Caro Professore,
questo trimestre è
stato intenso ma è volato via velocemente. Troppo spesso ho dovuto dire la
parola "ultimo": ultimo
primo giorno di scuola, ultima
elezione dei rappresentanti, ultimo
scambio con Orange, ultima versione
di latino, ultima gita di classe...
Ho riflettuto molto e, ripensando a tutti i bei momenti che ho condiviso con i
miei compagni, rimpiango di aver imparato ad apprezzare a pieno tutto questo
solo ora. Perché iniziamo ad accorgerci e a dare valore alle cose, così come
alle persone e alle esperienze, solo quando queste iniziano a mancarci? É
inevitabile ma so già che, alla fine di questo percorso, tutti mi mancheranno
molto. Ma nonostante questo voglio cercare di godermi al cento per cento ogni istante,
per poter cogliere ancora qualche particolarità di ogni mio compagno e
conservarla nel mio cuore. Secondo lei, quale potrebbe essere la giusta ricetta
per realizzare il mio desiderio?
Costanza, 5H
Cara Costanza,
Vivere «al cento per
cento ogni istante» è certamente un antidoto ai rimpianti, e consente di
evitare che, trascurando il presente, le immagini di ciò che avremmo potuto
fare o dire ci inseguano come le “anime
spaventose” (deformes animae) degli
avi che ululavano per le campagne perché i Romani, impegnati nella guerra, si
erano dimenticati di rendere onore ai morti. E poiché, quando i Romani
portarono le offerte, le anime si placarono – come racconta Ovidio ne “I Fasti” (2, 551-556) –, così vivendo
intensamente il nostro tempo non temeremo che si sollevino sogni angosciosi in
futuro per le nostre omissioni o disattenzioni. Hai ragione, il valore di
un’esperienza necessita che essa sia conclusa e cresce nel tempo. L’ultima
pennellata di un pittore sigilla l’opera e l’ultimo accordo conclude una
composizione. Poi giunge lo sguardo retrospettivo del soggetto a contemplare e
a ricordare. Si conclude un evento e si avvia la costruzione della memoria. Ciò
che si è determinato contribuisce all’interpretazione di sé, grazie a quell’instancabile
movimento dell’attenzione che dal presente vagabonda nel passato, traendone conforto
e forza, per dirigersi ad esplorare le possibilità del futuro. Ogni avventura che
finisce, in fondo non si esaurisce mai, perché costituirà un punto di origine
per descrivere la vita. La narrazione della trama di ogni uomo ha infatti molte
sorgenti. Ciò che arriva alla fine conclude ragionevolmente un periodo, ma ci ricorda
anche che fino all’ultimo tassello possiamo modificare la storia. Nel 41 d. C.
Caligola è caduto vittima di una congiura mortale. Cassio Cherea, ufficiale
delle coorti pretorie, lo ha trafitto in un sotterraneo del palazzo. Un giorno decisivo:
“l’ultimo giorno” dei Ludi Palatini è stato anche “l’ultimo giorno” di vita del
terzo imperatore romano. Concludere un percorso di crescita non significa solo
cessare un’avventura, ma portarla a compimento. E il compiersi non denota banalmente il suo esaurirsi nel tempo, ma il fatto che ne abbiamo realizzato
il senso. Così, si può decidere di uscire di scena da una situazione in modo più
o meno costruttivo; dipende da noi, da quanta energia e da quanta passione investiamo,
da quanta abilità disponiamo nell’impedire che si deteriori, favorendone un
esito positivo. La riuscita è determinata soprattutto dall’amore con cui
caratterizziamo il nostro modo di “stare al mondo”. C’è chi si concentra su ciò
che ama e vuole vivere, come te, così intensamente da non rischiare di perdere
tempo. Elie Wiesel, in “Le storie di
saggi”, raccontando dell’incredibile capacità di concentrazione di Rabbi
Chayyim e della sua passione per la Torà, scrive: «Era continuamente in attività e dormiva tre ore per notte. Quando lo
interrogavano su questo fatto, rispondeva citando Napoleone, che non voleva
«perdere un impero dormendo». «E io», diceva, «non voglio perdere la Torà
dormendo». «Effettivamente», diceva, «è facile dormire poco. C’è chi mangia in
fretta, chi impara in fretta, chi arricchisce in fretta. Io dormo in fretta».
Ad essere distratti si rischia di dissipare ciò che è importante: per Napoleone
un impero, per il rabbino la Torà e per noi i momenti essenziali della vita in
classe, in famiglia, in gruppo. La fretta ha un senso («Io dormo in fretta») se ci consente di concentrarci su ciò che ci
sta più a cuore: allontanando ciò è che superfluo, permette di fare spazio a
ciò che riteniamo davvero significativo. Se vuoi una “ricetta” per fissare nel cuore ciò che ritieni rilevante, ti suggerisco
il seguente imperativo: “prenditi cura”, dei tuoi compagni, come già stai
facendo, delle tue relazioni, ma anche dei contenuti culturali che vengono
esplorati a scuola o sollecitati dal mondo che approda nelle nostre vite con le
informazioni e le narrazioni quotidiane. Ogni percorso che si compie ha un
vantaggio: consente un’apertura verso il futuro che un tempo era impossibile. È
curioso che il ciclo dei Feralia (le
festività dedicate ai morti) si concludesse con il giorno che porta il nome di Caristia o Cara Cognatio. In quest’ultimo giorno del ciclo festivo dedicato ai
defunti, i Romani dopo essersi occupati delle relazioni tra vivi e morti, si
dedicavano alle relazioni tra i vivi della loro comunità familiare. In ogni fase
ultima, dopo esserci occupati di preservare la memoria, dobbiamo alimentare infaticabilmente le relazioni vive.
Un caro saluto,
Alberto
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