Caro professore,
Spesso, andando a correre nel bosco, mi è capitato di provare nuove
strade, nuovi sentieri che, inoltrandosi più nell’oscurità, fanno sorgere
questioni come… “Ma starò procedendo
nella direzione giusta?” o “E se mi perdo,
se sbaglio, che faccio?”. Ecco, vorrei capire perché esiste quel “Se mi perdo, se mi sbaglio, che faccio?”
e invece non si possa mai essere sicuri del proprio operato, della strada
intrapresa. Di solito si sente la risposta “Perché
si è in costante paragone con gli altri, con una realtà che è nostra ma non ci
appartiene”, ma questo non mi basta…
Francesco 4h
Caro Francesco,
La vita è fatta più di sentieri che di strade o autostrade. Talvolta è
solo considerando retrospettivamente la nostra esistenza che riconosciamo di
aver effettivamente percorso una strada, mentre nel viaggio quotidiano che dà
origine all’evoluzione personale è difficile comprendere anticipatamente se lasceremo
una linea continua sul foglio della vita. Sia il movimento dell’umanità sia
quello dei singoli individui si originano da sentieri immaginati e poi creati
in aree che prima non sembravano praticabili. È facile e consolante, ad un
certo punto della vita, fare un bilancio ed unire i puntini del passato in una
narrazione coerente, ma molto spesso quando la nostra vita viene abbozzata, la
direzione non è affatto chiara. E la tua domanda: “Ma starò procedendo nella direzione giusta?” è l’interrogativo che
ciascuno porta con sé in ogni momento in cui deve compiere una scelta importante,
perché le scelte danno direzione alla vita, ma ad ogni bivio la stessa questione
si ripropone. E l’angoscia non si origina solo dalla responsabilità per aver
intrapreso una via, ma soprattutto dal timore per la qualità della persona che potremmo
generare. I sentieri della vita non sono come quelli che percorrono le biglie
in circuiti predefiniti sulla spiaggia. Questi ultimi consentono a tutte quante
di avanzare più o meno speditamente in una stessa direzione, mentre i sentieri
della vita trasformano la vita, perché questa si genera insieme al sentiero.
Non ci sono istruzioni. Se si sbaglia e ci si perde occorre trovare da soli un’uscita o aver la forza di creare
una nuova strada. Credo che così si sia mossa un po’ tutta l’umanità. Nella
storia della filosofia il bisogno di percorrere il sentiero giusto arriva da molto
lontano. Eraclito e Parmenide si sono occupati della modalità con cui gli
uomini conoscono la realtà. Eraclito ha parlato di due strade diverse che si
aprono alla conoscenza e per indicarle ha fatto ricorso a due categorie di
uomini: i dormienti e gli svegli; i primi non in grado di procedere oltre
l’apparenza, i secondi in grado di cogliere una realtà più profonda con la
ragione. E anche Parmenide – seppure con esiti opposti – ha rivelato due sentieri
che si aprono all’uomo: quello della verità «ben rotonda» e quello del mondo
dell’apparenza. Poi anche Platone ha tracciato uno snodo per la conoscenza: la «doxa», l’opinione e «l’episteme», la conoscenza razionale. Ma la filosofia ha percorso tante strade, aprendo innumerevoli direzioni non solo
nella teoria della conoscenza, ma nel diritto, nell’etica o nell’estetica. Il
mondo cristiano ha tracciato altri sentieri, che si riferiscono al rapporto tra
l’interiorità dell’uomo e la trascendenza e così ha accresciuto la mappa della
vita con il sentiero del peccato che si oppone a quello della virtù e quello
dell’errore che ostacola quello della verità. Nell’Ottocento, esprimendo la
solitudine dell’uomo che procede a tentoni poiché non si fida più delle grandi
narrazioni del mondo, Nietzsche ha scritto: «Io batto nuovi sentieri, un discorso nuovo viene a me; mi sono
stancato, come tutti quelli che creano, delle vecchie lingue. Il mio spirito
non vuole più camminare su suole consunte». Ed è curioso che nel Novecento
Heidegger nel 1950 abbia pubblicato un libro dal titolo Holzwege, ossia Sentieri
interrotti, per far riferimento ad una svolta della propria filosofia. E
poi chissà quanti sentieri ha intrapreso l’uomo, nella conoscenza scientifica,
nelle strade che conducono alla democrazia, alla medicina o alle leggi. Ma tu
chiedi perché esiste quella dimensione così angosciante riassunta nella
domanda: “Se mi perdo, se mi sbaglio, che
faccio?”. Credo che il peso di quella domanda non derivi tanto dal confronto
con gli altri, ma dalla consapevolezza che la vita è irreversibile. Se la
natura può generare infinite specie viventi e restare priva di quelle che non
riescono bene, la vita dell’uomo è unica e il peso di sciuparla è troppo forte.
Filone Alessandrino, nel De animalibus,
racconta una storia che ci può essere utile. Scrive l’autore: «Un cane, nell’inseguire una fiera, essendo
giunto a una profonda fossa presso la quale correvano due sentieri, uno verso
destra, l’altro verso sinistra, fermatosi un attimo meditava quale prendere.
Correndo a destra e non trovando alcuna orma, tornò indietro e andò nell’altra
direzione. Ma poiché neanche in questa appariva alcun segno, saltando al di là
del fossato indagò curiosamente, accelerando la sua corsa a seconda di ciò che
gli diceva il fiuto». Forse anche noi facciamo un po’ così: là dove non
troviamo più tracce che ci indicano la direzione, compiamo un salto che ci
permette di creare una situazione nuova e magari di ritrovare il nostro
obiettivo. Se si conosce la meta, una strada si genera anche quando ci si perde.
Un caro saluto,
Alberto
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