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Cor-rispondenze

lunedì 4 dicembre 2017

Vivere ogni istante



Caro Professore,
questo trimestre è stato intenso ma è volato via velocemente. Troppo spesso ho dovuto dire la parola "ultimo": ultimo primo giorno di scuola, ultima elezione dei rappresentanti, ultimo scambio con Orange, ultima versione di latino, ultima gita di classe... Ho riflettuto molto e, ripensando a tutti i bei momenti che ho condiviso con i miei compagni, rimpiango di aver imparato ad apprezzare a pieno tutto questo solo ora. Perché iniziamo ad accorgerci e a dare valore alle cose, così come alle persone e alle esperienze, solo quando queste iniziano a mancarci? É inevitabile ma so già che, alla fine di questo percorso, tutti mi mancheranno molto. Ma nonostante questo voglio cercare di godermi al cento per cento ogni istante, per poter cogliere ancora qualche particolarità di ogni mio compagno e conservarla nel mio cuore. Secondo lei, quale potrebbe essere la giusta ricetta per realizzare il mio desiderio?
Costanza, 5H


Cara Costanza,
Vivere «al cento per cento ogni istante» è certamente un antidoto ai rimpianti, e consente di evitare che, trascurando il presente, le immagini di ciò che avremmo potuto fare o dire ci inseguano come le “anime spaventose” (deformes animae) degli avi che ululavano per le campagne perché i Romani, impegnati nella guerra, si erano dimenticati di rendere onore ai morti. E poiché, quando i Romani portarono le offerte, le anime si placarono – come racconta Ovidio ne “I Fasti” (2, 551-556) –, così vivendo intensamente il nostro tempo non temeremo che si sollevino sogni angosciosi in futuro per le nostre omissioni o disattenzioni. Hai ragione, il valore di un’esperienza necessita che essa sia conclusa e cresce nel tempo. L’ultima pennellata di un pittore sigilla l’opera e l’ultimo accordo conclude una composizione. Poi giunge lo sguardo retrospettivo del soggetto a contemplare e a ricordare. Si conclude un evento e si avvia la costruzione della memoria. Ciò che si è determinato contribuisce all’interpretazione di sé, grazie a quell’instancabile movimento dell’attenzione che dal presente vagabonda nel passato, traendone conforto e forza, per dirigersi ad esplorare le possibilità del futuro. Ogni avventura che finisce, in fondo non si esaurisce mai, perché costituirà un punto di origine per descrivere la vita. La narrazione della trama di ogni uomo ha infatti molte sorgenti. Ciò che arriva alla fine conclude ragionevolmente un periodo, ma ci ricorda anche che fino all’ultimo tassello possiamo modificare la storia. Nel 41 d. C. Caligola è caduto vittima di una congiura mortale. Cassio Cherea, ufficiale delle coorti pretorie, lo ha trafitto in un sotterraneo del palazzo. Un giorno decisivo: “l’ultimo giorno” dei Ludi Palatini è stato anche “l’ultimo giorno” di vita del terzo imperatore romano. Concludere un percorso di crescita non significa solo cessare un’avventura, ma portarla a compimento. E il compiersi non denota banalmente il suo esaurirsi nel tempo, ma il fatto che ne abbiamo realizzato il senso. Così, si può decidere di uscire di scena da una situazione in modo più o meno costruttivo; dipende da noi, da quanta energia e da quanta passione investiamo, da quanta abilità disponiamo nell’impedire che si deteriori, favorendone un esito positivo. La riuscita è determinata soprattutto dall’amore con cui caratterizziamo il nostro modo di “stare al mondo”. C’è chi si concentra su ciò che ama e vuole vivere, come te, così intensamente da non rischiare di perdere tempo. Elie Wiesel, in “Le storie di saggi”, raccontando dell’incredibile capacità di concentrazione di Rabbi Chayyim e della sua passione per la Torà, scrive: «Era continuamente in attività e dormiva tre ore per notte. Quando lo interrogavano su questo fatto, rispondeva citando Napoleone, che non voleva «perdere un impero dormendo». «E io», diceva, «non voglio perdere la Torà dormendo». «Effettivamente», diceva, «è facile dormire poco. C’è chi mangia in fretta, chi impara in fretta, chi arricchisce in fretta. Io dormo in fretta». Ad essere distratti si rischia di dissipare ciò che è importante: per Napoleone un impero, per il rabbino la Torà e per noi i momenti essenziali della vita in classe, in famiglia, in gruppo. La fretta ha un senso («Io dormo in fretta») se ci consente di concentrarci su ciò che ci sta più a cuore: allontanando ciò è che superfluo, permette di fare spazio a ciò che riteniamo davvero significativo. Se vuoi una “ricetta” per fissare nel cuore ciò che ritieni rilevante, ti suggerisco il seguente imperativo: “prenditi cura”, dei tuoi compagni, come già stai facendo, delle tue relazioni, ma anche dei contenuti culturali che vengono esplorati a scuola o sollecitati dal mondo che approda nelle nostre vite con le informazioni e le narrazioni quotidiane. Ogni percorso che si compie ha un vantaggio: consente un’apertura verso il futuro che un tempo era impossibile. È curioso che il ciclo dei Feralia (le festività dedicate ai morti) si concludesse con il giorno che porta il nome di Caristia o Cara Cognatio. In quest’ultimo giorno del ciclo festivo dedicato ai defunti, i Romani dopo essersi occupati delle relazioni tra vivi e morti, si dedicavano alle relazioni tra i vivi della loro comunità familiare. In ogni fase ultima, dopo esserci occupati di preservare la memoria, dobbiamo alimentare infaticabilmente le relazioni vive.
Un caro saluto,
Alberto

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