Caro professore,
Fin dall’età di
tredici anni, a scuola nessuno mi accettava. Tutti mi stavano lontano, non mi
consideravano. I compagni della mia classe mi odiavano, mi picchiavano.
Frequentavo la scuola in Trentino e molte volte avevo paura di andare a scuola
per paura che qualcuno mi picchiasse o mi prendesse in giro. Io non facevo
niente di male a loro, eppure loro a me ne facevano tanto. Oggi mi trovo
benissimo, ho amici, ma il passato è anche difficile da dimenticare e tanto
meno il male ricevuto solo perché sono straniera. Allora mi chiedo, perché
certa gente è così cattiva, si ferma all’apparenza e non guarda alla bellezza
interiore di una persona, ma appena sa che sei straniera ti si allontana e ti
tratta male?
O., 16 anni
Cara O,
La tua lettera è più importante di ogni risposta. Perché è
un invito ai tuoi coetanei e a noi adulti a sentire la sofferenza causata da discriminazione
e pregiudizi. Utilizzerò tre tasselli per comporre una piccola traccia per
pensare. Il primo riguarda Michelle Obama. La first lady degli Stati Uniti (2009-2017)
nel libro “Becoming. La mia storia” (Garzanti
2018) racconta aspetti confidenziali della propria vita. Un giorno, nella Elizabeth Garrett Anderson School, assiste
ad uno spettacolo organizzato dalle studentesse desiderose di ascoltare un suo
discorso. Osservando le adolescenti, riverberano in lei queste considerazioni: «Bastava guardarsi attorno nella sala e
vedere i volti delle alunne per capire che, nonostante la loro forza, quelle
ragazze avrebbero dovuto lavorare sodo per farsi notare. C’erano ragazze con lo
hijab, ragazze per le quali l’inglese era una seconda lingua, ragazze con la
pelle bruna delle più varie sfumature. Sapevo che avrebbero dovuto lottare
contro gli stereotipi in cui le avrebbero costrette, tutti i modi con cui
sarebbero state definite prima ancora che potessero capire chi erano. Avrebbero
dovuto combattere l’invisibilità che tocca ai poveri, alle donne e alle persone
di colore. Avrebbero dovuto impegnarsi per trovare la propria voce e non farsi
sottovalutare, per evitare di essere messe a tacere. Avrebbero dovuto faticare
anche solo per imparare. Ma i loro volti erano pieni di speranza, e adesso
anch’io lo ero. Fu una strana, silenziosa rivelazione: erano me alla loro età.
L’energia che sentii pulsare in quella scuola non aveva nulla a che fare con
gli ostacoli. Era il potere di novecento ragazze che stavano lottando». Michelle
descrive il nostro tempo: sa che la convivenza e il riscatto sono faticosi, ma afferma
anche che: «dove c’è dolore c’è anche
capacità di superarlo». L’augurio è che la tua energia positiva ti consenta
di superare ogni barriera di indifferenza, perché la passione genera coinvolgimento
e partecipazione. La seconda traccia è legata al libro Schiavi in un mondo libero di Gabriele Turi. Lo storico ricorda che
Thomas Jefferson – uno degli autori della dichiarazione d'indipendenza americana
del 4 luglio 1776 – «era proprietario di
circa 150 schiavi, così come molti delegati alla Convenzione di Filadelfia del
1787». Se ci pensi è abbastanza curioso che nella dichiarazione sia
scritto: «Noi riteniamo che sono per se
stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che
essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi
diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità». Tutti
gli uomini sono creati uguali, ma con una piccola svista: l’omissione di una
parte piuttosto consistente dell’umanità. C’è voluto tempo – e forse ce ne
vorrà ancora – perché gli uomini amplino
la loro empatia. Oggi sappiamo che chi è insensibile ignora le emozioni dell’altro
e là dove non c’è ascolto autentico le persone rispondono spesso con pregiudizi.
La storia, tuttavia, mostra che la psiche umana impiega tempo per registrare
che alcuni comportamenti sono sbagliati. Il terzo tassello nasce da un’intervista.
Verso la fine dell’anno è stato chiesto ad uno scrittore di indicare un episodio
che avrebbe voluto eliminare dalla propria vita. Egli ha risposto prontamente
che avrebbe voluto rimuovere i segni delle dita dal volto della figlia a
seguito di una reazione impulsiva in un momento in cui lei lo aveva apostrofato
male. Magari la bambina si è ora dimenticata di tutto, ma sono convinto che c’è
un dolore invisibile che le persone per bene si portano dentro, che non si
annulla con il tempo e fa vergognare di gesti e parole che si sarebbero potuti
evitare. Dico questo perché nessuno si debba poi pentire di non essere riuscito
a cogliere la “bellezza interiore” in coloro che in un primo tempo sono stati
allontanati per paura o per mancanza di semplice educazione. Affido la riflessione
conclusiva ancora a Michelle Obama. Ecco la sua proposta: «Per ogni porta che è stata aperta a me, ho cercato di aprire la mia
agli altri. Ed ecco cosa ho da dire alla fine: invitiamoci a vicenda a entrare.
Forse possiamo cominciare ad avere meno paura, a fare meno ipotesi sbagliate,
ad abbandonare i pregiudizi e gli stereotipi che ci dividono senza ragione.
Forse possiamo comprendere meglio le condizioni che ci rendono uguali. Il punto
non consiste nell’essere perfetti. Non consiste nel traguardo che si raggiunge.
Il potere è consentire a sé stessi di farsi conoscere e ascoltare, avere una
propria storia unica, usare la propria voce autentica. La grazia è essere
disposti a conoscere e ascoltare gli altri».
Un caro saluto,
Alberto
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