Caro professore,
Vado bene in tutte le cose che faccio. Sono brava a scuola,
forte sugli sci e ho tante amiche, ma in niente sono la migliore. Non sono una
“secchiona” e neanche la campionessa italiana. Molte volte, soprattutto ultimamente,
mi sono chiesta cosa devo fare per eccellere o più semplicemente domando a lei:
“come faccio a trovare il mio talento?”.
Martina, 3C
Cara Martina,
Andar bene in tutte le attività in cui si è coinvolti, da
quelle scolastico-sportive a quelle affettivo-relazionali, è già un grande
obiettivo concretizzato. Credo che la tua vita sarebbe invidiata e considerata
felice dalla maggior parte dei filosofi che si sono occupati di definire che cosa
sia la felicità. Ma forse tu aspiri a diventare “la migliore”, in qualche
attività scolastica o nello sport. So che sei un’atleta e quindi comprendo il
tuo desiderio di superare continuamente condizionamenti e barriere e la tua instancabile
aspirazione al miglioramento. Uno dei temi più significativi affrontati dallo psicoanalista
svizzero Carl Gustav Jung – come mettono in luce anche i suoi autorevoli
interpreti Aldo Carotenuto e Umberto Galimberti – è stata la costante riflessione
sulla tematica dell’individuazione. Si tratta di una forma di evoluzione personale
che da Pindaro a Nietzsche è stata condensata nel motto «diventa ciò che sei» e che la psicoanalisi ha denominato «processo di individuazione». Cresciamo
per processi imitativi e abbiamo bisogno di seguire dei modelli, ma poi ognuno
di noi sente il bisogno di diventare unico e speciale. Ad un certo punto, dopo aver
messo in atto molti meccanismi imitativi, ci scostiamo dai comportamenti
collettivi per realizzare la nostra peculiare «individuazione», per fare della nostra vita una vita originale. Affinché
ognuno possa «trovare il proprio talento»,
è pertanto necessario che conosca se stesso, le proprie potenzialità e le
proprie capacità. E per fare questo deve coltivare le proprie predisposizioni. Spesso
si impiega tutta la vita per allenarle ed affinarle. Lo psicologo americano
Howard Gardner, negli anni Ottanta del secolo scorso, ha parlato di «intelligenze multiple», intendendo con
questo concetto che l’intelligenza non è monolitica, ma proteiforme e si
esplica in attività differenti. In altri libri successivi ha spiegato di aver
utilizzato intenzionalmente la parola «intelligenza» al posto di «talento»,
affinché fosse chiaro che i talenti sono forme di intelligenza. Nel libro che
lo ha fatto conoscere al grande pubblico, Formae
mentis. Saggio sulla pluralità della intelligenza (Feltrinelli 1987), oltre
a ricordare che il talento va continuamente perfezionato con l’esercizio («non si può diventare un grande scacchista, e
neppure un giocatore mediocre, in mancanza di una scacchiera»), egli racconta
anche una storia riferita al grande violinista del secolo scorso Ivan Galamian
(1903-1981). Parlando delle attitudini musicali, Galamian aveva consigliato l’insegnamento
del violino molto presto, a dieci o dodici anni, perché a quell'età – scriveva l’autore
– « si può già riconoscere il talento, ma
non... il carattere o la personalità. Se hanno personalità, diventeranno
qualcuno. Altrimenti, almeno suoneranno bene». Questo significa che il
talento è solo il punto di partenza di quel processo che porta a diventare se
stessi. La parte più importante è data dal carattere e dalla personalità del
soggetto. Come dire che non è neppure sufficiente «coltivare» le proprie doti, ma
che occorrono parallelamente altre qualità: indipendenza, dedizione, attaccamento
passionale; una sorta di consacrazione continua al proprio lavoro, che richiede
abnegazione e capacità di sacrificio. Il violinista iraniano aveva pertanto adottato
per sé il detto di Seneca: «Imperare sibi
maximum imperium est», «Il dominio di
se stessi è il massimo dominio». Per dominare se stessi, quindi, non si deve allenare solo il talento, ma
soprattutto il carattere. Pensando al talento, c’è una storia raccontata dallo
scrittore italiano Stefano Massini nel suo straordinario Dizionario inesistente (Mondadori 2018) che mi sembra utile e allo
stesso tempo divertente per la nostra riflessione. Massini racconta la
meravigliosa storia dei due fratelli ungheresi, László e György Biro e del
marchese Marcel Bich nella vicenda della nascita della biro a sfera. Un’idea
venuta in mente a László Biro mentre osservava dei bambini che giocavano con le
biglie. Guardando una biglia che uscendo da una pozzanghera lasciava una scia
dritta di acqua, egli immaginò le penne a sfera. Ma pare che i due fratelli non
siano riusciti a sfruttare adeguatamente quella geniale intuizione. Nella metà
del Novecento il marchese Marcel Bich acquistò il brevetto e produsse su larga
scala le penne a sfera. Massini ricava da questa storia una nuova parola:
bichismo. «Bichismo – Sostantivo
maschile. Derivato dal marchese Marcel Bich (1914-1994) – Indica il fenomeno
dell’appropriazione, non necessariamente illecita, di un’idea altrui per trarne
un proprio profitto. In particolare, il sostantivo definisce ogni situazione in
cui la pragmaticità di qualcuno si impone sul genio di un altro, incapace di
gestire il proprio talento». Forse vale la pena mettere l’accento anche
sulla necessità di saper amministrare e guidare il proprio talento, non solo per
evitare che venga dissipato, ma per non correre il rischio che diventi prezioso
per altri e troppo poco per noi.
Un caro saluto,
Alberto
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