Se per il chimico Justus von Liebig e per il fisiologo Jakob
Moleschott ha senso dire che l’uomo è ciò che mangia, perché il cibo si
trasforma nelle cellule e nei tessuti del corpo, per il filosofo materialista Ludwig
Feuerbach la correlazione tra cibo ed essenza dell’uomo si carica anche di riflessioni
politiche e sociali. Feuerbach ha davanti a sé la società del periodo dello
sviluppo industriale dell’Ottocento: vede il popolo soffrire la fame. È ancora
Moleschott a descrivere perfettamente quell’epoca: «Riguardiamo ancora una volta l’esempio dell’Inghilterra; senza dubbio
vi si vedono migliaia di operai delle fabbriche abbandonati alla fame ed alla
miseria, ed i loro vivi lamenti, ognora crescenti, salgono incessantemente
verso i palazzi dei ricchi». E ancora: «Chi
non conosce la condizione privilegiata del lavoratore inglese, irrobustito dal
roastbeef, rispetto al “lazzarone” italiano, la cui alimentazione
prevalentemente vegetale spiega gran parte della sua inclinazione
all’indolenza?». Feuerbach sa che non si può parlare dell’uomo in astratto,
perché l’uomo è fatto di carne e ossa, vive in precisi contesti storici, soffre
la miseria e la denutrizione. È per questo che nell’articolo “La scienza
naturale e la rivoluzione” (1850), afferma: «Se volete migliorare il popolo, allora dategli cibi migliori, invece di
prediche contro il peccato. L’uomo è ciò che mangia. Chi si nutre solo di cibi
vegetali si riduce a un essere che vegeta, privo di energia per agire». Ossessionato
dal rapporto tra alimentazione e povertà, tra nutrimento e realizzazione personale,
egli afferma che le condizioni materiali sono la base per poter migliorare le
condizioni spirituali. Una scarsa alimentazione non consente di esercitare
tutte le funzioni superiori. Chi vive nell’indigenza non può sviluppare
adeguatamente se stesso: chi è costretto a lavorare fin da piccolo non può frequentare
la scuola né coltivare i propri talenti. Feuerbach fa anche notare che, in
passato, gli uomini erano spesso definiti dalla loro alimentazione. Ne “Il mistero del sacrificio, ovvero l’uomo è
ciò che mangia” (1862) egli ricorda che Omero parla di «ippomolgi» («bevitori
di latte equino»), «galattofagi» («mangiatori di blatte») o di «lotofagi»
(«mangiatori di loto») e che geografi e storiografi successivi hanno descritto
i popoli in riferimento alla loro alimentazione: «ittiofagi, «mangiatori di pesce», chelonofagi, «mangiatori di
testuggini», acridofagi, «mangiatori di locuste», strutofagi, «mangiatori di
struzzi», rizofagi, «mangiatori di radici», silofagi e spermatofagi, ossia
uomini che si cibano di bacche e teneri ramoscelli di arbusti selvatici,
agriofagi, «mangiatori di selvaggina», ossia quelli che soprattutto, secondo
Plinio, si nutrono della carne di pantere e leoni, panfagi, coloro che
«mangiano tutto», ofiofagi, «mangiatori di serpenti», quali sono, a detta di
Pomponio Mela, i Pigmei, artofagi o «mangiatori di pane», come, secondo Ateneo,
venivano chiamati gli Egizi per la loro moderazione, e infine, appunto,
antropofagi, i «mangiatori di uomini». In queste associazioni si mette in
luce un preciso rapporto tra le qualità del cibo e le qualità interiori dell’uomo.
Il cibo non determina dunque solo l’essenza dell’uomo (gli dei greci mangiano infatti
ambrosia, cibo immortale, e sono pertanto immortali; l’uomo, che mangia gli
alimenti della terra, è invece mortale), ma anche le sue virtù. Così, anche
secondo Gandhi «l’uomo diventa ciò che
mangia». Scrive infatti l’autore: «C’è
molta verità nel detto che l’uomo diventa ciò che mangia. Più grossolano è il
cibo, più grossolano sarà il corpo». La riflessione di Gandhi apre tuttavia
una nuova interpretazione: non siamo riducibili a ciò che mangiamo: se i cibi ci
trasformano e fanno parte del nostro corpo, l’uomo è qualcosa di più di un
insieme di ferro, carbonio, potassio, calcio, fosforo e altro. L’uomo è
definito soprattutto dal suo sentire e dalla sua ideazione: dai progetti, dai
valori, dalle creazioni, dai pensieri, dagli scritti, dall’arte. Poiché l’uomo può
scegliere cosa mangiare, allora determina la propria natura non solo per ciò
che mangia, ma soprattutto per ciò che non mangia. La lingua tedesca descrive
l’assunzione del cibo da parte dell’animale con il verbo “fressen” (che può essere usato in forma ironica, quando si dice di
certe persone che «mangiano come animali»), mentre utilizza il verbo “essen” per esprimere il mangiare
dell’uomo. Perché creare una differenza nella modalità di assunzione il cibo?
Perché nel sostentarsi, l’uomo non si accontenta di consumare gli alimenti, ma attribuisce
loro dei significati. Il cibo si è così caricato storicamente di contenuti
simbolici e culturali. Scrive infatti Gandhi: «Sento che il progresso spirituale ci richiede di smettere, a un certo
punto, di uccidere le creature nostre compagne per la soddisfazione dei nostri
bisogni corporali». Piano piano l’uomo è definito soprattutto da ciò che
non mangia. Possiamo così rovesciare la frase di Feuerbach e dire: “l’uomo mangia ciò che è”, perché donando
significati agli alimenti, assume ciò che si accorda con la propria visione del
mondo. Così il cibo kosher (adatto) per gli ebrei, halal (lecito) per i
musulmani, le varie forme di digiuno, il rifiuto di alcuni cibi, in particolare
della carne o la scelta vegetariana dicono che l’uomo mangia ciò che è o vuole
essere.
Alberto
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