Caro professore,
Di questi tempi si
sente spesso dire che siamo degli “animali sociali”, ma è davvero così? Ciò che
intendo dire è che, nell'immaginario comune, l'essere umano vive di relazioni e
soprattutto impara a conoscere sé stesso grazie alla presenza dell'altro. Secondo
me, invece, è proprio nei momenti di solitudine che impariamo a conoscerci
veramente. Quando siamo in compagnia delle altre persone, infatti, tendiamo ad
essere distratti, a non ascoltare ciò che il nostro “io interiore” ci dice;
siamo, invece, portati a pensare ciò che pensano gli altri e ciò che la società
ci insegna e ad adeguarci alle situazioni senza riflettere seriamente su quale
sia la nostra idea. Questo vale anche per l'opinione che ognuno di noi ha di se
stesso. Per esempio, perché alcune persone non si piacciono e non accettano il
loro aspetto fisico? Perché si paragonano a chi li circonda e le loro idee non
sono veramente loro, ma quelle della società. Secondo lei, si può quindi
affermare che finché l'uomo vive di relazioni non può conoscere sé stesso fino
in fondo?
Giulia 3H
Cara Giulia,
La tua riflessione mi insegna, ancora una volta, che le
intuizioni degli adolescenti incontrano spesso quelle dei grandi filosofi. Se qualcuno
avesse pensato, anche solo di sfuggita, che da una parte ci sono gli insegnanti
che veicolano in modo unidirezionale delle conoscenze e dall’altra gli studenti
che imparano, la tua lettera fornirebbe la più grande smentita a tale
illusione. Dico questo perché hai avuto la stessa illuminazione di uno dei più
grandi filosofi della storia. Immanuel Kant ha tradotto il tuo presentimento nel
concetto di «insocievole socievolezza»
dell’uomo. La tua riflessione si basa dunque su un’intuizione molto profonda:
siamo sì animali sociali, ma necessitiamo di momenti di solitudine per
conoscere noi stessi e per creare. L’uomo vive una sorta di inestinguibile conflitto
interiore, la sua natura lo costringe a oscillare continuamente tra la tendenza
a socializzare, ad appartenere ad un gruppo e ad aggregarsi e dall’altra ad
isolarsi e a focalizzare l’attenzione su di sé. Nella quarta tesi delle “Idee per una storia universale dal punto di
vista cosmopolitico”, Kant scrive che l’uomo «ha un’inclinazione ad associarsi:
poiché in tale stato sente in maggior misura se stesso in quanto uomo, sente
cioè lo sviluppo delle sue disposizioni naturali. Ha però anche una forte
tendenza ad isolarsi: perché trova
in sé, allo stesso modo, la proprietà insocievole di voler condurre tutto secondo
il proprio interesse, e perciò si aspetta resistenza da ogni lato, come sa di
sé che egli, a sua volta, è inclinato a far resistenza verso gli altri. È questa
resistenza che risveglia tutte le forze dell'uomo, che lo conduce così a superare
la sua tendenza alla pigrizia e, spinto dal desiderio di onore, potere o
ricchezza, a procurarsi un rango fra i suoi consoci, i quali non può sopportare, ma di cui anche non può fare a meno». Qualche secolo prima
di qualunque psicologia, Kant ha mostrato che nell’uomo c’è un doppio impulso, di
comunità e appartenenza e di individualismo e indipendenza. Il distacco, come
giustamente affermi, non solo è opportuno per la conoscenza di sé, ma poiché « risveglia tutte le forze dell'uomo» è imprescindibile
anche per creare. Ed è anche grazie a questa «insocievole socievolezza» che le persone scoprono i propri talenti,
le proprie predisposizioni e la loro unicità. La comunità è fondamentale quanto
la solitudine, la società quanto il singolo. È a partire da questa anche
faticosa o dolorosa “sottrazione dal mondo” che ad esempio filosofi, artisti,
scienziati e scrittori hanno concepito le loro opere. Le grandi ideazioni degli
uomini nascono infatti dalla loro capacità di isolamento. Sei partita da una
frase contenuta nella “Politica” di
Aristotele, secondo cui l’uomo è “zoòn
politikòn”. Un’ottima interpretazione di questo concetto, è contenuta in un
bel libro degli studiosi Fulvia De Luise e Giuseppe Farinetti. In “Storia della felicità. Gli antichi e i
moderni” (Einaudi) essi ricordano che l’uomo è «animale sociale (cioè capace di organizzare e mantenere
rapporti con gli altri uomini per soddisfare i suoi bisogni fondamentali) e socievole
(cioè inclinato naturalmente a sentire
come suo dovere la necessità di conservare oltre a se stesso anche la società)».
Siamo dunque insieme animali sociali e socievoli, perché ricaviamo la nostra vita
e originiamo la nostra essenza grazie alle relazioni; e per avviare il nostro processo
di individuazione – che necessita della conoscenza della nostra natura e delle
nostre inclinazioni – avvertiamo tuttavia anche il bisogno di separarci dal
gruppo. Quello che tu chiami “io interiore”, però, si genera solo in connessione
all’altro. Se poi in quanto cittadino – come l’uomo greco – uno vuole cooperare
al bene pubblico, è necessario che non disperda se stesso. Curando il rapporto
tra intensità e alleggerimento dei legami si può giungere gradualmente a “conoscere
se stessi”. E chi conosce la propria natura e il proprio talento può
contribuire in modo fruttuoso e unico sia all’edificazione di sé sia a
costituire relazioni positive con le persone di una comunità più grande alla
quale – già da sempre – appartiene.
Un caro saluto,
Alberto
Nessun commento:
Posta un commento