione che deve sorreggere la
specie umana? Per Bacone un obiettivo sano e nobile è quello di «estendere
il dominio del genere umano a tutte le cose». Con il suo metodo induttivo si
propone così di «accelerare e anticipare
la scoperta al più presto, subito e simultaneamente». Ma se «dalla ignoranza della realtà derivano
innumerevoli danni», che cosa può derivare da questa fiducia nell’accelerazione
continua del “progresso”?
un caro saluto,
Alberto
un caro saluto,
Alberto
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