Nel 1818 il filosofo di Danzica Arthur Schopenhauer pubblica
la sua opera principale intitolata “Il
mondo come volontà e rappresentazione”. Secondo l’autore, il mondo è
rappresentazione perché il cervello umano, come tutti i software ha delle
regole di funzionamento e pertanto non è detto che rifletta esattamente la
realtà esterna: rimanda piuttosto ad un mondo organizzato dalla proprie
strutture. Gli uomini collegano ad esempio tutti i pensieri con la categoria di
causa-effetto. Quando parlano, interpretano, ragionano o motivano le azioni, immettono i fatti uno dietro l’altro come
i pezzettini di carne sullo spiedo. Lo spiedo è il filo della narrazione: la
connessione causa-effetto. Ogni idea o teoria sul mondo è vincolata ad
un’organizzazione per cause. Come si esce allora dalla rappresentazione?
Immaginiamo che il pensiero sia come il ronzio delle parole della radio. Se
ruotiamo sullo zero la manopola del discorso e ci imponiamo di ascoltare cosa
accade dentro di noi, riduciamo interpretazioni e giudizi sino a farli
scomparire. Ci ritroviamo così ad ascoltare le pulsioni del corpo. Anche il corpo
parla ed ha un suo linguaggio. È come se l’uomo avesse pertanto due
soggettività: una, quella della mente, di cui è consapevole e che gli permette
di pensare e fare delle scelte, e l’altra - imponente ma meno vistosa - che resta
inconscia per lungo tempo, quella che produce le ragioni della specie fissate nel
corpo. Qualcuno ha parlato di una sorta di doppia vita: beninteso, non quella
de “Lo strano caso del dottor Jekyll e
del signor Hyde” (1886) di Robert Louis Stevenson, in cui nello stesso uomo
ci sono due personalità: una buona e una malvagia. Non si tratta di questo, ma
si tratta di due vite che convivono nello stesso individuo: soggettività e
specie; della prima siamo consapevoli e dell’altra assai meno. Abitiamo un
corpo, ma spesso ignoriamo le sue ragioni. Le interpretiamo, cerchiamo di
fornire spiegazioni plausibili, gradite a noi e agli altri. E qui interviene la
rappresentazione. Ma ci sono infinite ragioni che sorpassano le nostre
giustificazioni. Le ragioni del corpo non sono quelle dei nostri pensieri né
delle nostre parole. Parafrasando Pascal, possiamo dire che il corpo ha le sue
ragioni che la ragione non conosce. E le ragioni di ogni essere vivente sono
quelle di riprodurre la vita. Così, sebbene con un senso diverso da quello del
libro di Stevenson, possiamo dire che «l’uomo
non è veracemente uno, ma veracemente due». Dice infatti Arthur Schopenhauer:
«Ecco una verità grave, spaventosa e
inquietante: il mondo è volontà». Che cosa significa dire che il mondo è «volontà»? Si potrebbe dire che la vita è
energia, dire che quell’energia è “volontà” significa che l’autore vuole
sottolineare una particolare determinazione ad esistere di tutto ciò che si
trova nel mondo. Al tempo del filosofo si usava anche il concetto di forza.
Schopenhauer vuole però che al termine forza sia sostituito quello di volontà. Scrive
infatti: «Voglio che ogni forza della
natura sia pensata come volontà». Così c’è una volontà nella natura, in
ogni essere vivente e in ogni uomo come propensione ad esistere e a replicare indefinitamente
la propria specie. Quali sono le caratteristiche di questa volontà? Apparentemente
cerchiamo di motivare i nostri desideri, di riportarli ad una scelta cosciente:
cerco quel cibo perché mi piace, voglio ascoltare quella musica perché mi è
congeniale, voglio fare una passeggiata perché mi fa bene. Ma perché vogliamo?
Sappiamo che le nostre spiegazioni seguono e giustificano i desideri, ma siamo
consapevoli che molte ragioni degli atti della nostra volontà ci sono
completamente sconosciute. Possiamo sì giustificare il movente di un’azione, ma
non siamo sicuri che la spiegazione adottata sia la vera ragione che ci spinge
a realizzare uno scopo. Per questo il filosofo afferma che: «Io non conosco la mia volontà nel suo complesso,
né nella sua unità, né nella pienezza della sua essenza; la conosco, invece,
nei suoi singoli atti». La parte inconscia non è affatto malvagia, ma segue
una sua direzione indipendentemente dalle idee e dalle ragioni del soggetto cosciente.
Schopenhauer mostra che questa energia pervade tutta la natura e che solo l’uomo
è consapevole di essa. L’agire degli animali non è guidato da una rappresentazione
consapevole: la volontà agisce anche senza conoscenza dei soggetti. Scrive l’autore:
«L’uccello di un anno non ha alcuna
rappresentazione delle uova per le quali costruisce un nido; il giovane ragno
non ne ha alcuna della preda per la quale tesse la sua tela; né ce l’ha il
formicaleone della formica alla quale per la prima volta scava una fossa.[…] È
evidente che, negli atti di questi animali, come pure nel resto delle loro
azioni, è la volontà che agisce; si tratta però di un’attività cieca,
accompagnata ma non guidata dalla conoscenza». Viviamo allora due vite: una
in cui crediamo di essere i soggetti che decidono liberamente sul proprio futuro
e un’altra che ci prevede come funzionari della specie. Per Schopenhauer la
soggettività della natura è molto più forte di quella individuale: non ha uno
scopo da raggiungere, ma opera esclusivamente per mantenere le specie. Come il
dottor Jekyll diceva di essere in «guerra
perenne di me con me stesso», anche noi lottiamo quotidianamente per
armonizzare i nostri desideri e le ragioni del nostro corpo.
Un caro saluto,
Alberto
Nessun commento:
Posta un commento