La conclusione della “Critica della ragion pratica” [1788] di Immanuel Kant è assai nota. Contiene la celebre frase che poi sarà in parte scolpita sulla sua tomba: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di venerazione sempre nuove e crescenti, quanto più sovente ed a lungo si riflette sopra di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». «Il cielo stellato sopra di me», indica lo stupore dell’autore per le meraviglie della fisica, dell’astronomia, delle regolarità del cosmo, mentre la «legge morale dentro di me» denota l’incanto per una dimensione esclusiva dell’essere umano che lo rende diverso dagli altri esseri viventi, dominati presumibilmente in modo completo dalle leggi della fisica e della biologia. Kant dice che nell’uomo c’è qualcosa che si sottrae alla necessità della natura. Eppure tutti i fenomeni sono di natura fisica: l’acqua bolle a 100 gradi, gli oggetti cadono a terra per la forza di gravità, il colore del volto può dipendere da un’alterazione della composizione del sangue, la statura è determinata dalla genetica. Persino le nostre azioni sono spesso reazioni a certi stimoli e i nostri comportamenti, anche quelli morali, sono condizionati dalla nostra educazione, dalla tradizione a cui apparteniamo, dalla nostra specifica sensibilità, dal temperamento, dai suggestioni che abbiamo avuto in passato, dalla nostra capacità di essere o meno empatici. Poiché non possiamo sapere se agiamo sotto la spinta di qualche condizionamento consapevole o inconscio non possiamo certo avere la certezza di produrre scelte libere e autonome. Kant dice che la libertà va cercata sul piano della ragione, perché su quello della fisica siamo sottoposti al suo meccanismo esattamente come gli altri esseri viventi. La ragione, allora, non è solo “teoretica”, ossia non ha solo una funzione conoscitiva, ma è in grado anche di muovere l’azione, e quindi è anche “pratica”. Pratico in filosofia non significa “concreto”, “utile” o “efficace”. Deriva da “praxis”, “azione”, e indica che la ragione è in grado di scuotere l’agire («fai sport due volte alla settimana», «non mangiare carne»). La ragione è “pratica”, dunque, perché in grado di orientare il comportamento. Ovviamente non tutte le indicazioni della ragione sono morali, alcune sì. Quando vogliamo muovere l’azione usiamo infatti i verbi all’imperativo: “fai questo”, “non fare quest’altro”. Kant distingue gli imperativi in “ipotetici” e “categorici”. Sono ipotetici i comandi subordinati ad una ipotesi: “Devi studiare, se vuoi essere promosso”, “devi dire la verità, se non vuoi finire in galera”. Secondo Kant se vi è un obiettivo che condiziona la nostra azione, questa non è ancora un’azione morale. Gli imperativi categorici sono invece incondizionati: nel linguaggio di Kant sono chiamati “puri”, ossia “a priori”, non dipendono dall’esperienza né dall’utile. Comandano di compiere il dovere per il dovere: “Di’ la verità”, perché è giusto dire la verità, non perché ne ricavi qualche vantaggio. Secondo il filosofo allora: «Non c’è dunque che un solo imperativo categorico, cioè questo: agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale». Una massima è un’indicazione personale soggettiva. Per sapere se il nostro proposito è morale dobbiamo vedere se può diventare una legge valida per tutti. Ecco un esempio: «Quando credo di aver bisogno di denaro, ne prendo a prestito promettendo di restituirlo, benché sappia che non lo farò mai». Cosa accadrebbe se la mia massima diventasse una legge universale? Se tutti promettessero sapendo di non poter restituire, verrebbe meno il senso della promessa e sarebbe impossibile accettare patti o giuramenti. Generalizzando un’intenzione personale possiamo scoprire se essa può valere come legge universale e comprendere dunque se un’azione è morale o meno. Poi sta a noi decidere quale comportamento seguire. Per parlare di morale occorre però far riferimento alla libertà dell’uomo. Se l’uomo non fosse libero e i suoi atti fossero completamente determinati dalla natura non si potrebbe parlare di morale, per questo Kant afferma che «la libertà è senza dubbio la “ratio essendi”[la condizione di esistenza] della legge morale». Come facciamo però a mostrare che esiste la libertà? Secondo Kant quando l’uomo avverte il dovere morale e comprende ad esempio che è giusto dire la verità, può decidere di affermarla oppure può optare di dire il falso. Siamo liberi non perché possiamo fare ciò che vogliamo – perché in questo caso i nostri atti potrebbero essere determinati dalla natura o da inclinazioni di cui non siamo a conoscenza –; siamo liberi perché avvertiamo l’obbligo morale con la ragione. La ragione ci dice che cosa è giusto fare e la scelta dipende da noi. A partire dall’obbligo morale scopriamo la nostra libertà. Nelle parole dell’autore «la legge morale è la “ratio cognoscendi” [modo in cui vengo a conoscere] della libertà». Chi ha barato al gioco e magari ha ottenuto un guadagno, sa di aver barato e sapeva che cosa era giusto fare, ma poi ha scelto come interagire: se ingannare oppure no, se essere degno o indegno, virtuoso o disonesto. Gli altri potranno non scoprire mai l’imbroglio, ma il soggetto sa come si è comportato: conosceva ciò che era giusto e ha compiuto la propria scelta. Sentiva il dovere di dire la verità, ma ha preferito mettere a tacere tale voce e anteporre il proprio vantaggio. È solo sul piano della morale che l’uomo ha accesso alla libertà.
Un caro saluto,
Alberto
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