«L’uomo è nato libero
e ovunque si trova in catene», scrive Jean Jacques Rousseau nel “Contratto sociale” (1762). Una frase
giustamente famosa e così impegnativa da non essere certo un’estrapolazione marginale
della riflessione dell’autore: si trova infatti scritta nel libro primo al
capitolo primo dell’opera. Letta ora, nel momento della guerra in Europa,
questa sentenza ha un suono diverso, che rivela altri aspetti. Vorremmo che gli
uomini vivessero in pace e in libertà e ci rendiamo conto che alcune
oppressioni pesantissime limitano profondamente la vita. Non solo le catene dell’ignoranza,
degli istinti e dei desideri indotti dalla natura animale e oggi anche dal
consumismo esasperato, ma anche quelle – apparentemente impercettibili, ma che
possono affiorare con rapidità e mostrare la loro spropositata solidità –
generate da uomini o da Stati che possono disporre arbitrariamente delle vite
altrui. Rimaniamo a Rousseau. Siamo nel Settecento, poco prima della Rivoluzione
francese. I dibattiti politici si concentrano sul ruolo dello Stato: se sia
preferibile una monarchia assoluta (Hobbes) o una monarchia costituzionale
(Locke), se gli uomini siano da considerarsi liberi quando sono fuori dalla
comunità (“stato/condizione di natura”) o quando fanno parte di uno Stato con
delle leggi comuni; se gli uomini abbiano dei diritti inalienabili (“diritti
naturali”) che nessuno può loro togliere o se i diritti siano una concessione
dei sovrani; se di fronte all’autorità costituita gli uomini debbano essere
considerati “sudditi” – arbitrariamente sottomessi ad essa – o “cittadini”, persone autonome in grado di
autogovernarsi. Rousseau riflette sul ruolo dello Stato e dice che è proprio nella
comunità statale – costruita dal basso –, ossia dalla volontà dei cittadini, che
gli uomini possono conseguire la libertà, in quanto essi obbediscono alle leggi
che hanno scelto per autodeterminarsi. La libertà, dunque, è l’elemento principale
da cui partire. Fa parte dell’essenza stessa dell’uomo. Scrive infatti il
filosofo: «Rinunciare alla propria
libertà vuol dire rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti
dell’umanità e anche ai propri doveri. Non esiste alcun risarcimento possibile
per chi rinuncia a tutto. Una tale rinuncia è incompatibile con la natura
dell’uomo». Tuttavia, al tempo, la maggior parte delle persone non era
libera. Basta leggere i discorsi dei ribelli a qualche forma di oppressione. Così
scrive, ad esempio, un giamaicano nelle Antille britanniche: «Io sono nato libero, ma mia madre e mio
padre erano schiavi; eppure sono ancora schiavo anch’io, costretto a lavorare
un giorno dopo l’altro. Non ricevo neppure i soldi sufficienti a sfamare la mia
famiglia». Ma non faceva ancora grande problema la schiavitù dei neri verso
i bianchi: erano le libertà dei bianchi nei confronti dei loro sovrani ad
incendiare gli animi. L’affermazione che «l’uomo
nasce libero» non è dunque ricavata da un’osservazione empirica, ma è un
ideale da condividere per lottare contro le ingiustizie. Il filosofo Norberto
Bobbio, ne “L’età dei diritti” (1990),
scrive: «Che gli uomini fossero liberi ed
eguali nello stato di natura descritto da Locke all’inizio del “Secondo
trattato sul governo civile”, era un’ipotesi razionale: non era né una
constatazione di fatto né un dato storico ma era un’esigenza della ragione che
sola avrebbe potuto capovolgere radicalmente la concezione secolare secondo cui
il potere politico, il potere sugli uomini, “l’imperium”, procede dall’alto in
basso e non viceversa». Secondo Rousseau il potere deve dunque derivare dal
basso. Pertanto, se gli uomini sono in catene, allora occorre creare un patto
tra i cittadini, un “Contratto sociale”,
e quindi un nuovo «corpo politico», ossia uno Stato in grado di restituire la
libertà all’uomo. Essere liberi, per Rousseau, significa obbedire solo alle
leggi che sono espressione della “volontà generale” degli uomini che le hanno
scelte. I giuristi dicono che la legge è contemporaneamente “garanzia” ed “espressione” di libertà. È “garanzia
di libertà” perché sottrae all’arbitrio della volontà di dominio di una o
più persone, ed è “espressione di libertà”
perché rappresenta la concretizzazione dei valori di una comunità, che decide di
dare una legge a se stessa e di non subirla dall’imposizione di soggetti
esterni. Il popolo è pertanto “sovrano”, perché è l’autore delle leggi che lo
condizionano e a cui decide di obbedire. La vera libertà allora è la libertà
civile, non quella naturale. La libertà naturale – quella fuori dallo Stato – è
legata alla forza e alla potenza di ogni singolo individuo, ma può essere
sopraffatta da una forza superiore esercitata da un altro uomo. La libertà
civile è quella garantita dalle leggi che gli uomini hanno scelto. I governi
sono dunque incaricati sia di eseguire le leggi sia di preservare la libertà
civile e politica. Gli uomini, quando si uniscono per deliberare, si
impegnano a far prevalere la loro razionalità sugli istinti e sui loro desideri.
Rousseau chiama questa volontà: “volontà
generale” e la distingue dalla “volontà
di tutti”. Quest’ultima è legata ancora ai vantaggi dei singoli e al
prevalere degli interessi particolari. La «volontà
generale» si ha quando si ragiona come comunità, nell’interesse collettivo.
Scrive Rousseau: «finché un Popolo è
costretto a obbedire e obbedisce fa bene, appena può scuotere il giogo e lo
scuote fa ancora meglio». Perché si assume la libertà di autodeterminarsi.
Un caro saluto,
Alberto
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