Sappiamo che la società contemporanea è ossessionata dal
cibo. Beh, forse ogni società lo è stata, in quella distinzione che ha storicamente
contrapposto penuria, carestie e morte di molti uomini, all’eccedenza di cibo per
pochi privilegiati. Tuttavia, la nostra società è tormentata in modo differente:
non c’è canale televisivo che non proponga trasmissioni di cucina, gare tra
chef, ricette della tradizione o invenzioni culinarie inedite con l’obiettivo
di stupire. Per non parlare delle riviste specializzate, dei canali youtube e
di tutte le varietà di cucina: da quella casalinga a quella dei ristoranti
stellati che suggeriscono nuovi accostamenti per far gioire immaginazione e palato,
e giustificare così il prezzo finale, questo sì davvero stellato. E poi tutte
le riflessioni di dietologi e medici che spiegano le mutazioni che il cibo cagiona
al corpo, insieme a quelle di psicologi e psicoanalisti che mostrano le nostre
debolezze e le nostre dipendenze. Nessuno dubita che ci sia un rapporto stretto
tra salute psicofisica e alimentazione. Ma l’iperbole del nostro tempo è questa:
una smisurata enfatizzazione del cibo. C’è ovviamente un forte legame tra gli
alimenti e la salute, a partire dalla semplice ragione che c’è qualcosa nel
cibo che diventa corpo. Lo aveva già spiegato bene Anassagora di Clazomene nel
V sec. a. C. Anassagora era un fisico pluralista, insieme a Empedocle di
Agrigento e a Democrito di Abdera. È stato il primo a portare la filosofia ad
Atene. Secondo Anassagora nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutte le cose si
trasformano, perché formate da parti piccolissime ed eterne di materia – “i
semi” – che, aggregandosi e disaggregandosi, producono tutti i vari oggetti
presenti in natura. Ad un certo punto, però, gli oggetti si dissolvono, come i
pezzi di un puzzle che va in frantumi. Il puzzle cade a brandelli, ma le
tessere – i semi (o gli atomi, dirà Democrito) – non svaniscono nel nulla e si
possono ricombinare in molti modi diversi. Anassagora si spinge oltre e afferma
che nell’oro, ad esempio, sono presenti in prevalenza i semi dell’oro, ma in
minoranza ci sono anche quelli di tutte le altre sostanze. Egli intende dire
che ogni oggetto contiene in prevalenza i semi del composto che lo definisce,
ma racchiude in misura minore anche i semi di tutti gli altri elementi. Tale affermazione
può sembrare sibillina o semplicemente una deviazione nell’irrazionale. Perché
Anassagora si è spinto a tanto? Vediamo. Se metto una matita nella tasca della
giacca, domani infilando la mano in tasca dovrei ritrovare la matita. Ma se
introduco una mela nello stomaco, dopo poco tempo non trovo più la mela: il mio
corpo ne ha estratto delle sostanze, l’ha scomposta in parti piccolissime e
quei minuscoli mattoncini vanno piano piano a formare i vari tessuti. Ecco il
colpo di genio di Anassagora: la materia si trasforma e per trasformarsi deve
contenere non solo un elemento, ma molti. Per produrre il sangue non dobbiamo
colmare il suo livello come si fa quando si colma una bottiglia di vino da una
botte, né dobbiamo mangiare delle ossa per permettere l’allungamento dell’omero
o del femore. Oggi sappiamo che la mela che abbiamo mangiato contiene acqua,
proteine, lipidi, zuccheri, fibre, vitamina C, potassio, calcio e ferro e altri
costituenti. Contiene le sostanze di cui abbiamo bisogno e che vanno a modellare
i vari tessuti del corpo: racchiude dunque “i semi” di altre realtà. Anassagora
aveva proposto un ragionamento corretto: parti infinitesime di altre sostanze
sono dunque presenti in ogni elemento. Vi è un filosofo dell’Ottocento che ha
ripreso la riflessione sul cibo fornendo una nuova valutazione. Per Ludwig
Feuerbach «l’uomo è ciò che mangia» («der Mensch ist, was er ißt»). In tedesco
c’è anche un gioco di parole, “ist” (è) e “ißt” (mangia) hanno lo stesso suono:
sembra pertanto che tra l’essenza dell’uomo e il cibo ci sia una corrispondenza
profonda. Feuerbach ha proposto tale riflessione sia nel 1850, nella recensione
intitolata “La scienza naturale e la
rivoluzione” del libro di Jakob Moleschott “Teoria degli alimenti per il popolo”, sia nel 1862 nel saggio “Il mistero del sacrificio, ovvero l’uomo è ciò che mangia”. Jakob
Moleschott era un medico materialista olandese, divenuto poi professore di
Fisiologia sperimentale all’Università di Torino (1860), cittadino italiano e
senatore del regno d’Italia nel 1876. La “Teoria
degli alimenti” era una sorta di riassunto per il popolo di una sua opera
voluminosa scritta per medici e naturalisti dal titolo “Fisiologia degli alimenti”. Un trattato molto popolare in Germania,
immediatamente tradotto in francese, inglese, olandese, russo e nel
1871 anche in italiano da Giuseppe Bellucci, professore di chimica
all’università di Perugia. Moleschott scriveva: «Il nutrimento ha cambiato il gatto selvaggio in gatto domestico. L’animale carnivoro dall’intestino corto è
divenuto, per la continua abitudine, un essere del tutto diverso, con intestino
lungo, capace a digerire i vegetabili, de’ quali non poteva nutrirsi nello
stato di natura». E così la sua natura vorace si è modificata e il gatto si
è adattato a far compagnia a uomini e a bambini. Ma, chiede Moleschott: «E noi dovremo meravigliarci nel vedere
popoli diventare irrequieti o pacifici, rigorosi o snervati, coraggiosi o
codardi, intelligenti o stupidi, a seconda degli alimenti con i quali si
nutrono?». Ora, se il cibo ci costituisce e ci modifica, davvero l’uomo è così
determinato da ciò che mangia?
Un caro saluto,
Alberto
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