Caro professore,
mi trovo spesso ad osservare la gente dietro ad una qualsiasi finestra.
Vedo le persone vivere in modo frenetico la loro vita: corrono come se fossero
sempre inseguite da qualcuno o qualcosa. Anche io, spesso, mi ritrovo a
correre. A non godermi il momento perché sono in ritardo, perché ho altro da
fare o semplicemente perché sono abituata così. Da piccola non avevo questi
pensieri, lo facevo e basta. Ora, invece, ho cominciato a chiedermi perché.
Perché viviamo tutti le nostre vite in modo frenetico? Perché nessuno si ferma
mai ad osservare un paesaggio? Ho da poco cominciato a pensare che è una cosa
del tutto priva di senso. Fare, fare, fare pur sapendo che le nostre azioni
saranno prima o poi cancellate o dimenticate. Allora, perché continuare a
correre quando si può camminare e godersi di più la vita?Noemi, IE
Cara Noemi,
Abbiamo forse un po’ troppo
passivamente familiarizzato con la «frenesia
della vita», come giustamente affermi, proprio come se fossimo «inseguiti da qualcuno o qualcosa», ma
gli storici ci hanno insegnato che la nostra fretta per essere compresa deve
essere correlata ad un motore più grande, quello dell’«accelerazione della storia». Lo storico francese Daniel Halévy (tra
l’altro, compagno di classe di Marcel Proust) in Essai sur l'accélération de l'histoire del 1948 ha mostrato che lo
storico di una generazione a lui precedente, Jules Michelet, nella prima metà
dell’Ottocento aveva già perfettamente compreso che la storia stava accelerando
sia per la concentrazione degli eventi che accadevano in un certo periodo sia per
il loro rapido susseguirsi. Ma prima, e per un lungo periodo, la storia ha
avuto più o meno lo stesso ritmo: «Da
Virgilio a Proust, – scrive il filosofo francese Michel Onfray in Cosmo – il tempo rimane più o meno lo
stesso. L'uomo che scrive le Bucoliche
e quello che pubblica Alla ricerca del tempo perduto condividono uno stesso mondo […] In Virgilio, i cavalli tirano i carretti; in Proust, tirano i bus
imperiali o i tilbury. Tuttavia, la velocità è sempre la stessa». Ma da un
certo punto in poi il tempo si è messo a scorrere più velocemente. La storia ha
cominciato ad accelerare con la rivoluzione industriale (si è velocizzato il
processo economico) e poi con la rivoluzione francese (si è velocizzata la
trasformazione socio-politica). Per sottolineare che questa accelerazione non
si è più fermata, lo storico Eric Hobsbawm ha definito il Novecento “Il secolo breve”, Reinhart Koselleck ci
ha insegnato che il futuro arriva così rapidamente che non abbiamo il tempo di
assaporarlo, perché si trasforma subito in passato (“Futuro passato”), il filosofo Hans Blumenberg ha detto che si è
ampliata la distanza tra “Tempo della
vita e tempo del mondo”, e il
sociologo Zygmunt Bauman ha introdotto il concetto di “Modernità liquida”. Tutti ormai utilizzano la categoria dell’accelerazione
per interpretare la contemporaneità. E i sentimenti che riguardano questo
processo sono ambivalenti. Alcuni positivi, perché si pensa che nonostante i
cambiamenti ambientali, culturali, sociali ed economici, l’accelerazione della
storia sia un bene perché consentirà la riduzione delle carenze alimentari e
sanitarie o l’acquisizione diffusa dei diritti dell’uomo in tutto il pianeta;
altri negativi, derivanti dall’anticipazione dei pericoli avviati da questa
nuova condizione. Michel Onfray, riflettendo sull’aspetto svantaggioso delle
nostre urgenze, paragona l’accelerazione della storia a quella fisica di un
corpo in caduta. In questo caso, scrive l’autore, «Viviamo più in fretta perché la caduta della nostra civiltà ci trascina
con sé...». Come vedi, la nostra fretta potrebbe addirittura essere
correlata con «il tramonto dell’Occidente»
stesso. Camminare e godersi la vita sembrano obiettivi più difficili da
raggiungere, perché assomigliamo alle particelle di un gas che sottoposte al
calore accelerano la loro corsa e si urtano. Così, a volte, abbiamo
l’impressione che la vita sia solo un’inutile corsa che non ci consente di vivere
pienamente il tempo a disposizione. Come ha scritto molto bene il filosofo
italiano Diego Fusaro in Essere senza
tempo, l’accelerazione della produzione si rivela «intollerante verso la lentezza e i tempi morti». Ma per vivere bene
non abbiamo bisogno di essere iperattivi: abbiamo bisogno di un tempo a misura
dell’uomo e non della tecnica. La comprensione degli eventi e la qualità della
vita seguono infatti il ritmo interiore e non la cadenza produttiva. Pertanto
il nuovo imperativo del nostro tempo, che Fusaro ha intelligentemente definito «Accelero, ergo sum» (“accelero, perciò esisto”), non sembra
adeguato ad una buona vita. Torniamo allora alla tua definizione: se ci
sentiamo «inseguiti», ci muoviamo in
modo veloce, senza meta, in una fuga continua, dissipando le nostre energie in
un generico fare. Se siamo noi ad «inseguire»
i nostri obiettivi, possiamo dunque imporre il nostro passo. Se ci muoviamo
verso una meta, seguendo il nostro desiderio, progettando il nostro percorso,
allora passiamo dal generico fare all’agire. «Godersi la vita» non vuol solo dire separarsi dal caos del mondo,
ma camminare nel mondo seguendo il proprio passo, la propria andatura. Non è
facile, certo, ma è necessario per vivere bene. Per non vivere alienati ed
essere certi di poter governare il timone della propria nave.Un caro saluto,
Alberto