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Cor-rispondenze

lunedì 28 novembre 2016

Corriamo tutti troppo

Con la fretta arrivi sempre …tardi!
 
Caro professore,
mi trovo spesso ad osservare la gente dietro ad una qualsiasi finestra. Vedo le persone vivere in modo frenetico la loro vita: corrono come se fossero sempre inseguite da qualcuno o qualcosa. Anche io, spesso, mi ritrovo a correre. A non godermi il momento perché sono in ritardo, perché ho altro da fare o semplicemente perché sono abituata così. Da piccola non avevo questi pensieri, lo facevo e basta. Ora, invece, ho cominciato a chiedermi perché. Perché viviamo tutti le nostre vite in modo frenetico? Perché nessuno si ferma mai ad osservare un paesaggio? Ho da poco cominciato a pensare che è una cosa del tutto priva di senso. Fare, fare, fare pur sapendo che le nostre azioni saranno prima o poi cancellate o dimenticate. Allora, perché continuare a correre quando si può camminare e godersi di più la vita?
Noemi, IE


Cara Noemi,
Abbiamo forse un po’ troppo passivamente familiarizzato con la «frenesia della vita», come giustamente affermi, proprio come se fossimo «inseguiti da qualcuno o qualcosa», ma gli storici ci hanno insegnato che la nostra fretta per essere compresa deve essere correlata ad un motore più grande, quello dell’«accelerazione della storia». Lo storico francese Daniel Halévy (tra l’altro, compagno di classe di Marcel Proust) in Essai sur l'accélération de l'histoire del 1948 ha mostrato che lo storico di una generazione a lui precedente, Jules Michelet, nella prima metà dell’Ottocento aveva già perfettamente compreso che la storia stava accelerando sia per la concentrazione degli eventi che accadevano in un certo periodo sia per il loro rapido susseguirsi. Ma prima, e per un lungo periodo, la storia ha avuto più o meno lo stesso ritmo: «Da Virgilio a Proust, – scrive il filosofo francese Michel Onfray in Cosmo – il tempo rimane più o meno lo stesso. L'uomo che scrive le Bucoliche e quello che pubblica Alla ricerca del tempo perduto condividono uno stesso mondo […] In Virgilio, i cavalli tirano i carretti; in Proust, tirano i bus imperiali o i tilbury. Tuttavia, la velocità è sempre la stessa». Ma da un certo punto in poi il tempo si è messo a scorrere più velocemente. La storia ha cominciato ad accelerare con la rivoluzione industriale (si è velocizzato il processo economico) e poi con la rivoluzione francese (si è velocizzata la trasformazione socio-politica). Per sottolineare che questa accelerazione non si è più fermata, lo storico Eric Hobsbawm ha definito il Novecento “Il secolo breve”, Reinhart Koselleck ci ha insegnato che il futuro arriva così rapidamente che non abbiamo il tempo di assaporarlo, perché si trasforma subito in passato (“Futuro passato”), il filosofo Hans Blumenberg ha detto che si è ampliata la distanza tra “Tempo della vita e tempo del mondo, e il sociologo Zygmunt Bauman ha introdotto il concetto di “Modernità liquida”. Tutti ormai utilizzano la categoria dell’accelerazione per interpretare la contemporaneità. E i sentimenti che riguardano questo processo sono ambivalenti. Alcuni positivi, perché si pensa che nonostante i cambiamenti ambientali, culturali, sociali ed economici, l’accelerazione della storia sia un bene perché consentirà la riduzione delle carenze alimentari e sanitarie o l’acquisizione diffusa dei diritti dell’uomo in tutto il pianeta; altri negativi, derivanti dall’anticipazione dei pericoli avviati da questa nuova condizione. Michel Onfray, riflettendo sull’aspetto svantaggioso delle nostre urgenze, paragona l’accelerazione della storia a quella fisica di un corpo in caduta. In questo caso, scrive l’autore, «Viviamo più in fretta perché la caduta della nostra civiltà ci trascina con sé...». Come vedi, la nostra fretta potrebbe addirittura essere correlata con «il tramonto dell’Occidente» stesso. Camminare e godersi la vita sembrano obiettivi più difficili da raggiungere, perché assomigliamo alle particelle di un gas che sottoposte al calore accelerano la loro corsa e si urtano. Così, a volte, abbiamo l’impressione che la vita sia solo un’inutile corsa che non ci consente di vivere pienamente il tempo a disposizione. Come ha scritto molto bene il filosofo italiano Diego Fusaro in Essere senza tempo, l’accelerazione della produzione si rivela «intollerante verso la lentezza e i tempi morti». Ma per vivere bene non abbiamo bisogno di essere iperattivi: abbiamo bisogno di un tempo a misura dell’uomo e non della tecnica. La comprensione degli eventi e la qualità della vita seguono infatti il ritmo interiore e non la cadenza produttiva. Pertanto il nuovo imperativo del nostro tempo, che Fusaro ha intelligentemente definito «Accelero, ergo sum» (“accelero, perciò esisto”), non sembra adeguato ad una buona vita. Torniamo allora alla tua definizione: se ci sentiamo «inseguiti», ci muoviamo in modo veloce, senza meta, in una fuga continua, dissipando le nostre energie in un generico fare. Se siamo noi ad «inseguire» i nostri obiettivi, possiamo dunque imporre il nostro passo. Se ci muoviamo verso una meta, seguendo il nostro desiderio, progettando il nostro percorso, allora passiamo dal generico fare all’agire. «Godersi la vita» non vuol solo dire separarsi dal caos del mondo, ma camminare nel mondo seguendo il proprio passo, la propria andatura. Non è facile, certo, ma è necessario per vivere bene. Per non vivere alienati ed essere certi di poter governare il timone della propria nave.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 21 novembre 2016

L'importanza di un incontro

Università, tasse fuorilegge a Pavia: studenti risarciti per quasi 2 milioni di euro

Caro professore,
Leggendo le riflessioni di alcuni ragazzi, sono rimasto colpito da quella intitolata “Il legame che mi manca”[27 ottobre 2016], sia perché suppongo possa essere significativa per chiunque abbia appena finito il liceo, sia perché riguarda persone che ho conosciuto e con cui anche io ho legato. Venendo al punto, Alessandro (l’autore, ex 5A) mette l’accento sull’importanza delle persone che ha incontrato durante il suo percorso. Tutti abbiamo creato rapporti più o meno profondi e che saranno più o meno duraturi con compagni e amici, ma tutti questi legami non sono, in fondo, frutto della casualità? Kierkegaard ci ha insegnato che di fronte alla scelta proviamo l’angoscia. Ovviamente questa è dovuta al fatto che tra le infinite possibilità che abbiamo, la maggior parte di esse deve essere scartata e, a priori, non sappiamo quali saranno o quali sarebbero potute essere le conseguenze delle nostre azioni. Ma se tutto questo è vero, allora quale valore hanno i rapporti umani? Mi spiego. Io (e per io intendo qualunque persona) sono molto legato alla mia famiglia, ritengo che ogni suo elemento sia importante e mi abbia influenzato. Ma per quanto io possa voler bene a mio padre o a mia madre, per quanto mi possa ritenere fortunato, per quanto sia loro grato, tutto sarebbe diverso se fossi nato in un’altra famiglia. Lo stesso vale per gli amici. Tutte le nostre amicizie, per quanto possiamo ritenerle valide, per quanto crediamo di averle volute, sono in realtà frutto del caso. Se fossi finito in un’altra classe quel primo giorno di scuola di cinque anni fa, probabilmente non conoscerei o non avrei conosciuto persone che sono state o sono ancora estremamente importanti. Lo sanno tutti, all’università molto spesso le classi sono da centinaia di persone. Ho stretto amicizia con alcune di queste e ritengo anche che diventeranno rilevanti per me ma cosa sarebbe successo se quel giorno fossi stato in ritardo, come al solito, e mi fossi seduto qualche fila più indietro? Una decina di mesi fa decisi che era venuto il momento di darsi una svegliata e ho quindi passato i tre mesi estivi a Dublino. Ho conosciuto persone che sono diventate fantastici amici e amiche e so bene che è possibile che io non le riveda mai più. Per questo la partenza è stata dolorosa, per la consapevolezza di quanto fosse fragile tutto ciò che si era costruito. Sono tornato, ho sofferto, pianto e anche in parte dimenticato. Ho perso qualcosa là e ho perso qualcosa qua. Ma se quel giorno, invece che decidere di partire, avessi deciso di restare, come sarebbe andata? In fondo è stata una scelta abbastanza istintiva e poco ragionata… Con tutto ciò non voglio lasciar intendere di non essere legato alle persone che conosco, tutt’altro. Ritengo che tutti siano importantissimi per me, nel bene o nel male. In fondo, legarsi a qualcuno significa modificare innanzitutto se stessi ed è questo che dona ai nostri conoscenti qualcosa di speciale e unico. Al contempo però, la mia vita, per quanto diversa, sarebbe comunque andata avanti se finora non avessi intrecciato legami con nessuna delle persone che conosco. Questo, credo, è ciò che in fondo genera angoscia, ciò che ci fa stare svegli la notte, ciò che ci fa soffrire più di tante altre cose. Quindi, quale valore hanno i rapporti umani? Non sono dunque le persone tutte molto simili? Esistono persone “uniche”? Che fine ha fatto l’eccezionalità dei legami sentimentali? Quanto e in che modo saremmo diversi se certi insignificanti eventi del tutto casuali non fossero avvenuti? Grazie per l’attenzione.
Giovanni, ex VB
 

Caro Giovanni,
Dagli incontri casuali nascono relazioni più o meno significative per la vita di ciascuno. Ognuno è “gettato” nella vita, in una famiglia e in un periodo storico che non ha scelto, ma è a partire da queste condizioni che si forma un’idea di sé e di ciò che è rilevante per la sua vita. L’esistenza è fatta di incontri casuali: la classe in cui hai conosciuto i tuoi compagni, il luogo di studio, di lavoro, la città in cui deciderai di vivere. La letteratura ti ha narrato i sentimenti, il cinema ti ha mostrato i volti e l’andamento della sofferenza, la separazione fisica ti ha fatto fare esperienza reale del dolore causato dalla rottura di un legame. Soffriamo, perché senza legami la nostra identità non esiste. L’altro è sempre “altro generico”, pura possibilità, fino a quando con esso non instauri una relazione. Saranno il tempo e le frequentazioni ad avvicinare o allontanare alcune persone da te, in base alla gerarchia dei valori di riferimento e alle scelte di vita che riterrete significative. Poiché hai vissuto la forza e la bellezza di un'amicizia, hai avvertito che ciascun uomo può essere autentico in molti modi, in molti luoghi e con persone diverse. Che la vita si può dischiudere in mille rivoli. L’unicità è però sempre legata a bisogni consapevoli e inconsci: la persona diventerà esclusiva se ad essa deciderai di aprirti, e sarà tale se avrà la capacità di far emergere da te ciò che tu da solo non sei in grado di sondare. Socrate non ha imparato le cose dell’amore da sé. Le ha apprese da una donna, Diotima di Mantinea. Non siamo autosufficienti e la nostra vita è data dalle aperture che scegliamo di accogliere e dalle strade che decidiamo di seguire. Gli altri ti offrono la possibilità, tu decidi il tuo modo di stare al mondo. Hai vissuto la meraviglia e l’ebbrezza dell’unicità e della fragilità della vita. Il “timore e il tremore” di dover decidere di te.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 14 novembre 2016

Il secondo autogrill


 
Caro professore,
quest’estate ero in macchina con mio padre e mia sorella, stavamo andando a Genova a prendere la nave per iniziare la vacanza in Sardegna. Dopo circa mezz’ora di macchina mia sorella ha iniziato a dire che aveva bisogno del bagno e che dovevamo fermarci al più presto. Il primo autogrill che abbiamo visto l’abbiamo superato, perché non ci siamo accorti in tempo. Ci siamo fermati a quello dopo. Mio papà e mia sorella sono scesi e io sono rimasta dentro la macchina e ho attivato il blocco esterno. Quando sono tornati non potevano salire e io, da dentro, facevo finta di non vederli, ridevo e non aprivo…quando sono risaliti siamo partiti e alla prima curva la macchina davanti a noi ha sbandato e si è rovesciata. La mia macchina era qualche metro indietro e si è fermata in tempo, in modo da non schiantarsi contro. Abbiamo aspettato l’arrivo dei soccorsi e quando hanno tirato la donna fuori dall’auto siamo ripartiti. Per tutto il viaggio, fino al traghetto, io, mio papà e mia sorella non abbiamo detto una parola…sapevamo di essere stati fortunati perché non ci era successo niente e quella donna della quale non abbiamo avuto più notizie, invece, probabilmente era in coma. Ripensandoci a mente lucida mi sono resa conto della fortuna che ho avuto. Se mia sorella non si fosse fermata all’autogrill, se io non avessi fatto la stupida impedendole di rientrare in macchina, se ci fossimo fermati al primo autogrill e non al secondo, se mio padre non avesse frenato in tempo, forse la mia macchina si sarebbe ribaltata insieme all’altra e probabilmente non sarei mai andata in vacanza in Sardegna. Esiste un destino, esistono le coincidenze o è solo fortuna?
Marianna, 1alfa
 
 
Cara Marianna,
Lo scrittore Caudio Magris ne L’infinito viaggiare, paragonando l’epica alla vita, scrive che «Come la vita stessa, l'epica è un tappeto, incrociarsi e disfarsi di destini come fili di diverso colore, eventi, figure e personaggi tessuti e dissolti dal tempo, dal caso, da Dio, da inesorabili necessità o fortuite coincidenze, egualmente vissute, godute e sofferte con passione». L’epica e la vita sono equiparati a grandi tappeti che intrecciano fili, mescolano colori e producono forme irripetibili combinando intenzionalità e coincidenze fortuite. Alcuni fili si interrompono nella trama, altri attraversano per tutta la lunghezza il tappeto. Quante volte ci siamo detti: se non avessi incontrato quella persona all’Università, se non fossi andato al mare a luglio, se avessi studiato inglese, se avessi imparato a suonare il violino. Ma ogni azione intrapresa ha fissato un nodo nel tappeto della vita. A volte le situazioni sono positive, a volte negative, ma non c’è un destino. Non possediamo la trama, perché la trama si genera nel tempo. Il filo si origina in noi come la bava nel ragno, attraversa il caos del mondo, incontra ostacoli, indietreggia o avanza, a volte si aggroviglia e talvolta si strappa. Non esiste alcun destino tracciato, esistono solo circostanze vantaggiose o sfavorevoli. Quando rifletti sul fatto che sei stata fortunata ad evitare per pochi minuti di essere coinvolta in un incidente, consideri il tuo comportamento come una variabile (una possibilità) e l’evento sfortunato come inevitabile (una necessità). In realtà si tratta di due possibilità che potevano o meno accadere: la tua famiglia poteva fermarsi o proseguire il viaggio, l’incidente poteva capitare oppure no. Poiché consideri l’incidente come una necessità, ti rapporti ad esso in funzione del tempo che ti ha separato dal pericolo. Ma l’infortunio della donna sarebbe potuto avvenire prima o più tardi o sarebbe potuto anche non accadere; anche la signora si sarebbe potuta fermare all’autogrill e magari per più tempo di te. Se avesse tardato di qualche minuto saresti stata coinvolta anche tu nell’incidente e avresti pensato: se non avessimo fatto quella sosta. Ma le circostanze sono casuali, senza intenzionalità, dipendono da quel farsi e disfarsi dell’ordito della vita e dalla complessità degli eventi. Vorrei anche ricordarti, tuttavia, che non esiste un destino ineluttabile neppure nella nostra vita. Ci sono inevitabilmente condizionamenti, a volte pesantissimi: dalla genetica alle malattie, dall’ambiente sociale e familiare alla cultura di appartenenza. Ma nulla ci deresponsabilizza mai completamente. In Libertà, grazia, destino [1948] (Morcelliana, 2000), il teologo e scrittore tedesco, ma di origini italiane, Romano Guardini afferma che c’è un modo in cui potremmo essere imbrigliati dalla nostra natura, ed è quello di non determinare le nostre scelte. Facendo riferimento all’Es, la parte pulsionale della personalità, che per Freud opera in funzione del principio del piacere, Guardini scrive che: «Il destino è un Es. Anzi è l'Es, semplicemente. Quando l'uomo dice involontariamente Es, egli intende il destino e l'abbandonarsi a quel potere, che non conosce né giustizia, né saggezza, né rispetto, né bontà». Forse in questo caso c’è destino. Se il nostro percorso è determinato dagli impulsi, allora viene meno la nostra autonomia. Le scelte dell’uomo maturo vanno però in direzione opposta all’inerzia della natura. Hanno a che fare con la libertà del soggetto. E dalla libertà discende la responsabilità: anche quella di dover dare un senso ai vari eventi che ci accadono.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 7 novembre 2016

E se si scordasse tutto?



Risultati immagini per amnesia

Caro professore,
A volte capita di aver paura di non riuscire più a ricordare niente, tutte le cose belle hai paura che svaniscano in un momento, che non ritornerai mai più come prima, che solo un momento basterà a farti scordare tutto. Magari non riderai come un pazzo ripensando a quel momento, perché non potrai ricordarlo. È un po’ questa la mia paura. È per questo che fotografo, per non lasciare che la nostra stessa mente porti via tutto. La domanda è: come si fa a non scordare tutto? Forse lei non mi conoscerà mai, ma è l’unico che ha appena letto la mia paura più grande, scordare tutto.
Eleonora, 1alfa

Cara Eleonora,
«Che esista un dimenticare, non è ancora dimostrato; sappiamo soltanto che la rammemorazione non sta in nostro potere», scriveva Nietzsche in Aurora. Non so se il progressivo oblio derivi da una inadeguatezza della ragione o nasca da una necessità della specie di programmare in un certo modo gli organismi. Forse in futuro non gioiremo più «come pazzi» per un evento che ci ha fatto ridere a crepapelle, ma neppure soffriremo per ferite apparentemente insanabili. Il fatto che «non scordare tutto» sia tuttavia un’operazione inutile è stato esemplificato magnificamente da Jorge Luis Borges nella Storia universale dell'infamia (Adelphi). Egli aveva immaginato una Carta dell’Impero che, per essere precisissima, era stata creata in formato 1:1. «I Collegi dei Cartografi – scriveva l’autore – fecero una Mappa dell'Impero che aveva l'Immensità dell'Impero e coincideva perfettamente con esso». Però, subito dopo affermava che quella carta era inservibile e superflua: «Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo Studio della Cartografia, pensarono che questa Mappa enorme era inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degli Inverni». Ricordare tutto, infatti, comporterebbe una serie di problemi di non poco conto. La prima ragione è banale. Chi starebbe ad ascoltare quel serbatoio inesauribile di ricordi? Inoltre, avremmo bisogno almeno di un’altra vita per ripercorrere tutto il vissuto e di molte altre vite se volessimo interpretare gli eventi, considerarli da diverse prospettive, immaginare cosa sarebbe successo se avessimo fatto scelte differenti. Ma c’è anche una ragione più profonda. Gli esseri umani cambiano e cambiando danno valore in modo diverso ai vari momenti della loro esistenza. Se da bambino per una ricerca scolastica era fondamentale memorizzare la storia della Sardegna, poi diventa più rilevante ricordare la storia della propria infanzia o della propria famiglia. I ricordi sono condizionati e modificati dalle nostre aspettative e dai nostri valori. E poiché crescendo viviamo in modo diverso gli avvenimenti, ci saranno fatti che non ci coinvolgeranno più e altri che acquisteranno rilievo. Col passare del tempo, infatti, giudichiamo con occhi nuovi il passato e di solito consentiamo che emerga dallo sfondo solo ciò che per noi è stato significativo. Quando penso al desiderio di non essere dimenticati, penso al matematico, filosofo e sacerdote russo Pavel Florenskij, che al termine di ogni lettera scritta dal gulag in cui era rinchiuso, salutava sempre i famigliari dicendo loro: «Non dimenticare il tuo papà», «non dimenticare il tuo papà e sii buona con la mamma». Rileggendo il suo epistolario ho trovato questa illuminante intuizione: «La vita vola via come un sogno, e non si fa in tempo a far niente prima che ti sfugga l'istante della sua pienezza. Per questo è fondamentale apprendere l'arte del vivere, la più difficile e la più importante delle arti: quella di colmare ogni istante di un contenuto sostanziale, nella consapevolezza che esso non si ripeterà mai più come tale». L’arte del vivere dovrebbe insegnare a «colmare l’istante» di un contenuto sostanziale, ossia a dare valore all’attività in cui sei impegnata, alla relazione che hai intrapreso, alle persone e alle cose con le quali ti relazioni. Per non scordare i pensieri, Florenskij forniva in una lettera questi consigli: «Per non dimenticare: cerca di scrivere ogni giorno pensieri e osservazioni, senza rimandare la loro registrazione al futuro; infatti si dimenticano presto e, anche se rimangono nella memoria, diventano inesatti e pallidi. Da tali note, se le farai, si accumuleranno i materiali per le grandi opere, e questo modo di lavorare offre al lavoro vividezza e sostanza. La cosa migliore sarebbe che tu avessi sempre con te un taccuino per poter prendere gli appunti in movimento e in ogni situazione». Puoi fare molte foto, come già racconti; puoi fare anche delle riprese con il cellulare, ma la scrittura ha effettivamente la capacità di rivelare più aspetti della realtà: afferra un istante e ti mostra la prospettiva da cui guardavi il mondo in un certo momento. Non è un caso che i Diari siano così rivelativi: riproducono pensieri che abbiamo accarezzato e intuizioni momentanee che hanno aperto il nostro sguardo. In questi giorni a Cuneo c’è ancora una bellissima mostra sul pittore Ego Bianchi. Oltre alle sue opere, io sono rimasto incantato dal suo Diario, dalle riflessioni che ha scritto tra il 1945 e il 1948. Le opere esposte parlano certamente di lui, ma la sua scrittura schiude un universo di intuizioni e idee che non avrei mai potuto immaginare solo a partire dall’opera d’arte. Sono le intuizioni che hanno dato senso alle sue giornate. Allora anche tu, fotografa e scrivi, ma non dimenticarti di vivere e – come questo eccellente pittore – di «colmare i tuoi attimi».
Un caro saluto,
Alberto