Ecco capovolta l’idea di Hobbes: non più «homo homini lupus», ma «homo homini deus». Tale sentenza si
trova probabilmente per la prima volta nel commediografo romano Cecilio Stazio del
III-II sec a.C. Tra i frammenti delle sue numerose opere troviamo infatti il
detto: «homo homini deus est, si suum
officium sciat» («l'uomo è un dio per
l'uomo, se conosce il proprio dovere»). Vicino alla cultura stoica, egli sa
che chi conosce che cosa è importante per se stesso e ha la determinazione per
compierlo ha il dominio su di sé: si colloca pertanto ad un livello più alto
dell’uomo comune, è come un dio. Compiere il dovere è l’apice della saggezza
umana ed è il modo in cui l’uomo può essere felice riuscendo a governare i
propri istinti senza esserne subordinato. Il grande umanista rinascimentale Erasmo
da Rotterdam negli “Adagi”, una
grande raccolta di proverbi e detti del mondo greco e romano, afferma che tale
frase si usa in attribuzione «a chi
apporta una salvezza improvvisa e insperata o vi contribuisce con un grande
beneficio». Chi aiuta il prossimo è per lui come un dio. Chi contribuisce a
migliorare la vita dell’uomo, soccorre qualcuno, gli salva la vita, gli fa dei
favori, fa le veci di un dio. C’è una bella espressione tra due amici che
riassume perfettamente questo concetto: «certo,
in tutte le altre circostanze tu mi sei sempre stato molto amico, ma in questa
occasione non solo ti sei confermato tale, ma direi quasi che, come recita il
proverbio greco, ti sei comportato tu, “uomo,
da dio con un uomo”». Questa idea viene ribadita con maggior enfasi dal
filosofo tedesco dell’Ottocento Ludwig Feuerbach nel libro “L’essenza del Cristianesimo” (1841).
Feuerbach è un autore fortemente critico della religione: egli pensa che le
caratteristiche di Dio siano quelle dell’uomo. Ritiene pertanto che gli uomini debbano
passare dall’amore di Dio a quello interpersonale e considera la forma più alta
(divina) di relazione umana il prendersi cura dell’altro. Scrive l’autore: «la suprema e prima legge dev'essere anche
praticamente l'amore dell'uomo per l'uomo. Homo homini Deus est – questo è il più alto principio pratico,
questo il punto di svolta della storia universale. I rapporti del bambino con i
genitori, del coniuge col coniuge, del fratello col fratello, dell'amico con
l'amico e, in genere, dell'uomo con l'uomo, in breve, i rapporti morali, sono di per sé, veramente, rapporti
religiosi. La vita è in generale, nei suoi rapporti essenziali, sostanziali, di
natura assolutamente divina». In ambito cristiano San Paolo nella prima
lettera ai Corinzi si focalizza sul tema della carità: la considera una virtù eccellente,
«la più grande di tutte», ma a
differenza di Feuerbach ritiene che tale qualità sia quella che avvicina
maggiormente l’uomo a Dio, e per questo afferma che «la carità non avrà mai fine». Si riferisce a questo concetto anche
il maestro di San Girolamo, Gregorio di Nazianzo, nel suo discorso su “L’amore dei poveri”, quando dice: «se imiti la misericordia di Dio, tu stesso
sarai un dio per il misero, perché l’uomo non ha nulla di così divino come il
fatto di poter fare del bene». Speculari le due interpretazioni: quella
atea sottolinea che l’amore è la forma suprema di relazione umana, quella
cristiana ritiene che l’amore, nella forma della carità, avvicini a Dio, perché
come dice l’evangelista Giovanni «Dio è
amore». La locuzione antica assume un significato diverso in Baruch Spinoza.
Per Spinoza la mente umana è una parte dell’intelletto infinito di Dio, e Dio è
la struttura razionale del cosmo. Quando l’uomo vive secondo la propria natura
autentica, ossia la ragione, vive in Dio. Si libera dai tormenti dei desideri e
comprende che Dio è l’intelaiatura del mondo. Si dedica a questa comprensione e
ha questo principale interesse: sentirsi parte di quell’infinita sostanza. L’uomo
depone la veste animale, bruta, e fonda la propria beatitudine sulla
comprensione razionale. «Amor dei
intellectualis», perché ama Dio non con un amore passionale, ma con un
amore intellettuale, come se avesse compreso di essere parte di una grande
struttura, come se un numero si rendesse conto di far parte di una grande
equazione e gioisse di essere contenuto in essa. Scrive l’autore: «Quanto maggiore è la conoscenza di Dio che è
implicata dall’essenza della mente, tanto maggiore sarà anche la cupidità con
cui chi segue la virtù desidera per gli altri il bene che appetisce per sé».
L’uomo è allora una sorta di dio per l’altro uomo e si sforza affinché anche
gli altri amino il bene, perché chi è guidato dalla ragione desidera anche per
gli altri il bene che brama per sé. Il bene supremo è la conoscenza di Dio e la
mente umana si accorda con natura divina essendo anch’essa razionale. Una nuova
connessione tra “homo” e “deus” è stata immaginata dallo storico israeliano Yuval
Noah Harari. In “Homo deus. Breve storia
del futuro” (2018) egli mostra come l’uomo coltivi l’ambizione di
trasformarsi «al rango di divinità», e
desideri convertire l’Homo sapiens in
Homo Deus. In futuro avverrà
probabilmente una grande trasformazione della natura umana – oggi ancora
inimmaginabile – con i potenti strumenti tecnologici: dai progressi biologici
alle commistioni con i computer. Gli uomini dovranno proteggere il genere umano
e il pianeta dai rischi legati al grande potere dell’uomo. Non sappiamo se sarà
un bene, perché, dice l’autore, «nessuno
ha uno straccio di indizio di dove ci stiamo dirigendo con così tanta fretta».
Un caro saluto,
Alberto
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