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Cor-rispondenze

martedì 28 aprile 2015

Una ricetta per la felicità

felicità
 
Caro professore,
la mia domanda potrà sembrarle banale e scontata, ma voglio porgliela lo stesso. Qual è la ricetta per vivere una vita felice? Tutti quanti gli uomini, per natura, ambiscono a vivere una vita all’insegna della felicità. Si parla spesso di felicità, ma in termini generalmente troppo astratti. Quello che vorrei sapere è come concretizzare questa parola. Capita spesso di parlare molto e di agire poco, come dice correttamente il detto: «tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare». Io vorrei tanto non solo parlare della felicità in termini generici, ma vorrei poterla realizzare e vivere nel vero senso della parola. Esiste (oppure no) una ricetta che indichi quali ingredienti sono necessari per la realizzazione del piatto della felicità? È l’amore l’ingrediente segreto che conferisce alla pietanza quel sapore prelibato e unico, oppure quell’ingrediente è qualcos’altro? La ringrazio per la sua disponibilità.
Marta, IV A

Cara Marta,
Per tentare di risponderti devo innanzitutto superare il giudizio negativo e incomodo che lo storico Georges Minois dà di chi propone ricette sulla felicità. Scrive Minois: «D'altro canto, coloro che ci vendono ricette di felicità sono dei ciarlatani, poiché promettono più di quanto possano mantenere; di costoro si può dire, per lo più, che vendono medicinali, ma non li si può considerare medici» (“La ricerca della felicità”, Dedalo 2010). E poi dovrei tener conto di ciò che scrive il filosofo Salvatore Natoli in un bellissimo studio sulla felicità: «Non esistono affatto ricette di felicità - tanto è vero che esistono gli infelici -, ma indubbiamente esistono modi comuni di concepirla» (“La felicità”, Feltrinelli). Superato dunque un certo disagio – non ho l’intenzione di vendere medicinali senza essere medico e sono consapevole dell’esistenza degli infelici – cerco tuttavia di condividere con te qualche riflessione. Poiché brami una sorta di ricetta, dobbiamo chiederci se esista un rimedio standard o se esso sia del tutto discrezionale. Come per la formula di un tiramisù: esiste un unico rapporto tra uova, mascarpone, zucchero, cacao in polvere, savoiardi e caffè? O sono le varianti regionali, senza caffè o senza uova, con i pavesini o con le gallette, che rendono il dolce più apprezzato a seconda dei diversi palati? Se consideriamo che la felicità possa essere oggettiva, allora ha senso chiedersi che cosa sia la felicità; se riteniamo che la felicità differisca nei diversi individui, allora dobbiamo semplicemente mettere a fuoco cosa ci renda soggettivamente felici. Sappiamo che i modi per essere felici sono tanti: quando si danza, si canta, si gioca, si passeggia, si sta a casa, si viaggia; si fa un progresso nel proprio lavoro, nello studio, quando si realizza qualcosa, quando si sta con persone che si amano, quando si va ad un concerto, quando si esce con gli amici. Se la felicità consiste nel fare esperienze felici, allora essa è più soggettiva che oggettiva. Direi di considerare quattro forme di felicità. C’è una felicità momentanea che accade inaspettatamente o ci attraversa fulmineamente, che permea per un po’ la nostra vita e poi se ne va. Arriva senza sforzo da parte nostra e poi si dissolve, per poi ritornare in nuove occasioni. E c’è una felicità che è congiunta al piacere e al godimento, quella che Freud descriveva così: «Il senso di felicità derivante dal soddisfacimento di un moto pulsionale sfrenato, non domato dall'Io, è senza confronti più intenso di quello ottenuto saziando una pulsione addomesticata» (“Il disagio della civiltà”, 1929). Si può essere felici in molti altri modi e, come diceva il grande poeta Orazio: «... dum licet, ignium / misce stultitiam consiliis brevem: / dulce est desipere in loco. ... e finché tu puoi / mescola una breve pazzia alla saggezza: / a tempo è dolce folleggiare (“Odi”, IV, 12, vv. 26-28)». Dovremmo pertanto saper mescolare una “breve pazzia” alla saggezza, ma per fare questo dovremmo prima aspirare ad essa e conseguirla. Per gli antichi la saggezza era considerata una virtù e consisteva soprattutto nella moderazione e nella giusta misura. Ma al di là della felicità momentanea, di quella che deriva dall’appagamento di un piacere, di quella che deriva dal saper governare se stessi con equilibrio, c’è una quarta esperienza della felicità che ha a che fare con la soddisfazione profonda della propria esistenza. Per raggiungerla bisogna conoscere bene se stessi: ascoltare i propri desideri autentici e tentare di realizzarli. La felicità di una vita intera è data dall’abilità nel dare ascolto alle proprie aspirazioni. Chi non si conosce e non sa tendere l'orecchio ai propri bisogni e alle proprie passioni li subisce e non riesce a governare se stesso né a dare direzione al proprio cammino. Per dare orientamento al proprio percorso, dopo aver compreso i propri bisogni profondi, occorre saper distinguere tra pulsione e desiderio. La pulsione, scriveva Freud, è una sorta di spinta che «fluisce in modo costante dall’interno del corpo» per raggiungere una meta che consiste nel soddisfacimento di un bisogno. Il desiderio è altra cosa: contiene certo la spinta dell’organismo, ma esige che il soggetto sappia rappresentarsi la propria meta e riesca a dare consapevolmente una condotta alla propria energia. Allora ti direi: vivi l’attimo e dai direzione al tuo cammino. All’interno di queste modalità potrai fare una buona esperienza della felicità.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 13 aprile 2015

Le strade facili



Caro professore,
Fin da piccolo mi hanno insegnato che nella vita vince sempre il “bene”, le persone leali ed oneste, ma crescendo mi sono accorto che non è quasi mai così: alla fine la spunta chi fa il furbo, chi prova a fare un cosa nel modo più facile, ma anche più scorretto. Da chi copia nei compiti in classe a chi ruba i soldi ai più poveri, in un sistema chiamato democrazia, ma che di democratico ha solo il nome. Poi sono ancora cresciuto e mi sono accorto di una cosa ancora più vergognosa e allo stesso tempo tragica: a vincere non è né il bene né il male, ma chi impugna per primo la pistola. Perché nella vita vince sempre chi è scorretto e perché il “bene” per avere la meglio sul “male” deve comportarsi come fa il “male”? Perché i genitori ci insegnano a stare dalla parte che tanto avrà la peggio, insegnandoci umiltà, lealtà, onestà, altruismo? Perché basta premere un grilletto per potersi imporre?
Fabrizio, IIID

Caro Fabrizio,
Per fortuna, non ovunque basta premere un grilletto per potersi imporre. Forse, come scriveva Freud nel “Disagio della civiltà”, l’uomo civile, che riducendo le sue libertà pulsionali ha creato la società, avrà anche “barattato un po’ di felicità” per vivere in sicurezza, ma il fatto che non viviamo in una giungla dove prevale la forza bruta è dovuto agli strumenti legislativi della democrazia che, per quanto manchevoli, si sforzano di tutelare i diritti di ciascuno. È stato un percorso lungo per l’Occidente, dalla “Magna Charta libertatum” alle più recenti costituzioni. Certo è innegabile che l’Italia soffra di una “questione morale”, quella che la filosofa Roberta de Monticelli definiva con amara ironia come il “Male nostrum”: privilegi, scorrettezze, corruzioni, impunità, disonestà e molteplici violazioni delle norme elementari della convivenza civile. Ma allora questo significa che i genitori scambiano la realtà con un’idealizzazione, visto che i valori che raccomandano o dicono di favorire non sono vincenti nell’agire collettivo? Hai ragione, se i genitori fanno di tutto per dare cose buone ai loro figli, perché dovrebbero fornire loro strumenti inadeguati e veicolare valori perdenti? Non sarebbe meglio che li imbeccassero con l’astuzia, la malizia o con le virtù di un buon cortigiano, utili arnesi per competere efficacemente e riportare successo? Persino Platone ci ha messo in guardia dai comportamenti degli uomini e ci ha fatto riflettere sulle loro ambivalenze. Nella “Repubblica” afferma che se un uomo possedesse il mitico anello di Gige, quello che rende invisibili, non si asterrebbe dal compiere azioni malvagie. Scrive Platone: «Ebbene, puoi crederlo, non si troverà nessuno di così forte tempra da rimanere fedele alla giustizia, tanto da astenersi dal mettere le mani sui beni altrui, una volta che gli sia data la possibilità, per esempio, di arraffare tranquillamente quel che vuole al mercato, di entrare indisturbato nelle case e prendersi le donne che vuole, di uccidere, di liberare chi vuole dalla prigione, e di fare mille altre cose come un dio tra gli uomini» (“Repubblica”, 360 B-C). Come si fa dunque a resistere alla tentazione dell’ingiustizia e alla contaminazione del male, visto che è ovvio che non prevale sempre il bene? Il fatto che il bene non prevalga “sempre” o che certi valori siano “fuori moda”, non significa che essi siano stati definitivamente sbaragliati, polverizzati dalla contemporaneità. Oggi forse non riusciamo neppure più a comprendere la frase di Democrito «Colui che commette l'ingiustizia è più infelice di chi la subisce», (frammento B45), perché oggi chi commette ingiustizia è spesso assai felice e guarda il prossimo con senso di superiorità o di biasimo. Fatichiamo pertanto anche a capire Socrate che nel “Gorgia” di Platone – discutendo con Polo – afferma che «il male più grande che possa capitare, è commettere ingiustizia. [...] E incalzato dal suo interlocutore che gli ribatte: «Allora tu preferiresti subire ingiustizia piuttosto che commetterla?», egli risponde: «Non vorrei né subirla né commetterla, ma se fossi costretto a scegliere fra le due, preferirei subire ingiustizia piuttosto che commetterla» (“Gorgia”, 469b-474b). Polo ricorda a Socrate che molti uomini ingiusti di successo vengono invece ammirati, come il re di Macedonia Archelao I, figlio di Perdicca e di una schiava, che uccise a tradimento i propri parenti per impadronirsi del trono (471a-d). Socrate focalizza allora l’attenzione su un doppio significato della parola bene. C’è chi lo assimila al successo ad ogni costo e alla reputazione (che, come sappiamo, non sono sotto il nostro controllo né dipendono da virtù autentiche o dal lavoro personale) e chi lo identifica con un certo modo di amministrare la propria vita. Non si suggeriscono certi valori se non si crede che da essi segua un bene. Allora quale bene discende dai valori dei tuoi genitori? Credo un bene intrinseco. Un bene che deriva dal relazionarsi correttamente con gli altri, dal saper costruire una buona vita. Perché in fondo abbiamo bisogno di una vita ordinata e le buone relazioni fatte di «lealtà, onestà e altruismo» ci permettono di conseguirla. Nietzsche, nella “Genealogia della morale”, scriveva che l’uomo giusto è giusto anche con chi gli fa del male. Questo significa che in quella giustizia c’è una sapienza che è legata ad un ordine. Da questo ordine interiore, che il filosofo definiva «un pezzo di perfezione e di suprema maestria sulla terra», deriva un bene così profondo che procura felicità e stabilità superiori ai privilegi più o meno effimeri che derivano dal successo.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 6 aprile 2015

Parole taglienti


 
Caro professore,
In un mondo già circondato dalla violenza gli uomini hanno inventato un ulteriore modo per ferire il prossimo: il linguaggio. Come è possibile che le parole, entità immateriali, possano provocare ferite anche molto profonde nell’anima di una persona, anch’essa priva di materia?
Federico, IV A

Caro Federico,
Quando diciamo che la parola può essere tagliente, pensiamo ad essa non come ad un semplice “flatus vocis”, una grossolana emissione di suoni, ma come ad uno strumento per affilare, ossia dividere, incidere, creare. E ciò che viene impiegato per tagliare può certo essere utilizzato per ferire, ma serve principalmente per “dare forma”. Infatti, anche ciò che è “immateriale” è in grado di avviare o di produrre effetti. Già Edmund Husserl, il fondatore della scuola fenomenologica, aveva scritto che il nostro corpo è «l'unico a non esser mero corpo fisico [Körper], ma proprio corpo vivente [Leib]» (Meditazioni cartesiane, Bompiani 1960). Dire che non siamo corpo fisico significa dire che non stiamo al mondo come oggetti tra gli oggetti, ma che plasmiamo le nostre credenze stabilendo continuamente connessioni. Il corpo diventa oggetto [Körper] quando è cadavere: solo lì esaurisce i nessi con ciò che lo circonda e diventa cosa tra le cose. Diversamente, l’uomo è “corpo vivente [Leib]” e non fa altro che generare legami di senso, ossia relazioni prodotte dal linguaggio. Le parole danno pertanto forma alla vita individuale e fanno male perché se ogni esperienza è organizzata consapevolmente proprio grazie ad esse, significa che esse plasmano il vissuto. Pensa alla sofferenza che si prova quando non è possibile descrivere una sensazione. La poetessa Antonia Pozzi, ne “La porta che si chiude” racconta il dolore per ciò che non riesce ad affiorare: «Oh, le parole prigioniere / che battono battono / furiosamente / alla porta dell'anima / e la porta dell'anima / che a palmo a palmo / spietatamente / si chiude!». Siamo ininterrottamente in rapporto con la parola e la nostra vita non sarebbe tale se non fosse misurata con esattezza dalle descrizioni operate dal linguaggio. La parola ci permette di sondare le profondità dell’animo, di recuperare frammenti del passato, di lenire un dolore, di svelare le nostre inclinazioni, ma soprattutto di generare e di comprendere le nostre esperienze. Una cosa è agire, altro è descrivere la propria azione o intervenire per rettificare l’interpretazione di essa. Un’intelligenza senza parole sarebbe limitata, non potrebbe andare al di là del raggio di azione degli oggetti che le si presentano davanti. Così ci sono parole che uccidono, altre che leniscono il dolore; parole che rendono problematica l’esistenza, altre che liberano dai grovigli invisibili che accompagnano a volte le emozioni. E parole che ci affrancano dal vuoto dell’esistenza o dal senso di noia e ci consentono di emergere dai momenti di crisi. La produzione delle parole apre ad una particolare dimensione del tempo, quella che Henri Bergson definiva del “tempo interiore”. Senza la parola non avremmo passato, non avremmo echi della nostra storia, ma non avremmo neppure la speranza, ossia quel tenue filo di immagini e ideazioni che ci lega al futuro. Vivremmo in un eterno presente fatto di oggetti innominabili. Le parole, però, non solo rendono possibili le esperienze nel tempo, ma dilatano anche il tempo vissuto. La creazione (o ricreazione) dell’esperienza può essere lunga o breve, complessa o superficiale in base ai tasselli che abbiamo a disposizione per costruirla. Come un pittore realizza effetti differenti se ha a disposizione 12 o 48 pastelli, così più è ampio il vocabolario a disposizione più è accurata la descrizione del mondo. È il sapiente uso delle gradazioni (linguistiche) a comporre la nostra esperienza: sia interiore sia esteriore. Ciò che percepiamo viene infatti tradotto in parole e in base a queste entra in relazione con i nostri stati d’animo e produce emozioni e sentimenti. Le parole fanno così durare le cose e ne stabiliscono l’importanza. Se raccontiamo un evento con poche frasi allora quell’esperienza è limitata, ma se troviamo le parole per narrarlo dentro una storia più articolata o in un libro, allora quell’esperienza si accresce e dilata il tempo. Anche la sofferenze più profonde, quelle prodotte dalla violenza che ha negato la dignità agli uomini nei vari campi di tortura, hanno avuto (e hanno ancora) bisogno dell’attenzione della parola o di milioni di parole scritte nei libri. Se manca l’elaborazione dentro un codice espressivo, il vissuto naufraga e lentamente si dissolve fino a sparire definitivamente. Questo nuovo tempo che si genera in noi dà origine alla nostra vita interiore, sostanza della nostra vita autentica. Quando Marcel Proust scrive la Recherche non ci racconta solo in modo prodigioso e raffinato il passato, ma vive quell’esperienza continuamente accresciuta e prolungata. Quelle parole permangono oltre la morte dell’autore e il loro riverbero fa riemergere una vita che incanta e invita a produrre nuove idee e immagini. Quando incontriamo qualcuno, pertanto, non incontriamo solo il suo corpo, ma incontriamo la sua storia, la sua vita. Le sue parole. Allora non è più una questione di immaterialità dell’anima, ma di materialità (ossia consistenza) della parola.  
Un caro saluto,
Alberto