Ridere o «Beffarsi
della filosofia è filosofare veramente» («Se moquer de la philosophie, c'est vraiment philosopher»), dice Blaise
Pascal e sembra evocare il commediografo Aristofane che nella commedia “Le nuvole” si era beffato di Socrate e
del suo tentativo di razionalizzare la vita. Lo aveva posto dentro una cesta
sospeso a mezz’aria a riflettere su argomenti stravaganti con aria austera: una
beffa dall’effetto comico garantito. Non si avviliscano coloro che amano la filosofia
occidentale, il suo procedere razionale, le sue indagini abissali, le sue
sferzate al senso comune e alle tradizioni consolidate. La filosofia non è
scomparsa, la sua luce non si è spenta: conserva sia la funzione di sospetto
nei confronti di ogni forma di ingenua credenza e di disincanto nei confronti
delle illusioni, sia quella di illuminare gli aspetti più intricati e ambigui
della vita individuale e interpersonale. C’è persino una filosofia come terapia
ai mali dell’anima che dagli stoici agli epicurei sino ad oggi non smette di
ridurre le ansie dell’uomo proponendosi come farmaco dell’anima. E allora
perché Pascal, il grande matematico e filosofo del Seicento, è così risoluto,
rischiando di dissipare con gelida noncuranza un patrimonio così importante? Dobbiamo
intenderci sul termine filosofia. La filosofia dell’Occidente è un’indagine
razionale sulla realtà, sul modo di conoscere dell’uomo, sui principi etici e
politici, su quelli estetici. Al tempo di Pascal la filosofia aveva prodotto
grandi sistemi razionali nel tentativo di spiegare la realtà, di tenere insieme
finito e infinito, uomo e Dio. Pascal è tuttavia convinto che nessun discorso
razionale sia in grado di spiegare tutto e che nessun sistema possa imbrigliare
fino a ridurre l’infinito nel finito. Scrive l’autore: «Perché insomma, cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto
all’infinito, un tutto rispetto al nulla, un punto medio tra il nulla e il
tutto. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, il termine delle cose
e il loro principio sono per lui invincibilmente nascosti in un segreto
impenetrabile (cosa potrà dunque capire? egli è al più) ugualmente incapace di
scorgere il nulla da cui è tratto e l’infinito dove è inghiottito». Nel
cosmo che lo ospita, l’uomo si trova in una posizione intermedia, in quanto «troppa luce lo acceca, troppo poca luce gli
impedisce di vedere» e dunque la tela che è in grado di costruire con i
fili della ragione è una tela provvisoria e limitata dalla sua stessa condizione.
In fondo nessuna dimostrazione razionale di Dio ha mai convinto alcun uomo
nell’esistenza di Dio né viceversa una controdimostrazione ha allontanato
l’uomo di fede dalle proprie convinzioni. E nessuna indagine razionale ha mostrato
che vi è un accordo universale sui valori, tanto che «due gradi di latitudine e tutta la giurisprudenza è da buttare».
Ciò che è valido in un luogo non lo è in un altro. C’è una sorta di delusione
per i risultati della ragione, non perché Pascal preferisca l’irrazionalità,
perché è sempre lui a dire che «tutta la
nostra dignità sta nel pensiero», ma perché c’è sproporzione tra infinito e
finito e la ragione si rivela impotente di fronte all’impresa sovrumana di adattare
il primo al secondo. Pascal è convinto che la pretesa di una qualunque
costruzione razionale di aderire perfettamente alla struttura del mondo sia
ingannevole e vana. Questa diffidenza nella ragione arriva da lontano. San
Paolo nella “Lettera ai Colossesi”
(62 d.C.) scrive: «Badate che nessuno vi
inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione
umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo». Paolo di Tarso
usa la parola filosofia facendo
riferimento alla sapienza del mondo. Qualche secolo dopo sant’Agostino riprende
questa riflessione nelle sue “Confessioni”.
Nel terzo capitolo dell’opera parla del proprio incontro con la filosofia avvenuto
grazie alla lettura dell’ “Ortensio”
di Cicerone, un dialogo perduto che contiene un’esortazione alla filosofia. Scrive
Agostino: «Ma l'amore della sapienza ha
il nome greco di filosofia, e per quel nome mi accendevo, leggendo» […] e «nel mio cuore divampò un’incredibile
passione per l’immortalità della sapienza». Agostino comincia a dubitare
del valore di tale avventura perché: «Si
può sedurre, con la filosofia: c’è gente che usa il suo grande nome
affascinante e nobile per imbellettare e mascherare i propri errori, e quasi
tutti quelli di questa razza, contemporanei o precedenti all’autore, sono segnalati
e bollati in quel libro». Pascal non cerca dunque né di affascinare né
rapire il suo interlocutore con sottili ragionamenti logici né di abbellire un certo
sistema filosofico con parole avvincenti. Egli sa che l’uomo è un mistero: un
elemento insignificante nell’universo racchiuso in una vita effimera, ma allo
stesso tempo è anche grande, perché in grado di abbracciare con il pensiero
l’idea dell’infinito. La filosofia scettica del suo tempo metteva in luce solo
l’impotenza dell’uomo, quella dogmatica solo la grandezza. Tuttavia per il
filosofo l’uomo è una unità inscindibile di miseria e grandezza che nessuna
filosofia è in grado di decifrare. Poi, nella notte del 27 novembre del 1654, Pascal
vive un’esperienza mistica che gli cambia la vita. Per questo dirà che «L’estremo passo della ragione consiste nel
riconoscere che esiste un’infinità di cose che la trascendono. Essa è soltanto
debole se non arriva a riconoscerlo». Ridere della filosofia significa
allora mantenere alta tale consapevolezza.
Un caro saluto,
Alberto
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