In una lettera del filosofo tedesco Friedrich Heinrich
Jacobi del 1775 ad un interlocutore che non viene nominato è riportata questa
frase: «Apro gli occhi o le orecchie, o
stendo la mano e in questo stesso istante avverto in modo inseparabile: tu e
io, io e tu»; successivamente, il filosofo giunge a questa sintesi: «senza tu l’io è impossibile». Mezzo
secolo dopo il filosofo Ludwig Feuerbach afferma «la necessità del tu per l'io». Feuerbach mette in luce l’essenza sociale dell’uomo:
come due persone sono indispensabili per generare un individuo di carne e ossa,
così occorrono più persone per originare l’uomo spirituale. Abbiamo bisogno
delle relazioni con gli altri (tu) per
diventare ciò che siamo e per formare la nostra identità (io). Così, servono molte vite per fare una vita e molti libri per strutturare
un uomo e renderlo consapevole e libero. È fondamentale, dunque, l’apporto di
soggetti diversi per consentire ad un uomo di pensare autonomamente. L’altro è dunque
costitutivamente («ontologicamente») imprescindibile
perché ognuno possa formare se stesso, perché ci si educa e si cresce proprio
grazie alle relazioni. Poi Feuerbach si è lasciato un po’ prendere la mano e ha
scritto: «l'uomo preso per sé è uomo (nel
senso usuale del termine); l'uomo insieme all'uomo — l'unità di io e tu — è Dio».
Martin Buber, autore dell’opera “Io e tu”
(1923), un saggio che insieme ad altri è raccolto nel libro “Il principio dialogico” (1962),
ridimensiona un po’ tale euforia e scrive più coerentemente che «l'unità di io e tu è l'uomo (nel senso proprio del termine)». Se
nella relazione si genera l’uomo, allora è fondamentale essere autentici.
Scrive il filosofo: «Non è importante che
uno si «lasci andare» di fronte all'altro, ma è importante che permetta
all'uomo con cui comunica di partecipare al suo essere. Essenziale è
l'autenticità dell'interumano; dove essa manca, neanche l'umano può essere
autentico». Nello stesso anno della pubblicazione dell’opera di Buber
(1962), il filosofo romano Guido Calogero (1904-1986), allievo di Giovanni
Gentile, ma antifascista e pertanto più volte arrestato e costretto al confino
con la famiglia, pubblica un’opera intitolata “Filosofia del dialogo”. Egli afferma infatti che: «Nessuno è più ridicolo di colui che mostra
di avere interesse a conoscere il pensiero altrui solo perché ha interesse a
sostituirlo con il suo». Egli è pertanto convinto che la scelta del dialogo
consenta di evitare di cadere nell’indifferenza o nella presunzione dogmatica.
Le sue parole sono chiarissime: «ho
deciso che non voglio essere fanatico, perché è mio dovere fondamentale quello
di assicurare ad ogni altro la possibilità di convincermi che ho torto». La
parola “dialogo”, deriva da “dia” e “logos”: è la parola (logos)
che attraversa (dia) le persone.
Allora occorre distinguere tra un dialogo-colloquio e un dialogo-soliloquio. La
bellissima poesia di Leopardi “Alla Luna”
è un esempio di soliloquio («O graziosa
luna, io mi rammento / Che, or volge l’anno, sovra questo colle / Io venia pien
d’angoscia a rimirarti […]»). Un dialogo interiore che permette di
sviluppare pensieri, evocare ricordi e sensazioni. Ma non è un’effettiva relazione
con l’altro: alla Luna in fondo facciamo dire ciò che vogliamo, è il pretesto
per le nostre riflessioni. Nel dialogo autentico l’altro invece non è mai in
nostro potere: le sue idee non si lasciano ridurre alle nostre considerazioni, così
la sua alterità in generale non si lascia appiattire né esaurire. Lo scambio costruttivo
può avvenire solo quando il “logos” attraversa i soggetti – chi parla e chi
riceve la parola e poi può restituire altra parola che tiene conto di ciò che
via via emerge dal discorso. Nel dialogo si realizza così il movimento
altalenante dell’onda sulla spiaggia: la parola avanza e torna indietro
ripetutamente arricchita. Così, quando il dialogo è genuino, modifica gli
interlocutori e nella variazione incessante li valorizza entrambi. La
riflessione sulla necessità della relazione per costituire l’uomo è stata
ripresa dalla psichiatria, dalla psicologia e dalla pedagogia. A partire da una
poesia di Friedrich Hölderlin, Eugenio Borgna, uno dei più grandi psichiatri
italiani, ha scritto un libro meraviglioso intitolato “Noi siamo un colloquio” (1999), per mostrare che la cura in
psichiatria non è mai riducibile all’aspetto farmacologico, ma è aperta ad ogni
dimensione dell’esistenza ed ha come base l’ascolto della persona: dal dialogo
interiore ai silenzi che compongono ogni vita. Sul versante pedagogico il poeta
ed educatore Danilo Dolci, per segnalare che ognuno di noi alimenta gli altri e
dagli altri è sostenuto, nel libro “Palpitare di nessi” (1985) afferma che
ogni uomo è un centro di «cordoni
ombelicali in partenza e in arrivo» e che la comunicazione vera è sempre
bidirezionale, proprio come avviene nell’interazione vitale tra la mamma e il figlio
nella gravidanza. Nell’opera successiva, “Dal
trasmettere al comunicare” (1988), egli ricorda invece come l’espressione “mezzi di comunicazione di massa” sia ingannevole
e da sostituire con “mezzi di trasmissione
di massa”, in quanto con la televisione e la radio assistiamo piuttosto ad un’opera
di informazione collettiva che esclude la reciprocità. Chi parla trasmette e
non può essere influenzato, ma Dolci insegna che la relazione io-tu sorregge l’esistenza
ed è la trama meravigliosa di ogni vita.
Un caro saluto,
Alberto
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