Caro professore,
Se rimanessimo fermi a guardare i torti subiti, i nostri cuori
sarebbero troppo occupati a piangere per il male ricevuto o a cercare di
rendersi giustizia facendo valere le proprie ragioni o pensando a come vendicarsi.
La strada per poter andare avanti, però, come ci insegnano le religioni, è il
perdono. Ma perdonare significa dimenticare quello che è accaduto e
ricominciare da capo, con il rischio di nuove ferite? O significa prendere atto
di quello che è successo e cercare una riconciliazione? Se così fosse, però, il
rapporto non sarebbe forse rovinato dal ricordo di quello sbaglio? Le energie
impiegate, infatti, sarebbero meno, poiché anche la fiducia è venuta meno.
Inoltre mi chiedo: il perdono nasce solo a seguito di uno “scusa” sincero,
oppure è indipendente dal riconoscimento da parte dell’altro del proprio
sbaglio?
Annalisa, 4H
Cara Annalisa,
«Il tempo del male si estende dal presente al passato, e dal presente al
futuro», dice il grande psichiatra Eugenio Borgna. Se gli uomini si
fermassero a soppesare i torti subìti, la vita sarebbe imbrigliata da continui regolamenti
di conti e i pensieri dominati dalla frustrazione e dal dolore. Per condurre
una vita buona bisogna quindi saper fare un passo in avanti. Nella storia ci sono
azioni che sono state perdonate e altre no. Quando Pompeo nel 63 a.C. cinse d'assedio
Gerusalemme, dopo aver occupato il Tempio violò il «sancta sanctorum», ossia entrò nella parte
accessibile solo al gran sacerdote e nella quale si custodivano le tavole della
legge («Iattura ancora più grave agli occhi non solo degli integralisti, ma dell'intero popolo»). Quella sfrontatezza non gli fu perdonata, infatti, scrive lo storico Giovanni
Brizzi: «durante una delle tante rivolte
in Alessandria d'Egitto gruppi di ribelli ebraici vendicarono a posteriori
l'oltraggio da lui commesso distruggendone il sepolcro e disperdendone i resti».
(Giovanni Brizzi, 70 d.C. La conquista di
Gerusalemme). Di segno diverso, invece, fu il comportamento di Matthew
Ridgway, il generale che – dopo aver preso il posto di Eisenhower come Comandante
supremo degli Alleati in Europa –, nel 1953 chiese agli Alti commissari delle
Nazioni Unite «di concedere il perdono a
tutti gli ufficiali tedeschi precedentemente condannati per crimini di guerra
sul fronte orientale». Distinguendo tra soldati della Wehrmacht e nazisti, ossia
tra i soldati che combatterono per la patria e i fanatici più crudeli del regime,
Ridgway seppe differenziare le colpe e chiese il perdono per una parte dei
giovani tedeschi (Tony Judt, Postwar.
Europa 1945-2005). Come vedi, la valutazione di ciò che è perdonabile o
imperdonabile è assai soggettiva e di natura culturale: a volte non si perdona
ciò che è simbolicamente rilevante per una fede o un popolo, a volte si concedono
attenuanti anche a chi ha ucciso, se obbligato da uno Stato a prendere parte ad
una guerra. Nelle relazioni interpersonali, credo che sia la vita stessa a
chiederci di «non estendere il tempo del
male» né le sue tracce. Dimenticare un torto o una violenza subìti è tuttavia
molto difficile. Inoltre, come giustamente rilevi, si può correre il rischio di
essere nuovamente feriti. Il perdòno non è affatto facile e non tutti sono all’altezza
di esso: nel duplice senso che non tutti sono in grado di perdonare (non è un’azione
comoda) né di essere perdonati (non tutte le colpe possono essere perdonate). Sia
nelle relazioni interpersonali sia in quelle internazionali, nella dinamica del
perdòno
è inevitabile che ci siano delle colpe che si pèrdono, perché chi
perdona esce dalla logica della reciprocità dei comportamenti malvagi, in
quanto interrompe la restituzione della violenza. Per giungere a mettere in
atto il perdono credo siano necessari due
elementi: bisogna non voler ancorare l’altro all’errore di cui si è
macchiato e neppure se stessi al pensiero di quell’errore. Si tratta dunque di fare
un duplice sforzo: non vincolare l’altro
all’errore compiuto, significa riconoscere che tutti possiamo sbagliare e
soprattutto che nessun uomo è riducibile ad un solo comportamento, anche se
questo non è stato esemplare. Chi ha sbagliato può sempre correggere la propria
condotta o le proprie valutazioni. Se ogni relazione necessita di gesti di
fiducia – che di solito sono corrisposti –, nel caso del perdono la fiducia si
origina non da una reciprocità della condotta, ma da un’asimmetria. È infatti
per-dono, ossia per la benevolenza di qualcuno che si ottiene il privilegio di
non essere avvinghiati per sempre alle proprie mancanze. Ma non è detto che la
persona perdonata meriti la fiducia e sia in grado di migliorare. In questo
caso, dopo aver concesso una seconda chance
al proprio interlocutore, l’ulteriore fiducia donata non sarà svincolata dai
comportamenti futuri. C’è però anche un secondo aspetto benefico del perdono: non vincolare se stessi al pensiero di una
ferita, significa scongiurare che le riflessioni di chi è stato danneggiato
gravitino intorno al nucleo di un torto. In questo modo il perdono non solo
libera l’altro, ma libera anche il soggetto offeso da quelle meditazioni ossessive
che, polarizzando l’attenzione su ciò che è negativo, riducono l’ideazione e
rendono insopportabile e triste la vita. Ci vogliono grande forza e grande
maturità per perdonare, perché il vero perdono non riguarda le piccole
disattenzioni di cui chiederemo “pardon”
o “perdoname” e per le quali è ovvio
che saremo perdonati, ma riguarda la struttura stessa della relazione che ha
come presupposti il rispetto e la fiducia.
Un caro saluto,
Alberto
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