Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 28 dicembre 2020

L' uomo è misura

 


«L’uomo è misura di tutte le cose» è la frase più famosa di Protagora, uno dei più importanti esponenti della sofistica del V sec. a. C. Con essa il filosofo intende dire che i criteri di giudizio sono originati dagli uomini e che non esistono principi universali per orientarsi né in campo conoscitivo né in quello morale. Alla frase di Protagora è stata attribuita una pluralità di significati. Con “uomo” si è inteso il singolo soggetto che percepisce gli elementi della realtà e prova emozioni. Sappiamo che sapori, suoni e odori appaiono diversi a ciascuno di noi e che le emozioni vengono vissute con varia intensità. Quando nel “Teeteto” di Platone viene discussa la tesi di Protagora, Socrate ricorda che lo stesso vento può apparire freddo oppure no se chi è sottoposto alla sua azione è freddoloso o meno. Gli uomini sondano pertanto la realtà a partire dalle sensazioni e le sensazioni sono sempre filtrate da una specifica recettività individuale: è noto, ad esempio, che sui gusti non si possa discutere («de gustibus disputandum non est»); o meglio, si può dialogare, ma non è possibile trovare un accordo. Inoltre, le sensazioni producono opinioni discordi sia nelle varie persone sia in un singolo soggetto in momenti successivi. È esperienza comune che un alimento sembri dolce o salato se chi lo assume ha la febbre o è sano. Ogni individuo è dunque vincolato dalla propria rispondenza, positiva o meno, ad una sostanza o ad uno stimolo. Una seconda ipotesi  interpretativa mette in luce come i valori scaturiscano dalla comunità o dalla civiltà a cui si appartiene. La cultura, l’ambiente, l’educazione, lo sviluppo, lo stato di benessere o meno di un gruppo sociale, di una tribù o di un’etnia condizionano il giudizio di ciò che è allettante o auspicabile. Erodoto, nel primo libro delle “Storie”, descrive le insolite abitudini del popolo nomade dei Massageti. Egli scrive: «Quando un uomo massageta desidera una donna, appende la faretra davanti al carro di lei e si unisce a lei senza preoccupazioni». Oppure: «quando uno divenga assai vecchio, tutti i parenti riunitisi lo immolano e con lui anche capi di bestiame, e, cottene le carni, banchettano. Questa è ritenuta da loro la fine più felice» (cap. I). Queste pratiche sono talmente ripugnanti che –  riferisce lo storico – «Dario durante il suo regno, chiamati i Greci che erano presso di lui, chiese loro a qual prezzo avrebbero acconsentito di cibarsi dei propri padri morti: e quelli gli dichiararono che a nessun prezzo avrebbero fatto ciò» (cap. III). La constatazione dell’irriducibile varietà culturale porta Erodoto a concludere che: «se uno facesse a tutti gli uomini una proposta invitandoli a scegliere le usanze migliori di tutte, dopo aver ben considerato ognuno sceglierebbe le proprie: a tal punto ciascuno è convinto che le sue proprie usanze sono di gran lunga le migliori di tutte». Il metro di giudizio delle azioni scaturisce pertanto anche dalla comunità di appartenenza. E ovviamente da una specifica visione del mondo. Per i Greci, l’orizzonte immutabile della natura è la misura dell’uomo; per i Cristiani, Dio è la misura delle cose. Per l’uomo contemporaneo sono spesso la tecnica e il denaro ad essere misura delle cose e delle persone: chi ha a disposizione tecnologia e capitale e chi è più abile a servirsene è considerato più appetibile. Si è così capovolta l’affermazione di Protagora: non è più l’uomo ad essere misura, perché la tecnica e il denaro danno valore agli oggetti e agli uomini. Purtroppo, dove il denaro diventa l’unico obiettivo a cui tutti gli altri sono subordinati, allora vengono meno anche i valori esclusivamente umani. Questa idea è espressa chiaramente da Raffaele Itlodeo, uno dei protagonisti dell’opera “Utopia” (1516) di Thomas Moore: «Se poi volete, signor Moro, che vi schiuda completamente il mio pensiero, vi dirò che io sono convinto che […] dove tutto si misura soltanto col denaro, ivi non è possibile che in tutto si agisca con giustizia e che tutto, e giustamente, fiorisca per il bene comune». Non dobbiamo omettere né scordare che le ideologie totalitarie hanno creduto di essere la misura della vita umana: misura del passato, generando molteplici tipologie di revisionismo storico; del presente, veicolando un’univoca visione del mondo; e del futuro, attribuendo importanza agli scopi che si conciliavano con una certa dottrina. Da ultimo, “l’uomo” può essere considerato come umanità, ossia come specie. La specie umana, infatti, dà significato agli elementi della natura in funzione della propria sopravvivenza e i propri interessi spesso divergono da quelli delle altre specie. Nel corso della storia è prevalso un eccessivo antropocentrismo nella declinazione della proposizione di Protagora. Al di là degli interessi individuali e collettivi della specie umana, oggi si fa gradualmente spazio l’attenzione alle altre forme di vita. Anch’esse hanno la loro «misura delle cose» che non può essere assoggettata all’interesse del più forte. Da Peter Singer a Frans de Waal potremmo dire che «Invece di fare dell’umanità la misura di tutte le cose, dobbiamo valutare le altre specie per ciò che esse sono». Dovremmo quindi essere in grado di allargare la nostra prospettiva sul mondo e di non ridurre tutto all’interesse esclusivo e miope di un unico protagonista.

Un caro saluto,

Alberto

lunedì 21 dicembre 2020

Contro il desiderio

 


«Contro il desiderio è difficile combattere: a prezzo dell’anima acquista ciò che vuole», scrive Eraclito nel VI sec. a. C. La riflessione sulla sete insaziabile che abita ogni essere vivente attraversa tutta la storia della filosofia. I filosofi hanno considerato il desiderio come struttura profonda dell’uomo, nella duplice interpretazione di brama (impulsiva) e di aspirazione (desiderante): esso è stato declinato in “epithymía” dai greci, in “cupiditas” dal mondo latino, in «conatus» da Spinoza, in «volontà» da Schopenhauer e Nietzsche, in «Es» da Freud. Da Platone a Freud conosciamo pertanto la potenza strutturante o destrutturante di tale forza. Platone insegna che è il desiderio a muovere il soggetto e che la ragione non può fare altro che cercare di regolare come può la sua potenza. E Freud dirà non solo che «l’io non è padrone in casa propria», intendendo che il soggetto agisce sotto una potente spinta che non può arginare, ma che  persino il sogno ha a che fare con il desiderio, in quanto «appagamento camuffato di un desiderio rimosso». Tale brama scardina dunque l’Io, fa saltare la parte organizzata della personalità, e chiede il proprio appagamento in ogni modo: è potenza che ottiene ciò che vuole, persino a prezzo dell’anima, in quanto è in grado di soverchiare la parte razionale. La ragione, infatti, evolutivamente viene molto più tardi, la forza originaria è il desiderio. A mostrare la complessità dell’uomo è Platone, che non si limita a distinguere tra ragione (anima) e impulsi (desideri) e a proporre un dualismo fin troppo noto tra ragione e passioni. Egli dice di più. Ossia che la natura umana è composta non da due, ma da tra elementi imprescindibili. Nel “Fedro”, uno dei dialoghi più belli dell’autore, egli afferma che l’anima è composta di tre parti: una razionale, una irascibile e una concupiscibile. Egli parla dell’anima con il mito della biga alata, facendo riferimento ad una coppia di cavalli alati guidati da un auriga. I cavalli rappresentano le due dimensioni del desiderio: quello bianco, la tendenza a creare la natura autentica del soggetto che cerca la realizzazione di sé; quello nero, la propensione verso l’appagamento immediato di natura istintuale. Il cavallo bianco è eccellente: «quello in miglior forma, è di figura dritta e snella, ha la cervice alta, le froge (le narici) regali, il mantello bianco e gli occhi neri, ama la gloria temperata e pudica, [e] ed è amico dell’opinione verace; lo si guida senza frusta solo con l’incitamento e la ragione». L’altro, quello nero, è pessimo: «ha una struttura contorta e massiccia, messa insieme non si sa come, ha forte cervice, collo tozzo, froge vili, mantello nero ed occhi chiari e sanguigni, compagno di insolenza e di vanità, peloso fino alle orecchie, sordo e a stento dà retta alle sferzate della frusta». Il compito del cocchiere è difficile, perché deve mediare tra due forze. Così il desiderio può essere rovinoso: può anche portare l’uomo alla dissipazione di sé impedendogli di scoprire la sua vera natura, ed è per questo che la mancata regolazione di esso e la sottomissione agli impulsi primitivi possono condurlo alla rovina. Solo l’integrazione equilibrata tra i vari elementi della personalità – come oggi si interpreta il mito platonico –, permette di realizzare la specifica natura di ogni essere umano. C’è un altro modo, però, di intendere la frase di Eraclito. Discende dalla traduzione del concetto di anima in “sostanza” immateriale. Ha certamente una connotazione religiosa e richiama la condizione di un possibile commercio di essa. Anche oggi, infatti, si usa l’antica espressione: «Vendere l'anima al diavolo», per descrivere più comunemente il comportamento di chi accetta qualsiasi compromesso pur di trionfare. La letteratura insegna che coloro che si sono serviti di ogni espediente per appagare le loro ambizioni hanno ottenuto vantaggi apparenti ed hanno corrotto in modo irrimediabile la loro anima per l'eternità. L’idea di vendere l’anima al diavolo è stata rappresentata in maniera bellissima da Wolfgang Goethe nel “Faust”. E dopo di lui non solo grandi letterati, ma anche straordinari musicisti, come Gounod (“Faust”), Liszt (“Mephistowalzer”) e Berlioz (“La damnation de Faust”), hanno elaborato il tema della dannazione dell’uomo che è disposto a mercificare se stesso per ottenere ricchezza, fama o conoscenza. Nel 1947 Thomas Mann pubblica l’opera “Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico”. Egli narra la storia del musicista Adrian Leverkühn che, come Faust, ha ottenuto dal demonio anni di eccezionale attività artistica e fama in cambio della vendita dell’anima e dunque della propria dannazione. Scrive Adrian Leverkühn: «volendo acquistar fama a questo mondo, stipulato avea con lui una promessa e un patto, di maniera che tutto quanto feci nello spazio di ventiquattr'anni e ciò che gli altri giustamente con diffidenza osservarono poté avvenire meramente col suo aiuto ed è opera diabolica, istillata dall'angelo del veleno». C’è dunque un desiderio che si rivolge esclusivamente al possesso di qualcosa: tale impulso snatura l’uomo, perché lo incatena al godimento e al consumo immediato. Ma c’è un desiderio che spinge all’autorealizzazione: è l’energia che permette di autoregolarsi e di fare della propria vita un’opera d’arte. In questo caso l’uomo non vende l’anima, la realizza.

Un caro saluto,

Alberto

lunedì 14 dicembre 2020

Nascere

 


Vi siete mai posti il dilemma di Amleto: «Essere o non essere?» Se sia meglio essere venuti al mondo o meno, se valga la pena affrontare le fatiche della vita, combatterne i mali, resistere alle avversità, attraversare le disgrazie? Bene, non fatene una questione personale: nascere e morire fanno parte di un destino che non è riservato solo all’uomo. Non siamo gli unici esseri che compaiono e poi scompaiono. Per Anassimandro, uno dei primi filosofi antichi di Mileto, la vera realtà è l’infinito («ápeiron»), ciò che è «senza limite». Da esso si originano il regno inanimato e quello animato, tutti gli oggetti e le forme viventi: le rocce, i fiumi, i vegetali, gli animali e gli uomini. La nascita si origina proprio lì, come un flutto che si erge dal mare e nel mare ritorna. Dice Anassimandro: «Principio degli esseri è l’infinito... da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Innumerevoli mondi si generano e si succedono in un ciclo eterno; ma questo emergere dall’infinito per differenziarsi – diventare enti – non dura sempre: il finito è una sorta di eccentricità, una volontà di rompere l’equilibrio dell’unità del tutto; ma questa determinazione si paga: è considerata dal filosofo una colpa o un’ingiustizia («adikía»). Così, tutto ciò che affiora da questo sfondo illimitato, e si determina a partire da esso, poi torna nella sterminata immensità dello spazio. Non vi basta questa spiegazione? Se volete saperne di più potete sempre interrogare Sileno, il mitologico dio silvestre seguace di Dioniso. Secondo ciò che scrive Nietzsche ne “La nascita della tragedia”, egli fornisce risposte schiette ed estremamente sagge a chi lo interpella. Dovrete però procedere cautamente per essere certi di non seccarlo con i vostri quesiti, perché le sue risposte possono raggelare i cuori e terrorizzare le menti. Bene, sappiate che il famoso re Mida – più noto per aver chiesto a Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava ed aver rischiato la vita per questa sua sete insaziabile di ricchezza – è conosciuto anche per aver assillato con le sue domande Sileno stesso. Egli voleva conoscere che cos’era «l’“ottimo per l’uomo”». Deve averlo importunato un po’ troppo, perché – secondo quello che riferisce Aristotele nell’ “Eudemo” o “dell’Anima” – la divinità boschiva gli ha risposto così: «Voi uomini, seme effimero di un penoso destino e di una dura sorte, perché mi fate violenza e mi costringete a dire cose che per voi sarebbe meglio non sapere? Quando, infatti, si ignorano i propri mali, la vita è priva di dolore. Per gli uomini non si dà affatto la cosa migliore fra tutte né tanto meno la possibilità di partecipare alla natura dell’ottimo». Ma doveva essere proprio scocciato e ha continuato: «Per tutti gli uomini e tutte le donne, l’ottimo in assoluto è non essere nati. Dopo di che, la cosa migliore – la prima fra quelle che gli uomini possono conseguire – è, una volta nati, morire al più presto». Questa sentenza fa rabbrividire e spezza tutte le già precarie consolazioni umane. Tuttavia quest’idea era tipica della tragedia greca. Si trova con accenti diversi in Eschilo, in Sofocle e in Euripide. Nell’ “Edipo a Colono” di Sofocle, il Coro, riflettendo sulla condizione umana, afferma: «Molto meglio non essere nati. / Ma, una volta nati, / fare ritorno da dove si è venuti / è destino ancora migliore». Una visione angosciosa della vita, apparentemente negativa o più semplicemente “tragica”. Occorre dire che alcuni filosofi antichi si sono ribellati a questa conclusione. Epicuro, ad esempio, nella “Lettera a Meneceo” non sopporta affatto chi, dopo aver echeggiato l’esito della tragedia ed esserne stato sedotto, ripete agli altri uomini che sarebbe stato più conveniente «non essere nati». Si irrita, perché ritiene che chi ragiona in questo modo non prenda la vita con serietà. Scrive Epicuro: «Se ne è convinto, perché non lascia subito la vita? Ne ha sempre la possibilità, se è davvero determinato a farlo. Ma se dice tanto per dire, sono parole del tutto fuori luogo. Bisogna poi tenere a mente che il futuro ci appartiene e insieme non ci appartiene: non dobbiamo aspettarci che si realizzi immancabilmente, ma non dobbiamo nemmeno disperare che esso si compia». L’uomo contemporaneo ha conservato qualcosa della visione tragica dell’esistenza? Pensa davvero che ignorando i propri mali la vita sia priva di dolore e che evitando di guardare alla propria essenza effimera possa essere felice? Il filosofo Sossio Giametta – un autorevole traduttore delle opere di Nietzsche in lingua italiana – nel libro “Grandi problemi risolti in piccoli spazi” ritiene che gli uomini abbiano ribaltato l’antica sentenza tragica. Scrive infatti: «Quindi, contrariamente a quello che dice “il saggio Sileno” al re Mida: “Il meglio è per te [...] non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”, la cosa migliore per noi è esistere sempre, come Dio, e la cosa in secondo luogo migliore è esistere a lungo». Chissà se Sileno – che conosceva certamente le aspirazioni degli uomini – avrebbe potuto prevedere la loro irriducibile ostinazione a voler assomigliare agli dei.

Un caro saluto,

Alberto




lunedì 7 dicembre 2020

Amicizia

 


«Non acquisire amici in fretta, e quelli che hai acquisito non lasciarli in fretta», dice Solone, l’autore del famoso ordinamento legislativo di Atene del VI secolo a. C. Egli invita gli uomini a non credere che possano considerarsi amici tutti i conoscenti occasionali e, nello stesso tempo, consiglia loro di non abbandonare gli amici una volta che si sia stabilito un legame positivo, duraturo e intenso, per qualche contrasto o per divergenza di opinioni o di sentire. Egli auspica una sorta di resilienza alla frustrazione soprattutto nei rapporti interpersonali. Ma oggi si acquisiscono gli amici più in fretta di un tempo? Apparentemente sì. Grazie ai Social media è davvero semplice accogliere nuovi amici con qualche agevole clik del mouse. Il sociologo Zygmunt Bauman, scherzando, disse che in 88 anni di vita non era riuscito ad avere tutti gli amici che un giovane vantava di aver creato in un solo giorno su Facebook. Le amicizie on-line sono rapide, si può diventare amici di qualcuno e accogliere simpatizzanti in pochi istanti, e nello stesso tempo si possono rompere tali relazioni senza particolari sensi di colpa o eccessive rimuginazioni. Ma queste forme di amicizia hanno qualcosa in comune con l’amicizia a cui fanno riferimento gli antichi? Oppure semplicemente non abbiamo ancora delle parole adeguate per definire questi rapporti e rubrichiamo tutte le relazioni sotto il grande concetto di “amicizia”? Forse dovremmo avere il coraggio di Aristotele, quando diceva che per certi vizi o virtù non aveva ancora a disposizione il nome per definirli. Un’unica parola è così utilizzata per indicare legami deboli e legami forti, amicizie che sgorgano dalla simpatia immediata, dalla condivisione di un’idea, e quelle che si mantengono nelle difficoltà e si nutrono negli anni. Nulla vieta che dalle amicizie occasionali si creino legami forti, ma la maggior parte di esse non riesce ad elevarsi a tale dimensione. L’amicizia è essenziale nel mondo contemporaneo – anche nei vari modi in cui è declinata – e lo era nel mondo antico, tanto che Aristotele all’inizio del libro VIII dell’ “Etica nicomachea” scrive che: «Nessuno sceglierebbe di vivere senza amici anche se avesse tutti gli altri beni». Egli è convinto della necessità di tale sentimento: ritiene che sia proprio l’amicizia a tenere unite le città e che i legislatori si preoccupino più di essa che della giustizia. La considera fondamentale per la pace pubblica e per i benefici individuali. La giudica al vertice delle relazioni, perché tra gli amici non c’è bisogno di giustizia, mentre «i giusti hanno ancora bisogno dell’amicizia». Egli afferma, a questo proposito, che il culmine della giustizia è un sentimento molto simile all’amicizia: perché l’equità e la rettitudine consentono l’armonia nelle piccole comunità famigliari e favoriscono la concordia nelle città. Si può discutere a lungo sulla nascita dell’amicizia: se il simile scelga il simile, come sostenevano alcuni filosofi («la cornacchia va dalla cornacchia») o se si scelgano persone differenti («La terra ama la pioggia, quando la pianura è secca»). Indipendentemente dall’origine, Aristotele dice che le amicizie vere sono rare ed hanno bisogno di «tempo» e «consuetudine», esattamente come riteneva Solone. Egli richiama alla memoria un antico proverbio secondo il quale non si arriva a conoscersi prima di aver consumato una certa quantità di sale insieme. Prima di aver creato una certa familiarità ed aver condiviso la quotidianità non è possibile accettarsi reciprocamente come amici, perché occorre un tempo sufficiente affinché  uno si mostri all’altro come «degno di amicizia e di fiducia». Ed è per questo che Aristotele afferma che «quelli che mostrano sentimenti di amicizia in modo affrettato vogliono essere amici ma non lo sono». Egli ricorda – con una bellissima espressione – che «Il desiderio di amicizia è rapido a nascere, l’amicizia no». Forse è per questo che già Solone affermava di «non lasciare gli amici in fretta», di saper accogliere le differenze e di rispettarle, di non essere umorali e di non reagire in modo troppo piccato nelle relazioni con il prossimo. Perché i legami di amicizia temprati dal tempo e dalla consuetudine devono avere quella resilienza essenziale da saper reggere piccoli urti nel pensiero e nel sentire. Anche oggi l’amicizia ha bisogno di tempo, nonostante tutte le facilitazioni procurate dalla tecnologia. Lo ricorda anche lo scrittore Saint-Exupéry ne “Il piccolo principe”. Ricordate quando la volpe dice al piccolo principe di non poter giocare con lui perché non è «addomesticata»? Alla richiesta di cosa voglia dire «addomesticare», la volpe risponde: «significa creare dei legami». Creare dei legami è un processo lento e graduale, ma fa sì che le persone diventino l’una per l’altra uniche al mondo. Saint-Exupéry sostiene che se gli uomini non hanno più tempo di conoscere nulla e comprano cose già fatte, tuttavia non possono comprare l’amicizia («non esistono mercanti di amici»). Così, il segreto per costruire una relazione duratura è quello di essere pazienti e avvicinarsi l’uno all’altro lentamente. «Ma allora cosa ci guadagni?», chiede il principe. «Ci guadagno il colore del grano», dice la volpe. Il richiamo alla resilienza di Solone è rivolto a questa qualità della vita.

Un caro saluto,

Alberto