Le abitudini sono gesti quotidiani che semplificano la vita e che ci permettono di migliorare nella professione. Sappiamo che abitudine deriva da “habitus” e l’abito è ciò che indossiamo tutti i giorni. L’abitudine è dunque un’attività quotidiana che disciplina il nostro comportamento affinché possiamo raggiungere un certo obiettivo. Ci sono abitudini positive o dannose. Alcune aiutano ad affinare le abilità nel lavoro, nello sport o in un’arte. Altre hanno a che fare con i vizi e sappiamo quanto sia difficile cambiare un comportamento alimentare, una credenza o una routine. Aristotele dice che l’etica nasce dall’abitudine: i fenomeni che avvengono in natura si realizzano per un certo meccanismo, ma non possono cambiare abitudine. Una pietra cade verso il basso per natura e non può abituarsi a sollevarsi verso l’alto neppure se provassimo a lanciarla migliaia di volte in quella direzione. Con l’esercizio e la pratica gli uomini possono sia diventare buoni, sia perfezionare le loro attività: «costruendo case diventiamo architetti e suonando la cetra diventiamo citaredi», scrive il filosofo. La ripetizione quotidiana di alcuni comportamenti può produrre effetti positivi o negativi. Se ci abituiamo a lavorare bene diventeremo buoni costruttori, se ripetiamo sviste e imprecisioni diventeremo pessimi costruttori. Aristotele dice che qualcosa di analogo avviene anche in riferimento alle virtù. Scrive nell’ “Etica nicomachea”: «a seconda del nostro agire nelle relazioni con gli uomini diventiamo gli uni giusti, gli altri ingiusti; e a seconda di come ci comportiamo nei pericoli, abituandoci o ad aver paura o ad aver coraggio diventiamo gli uni coraggiosi, gli altri vili». Si può essere iracondi oppure miti, generosi o avari, altruisti o egoisti, guerrafondai o pacifisti perché si sceglie il modo in cui reagire ai problemi. Anche l’amicizia ha qualcosa a che fare con l’abitudine. Aristotele sostiene che «quelli che hanno eguali abitudini divengono camerati: e perciò anche l'amicizia fraterna assomiglia a quella cameratesca». Così, anche l’amicizia tra compagni di classe o tra colleghi di lavoro spesso nasce da abitudini comuni e valori condivisi. Blaise Pascal colloca la riflessione sull’abitudine in una dimensione teologico-esistenziale. Scrive nei “Pensieri”: «Che cos’è più difficile: nascere o riscuscitare? Che chi non è mai stato sia, o che chi è stato sia ancora? È più difficile venire all’essere che ritornarvi? L’abitudine ci fa sembrare facile la prima cosa, la mancanza di abitudine rende l’altra impossibile. Che maniera popolaresca di giudicare!». La consuetudine delle cose che vengono al mondo può creare in noi un senso di assuefazione piuttosto che di stupore. Egli è anche convinto, come Aristotele, che la ripetizione di determinati comportamenti virtuosi renda l’uomo virtuoso: «ci si abitua così alle virtù interiori attraverso le abitudini esteriori». Afferma pertanto che vi sono tre mezzi per credere: la ragione, l’abitudine e l’ispirazione, ma una volta che la mente ha visto la verità della religione cristiana per l’autore è l’abitudine a conservare la persuasione nelle persone. Il filosofo che più di ogni altro ha analizzato tale concetto è lo scozzese David Hume. Convinto che è l’abitudine a fondare le nostre conoscenze sul mondo esterno, nel “Trattato sulla natura umana” egli afferma che gli uomini collegano la causa con l’effetto proprio grazie al continuo ripetersi degli eventi. Scrive infatti: «Quando siamo abituati a vedere due impressioni congiunte fra loro, l' apparire o l'idea dell'una ci conduce immediatamente all'idea dell'altra». La fiamma e il calore, il peso e la solidità fanno sì che noi associamo rapidamente l’uno all’altra. Egli afferma inoltre: «In primo luogo possiamo osservare che la presupposizione che il futuro assomigli al passato non si fonda su altri argomenti che quelli derivati interamente dall'abitudine, che ci determinano ad aspettarci per il futuro la medesima sequenza di oggetti a cui siamo già stati abituati. Questa abitudine o determinazione a trasferire il passato nel futuro è piena e perfetta; e, di conseguenza, il primo impulso dell'immaginazione in questo genere di ragionamenti è dotato delle stesse qualità». Quali sono le conseguenze di questo ragionamento sul piano della conoscenza? Davvero molte, per questo egli distingue tra «verità di ragione» e «verità di fatto». Le prime sono proprie della matematica, per cui partendo da qualche premessa si deduce necessariamente una conclusione: 3+2 fa 5 ad ogni latitudine e in ogni tempo. Pensare ad un altro risultato significa cadere in contraddizione. Per quanto riguarda invece le «verità di fatto», ossia quelle che ricaviamo dall'esperienza, Hume sostiene che il contrario di un fatto è sempre possibile. Infatti, non è contraddittorio pensare che il Sole non sorga e neppure è contraddittorio pensare che il legno non galleggi. È solo l’abitudine che ci induce ad avere determinate aspettative. Quando constatiamo che un fatto accade tante volte ci attendiamo che accadrà ancora. Se tuttavia non è contraddittorio che un fenomeno non si presenti, allora prima o poi esso potrà non verificarsi. Tra 5 miliardi di anni il Sole non sorgerà più. Se le nostre conoscenze si fondano solo sull’abitudine, significa che non possiamo avere delle certezze definitive. Possiamo fare solamente un po’ di statistica. Hume ha così scosso le certezze della fisica. Sarà Kant che, svegliato dal «sonno dogmatico», ossia delle ingenue aspettative umane, cercherà di trovare un altro fondamento alla conoscenza.
un caro saluto,
Alberto
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