lunedì 27 settembre 2021
Copula mundi
lunedì 20 settembre 2021
La dotta ignoranza
Il grande umanista e libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci ha
definito Nicola Cusano «poverissimo cardinale» che né «la pompa, né
la robba stimò molto», in quanto era profondamente dedito allo studio. I
suoi interessi furono molteplici: matematica, filosofia, politica, religione.
Alcuni libri, come “La concordanza universale” e “La pace nella fede”,
che trattano temi religiosi e politici, sono stati tradotti e pubblicati per la
UTET nel 1971 da un nostro illustre conterraneo, don Pio Gaia (1922-2003), originario
di Vezza d’Alba. L’anno dopo, Graziella Federici-Vescovini ha pubblicato invece
le opere filosofiche, tra cui “La dotta ignoranza”, composta dal
filosofo nel 1440. Il tema centrale della sua ricerca è legato alla conoscenza.
«Dotta ignoranza» è un ossimoro. Perché un accostamento tra termini così
fortemente contrastanti? Un po’ perché, come dicono i suoi biografi, Cusano
cercava di stupire e di creare concetti nuovi, un po’ perché tale espressione
ricorda la professione di ignoranza di Socrate («so di non sapere»)
grazie alla quale il filosofo greco era stato definito l’uomo più sapiente di
Atene. A Cusano sta a cuore il rapporto fede-ragione, una questione già a lungo
affrontata nel periodo della Scolastica medievale. Non si può avere una «scienza»
di Dio, ossia una conoscenza precisa, ma solo una «sapienza». Qualunque
tentativo di racchiudere Dio in un concetto, definirne il perimetro con la
ragione, è destinato a fallire. E allora: «Nessun’altra dottrina più
perfetta può sopraggiungere all’uomo (anche più diligente) oltre quella di
scoprire di essere dottissimo nella sua propria ignoranza: e tanto più uno sarà
dotto, quanto più si saprà ignorante». Per la ragione finita, legata al
principio di non-contraddizione, capace di procedere in modo lineare nella
dimostrazione, non c’è alcuna possibilità di giungere a racchiudere in concetti
esaustivi la complessità di Dio. È un po’ il limite del software che vivifica
il nostro corpo: le applicazioni della nostra mente sono certamente
eccezionali, ma circoscritte; un po’ come quelle del pipistrello che permettono
al mammifero di orientarsi nello spazio, ma non di vedere una scritta
bidimensionale su una parete o distinguere le indicazioni «entrata» e «uscita»
in un cinema. Gli applicativi del nostro cervello per quanto potenti non
sarebbero in grado di codificare una dimensione che supera quella del finito.
Ogni tentativo compiuto in tale direzione è inadatto a rappresentare Dio,
esattamente come il disegno di un bambino è lontano dal restituire fedelmente l’immagine
dei propri genitori. Dio è infinito e immenso. Cusano lo definisce – con
un’immagine tratta dalla geometria – «una sfera infinita il cui centro è
dappertutto e la circonferenza in ogni luogo». Che rapporto possiamo avere
con una sfera infinita? Non c’è proporzione alcuna. Noi stiamo alla verità come
il poligono al cerchio: «Quanti più angoli avrà il poligono inscritto, tanto
più sarà simile al cerchio: tuttavia, non sarà mai uguale, anche se avremo
moltiplicato i suoi angoli all’infinito, a meno che non si risolva
nell’identità con il circolo». Possiamo dunque aumentare enormemente il
numero del lati di un poligono inscritto in un cerchio, ma nessun poligono sarà
sovrapponibile ad esso. Solo una figura con un numero infinito di lati
combacerà con il cerchio, ma una perfetta coincidenza uomo-Dio è impossibile
perché l’essere umano non può eludere le proprie caratteristiche. Se ci
rendiamo conto che «Dio è incomprensibile per l’immensità della sua
eccellenza», abbiamo dunque compreso che cos’è la «dotta ignoranza».
Intuiamo che c’è qualcosa che supera la ragione e che ad essa non si può
ridurre. Siamo certi dunque di ignorare, e tale cognizione fa di noi dei
piccoli dotti, ferrati nella comprensione di ciò che sappiamo e di ciò che
ignoriamo. Spesso si dice che l’ignorante non può sapere che cosa ignora.
Quando gli Europei non erano mai stati in America, non solo non si curavano
delle popolazioni che vivevano là, ma non sapevano neppure che cosa ignoravano
e non potevano immaginare. Era un vuoto di sapere profondo e incolmabile.
Invece, per quanto riguarda la conoscenza di Dio l’uomo può intuire che Dio
esiste ma, nonostante tutti gli sforzi, la sua comprensione sarà sempre
inadeguata. La nostra ignoranza è dunque “dotta”, solo se riusciamo ad
immaginare la nostra insufficienza. In un’altra opera intitolata “Le
congetture”, l’autore scrive che «ogni proposizione affermativa circa il
vero, che l’uomo può formulare, è una congettura. L’accrescimento
dell’apprendimento del vero, infatti, non si esaurisce mai». Chi pertanto
sa che la conoscenza di Dio è inesauribile, è dotto; chi pretende di giungere
ad esso è stolto. È il vero ignorante, in quanto ignora che Dio è
inconoscibile. Possiamo incrementare la nostra conoscenza solo se c’è
proporzione tra ciò che sappiamo in un dato momento e ciò che dobbiamo
conoscere. A partire dalla scuola dell’infanzia, ogni anno, infatti,
incrementiamo il nostro sapere. Gradualmente. Ma con ciò che è massimo non c’è
più proporzione e il nostro apprendimento non ha più parametri di riferimento.
Così, in “La caccia della sapienza” (1463), Cusano ribadisce che «Dio
è più grande di ogni concetto e di ogni scibile». E più avanti afferma che
Proclo «solamente, che ha avuto intuizioni più profonde degli altri
filosofi, ha detto che si sarebbe meravigliato se avesse potuto trovare Dio, e
più ancora se, trovatolo, fosse riuscito a divulgarlo».
Un caro saluto,
Alberto
lunedì 13 settembre 2021
L’uomo artefice del proprio destino
La locuzione latina «homo
faber fortunae suae», «l’uomo è
artefice del proprio destino», attribuita al politico e letterato romano
Appio Claudio Cieco (IV-III sec. a.C.), è stata ampiamente rielaborata da uno dei più noti umanisti italiani, Giovanni Pico della
Mirandola. Pico, purtroppo, non è diventato longevo: è morto
a 31 anni, e solo qualche anno fa i Ris di Parma hanno scoperto che è stato
avvelenato con l’arsenico, due mesi dopo l’altro grande umanista e suo amico, Angelo
Ambrogini, il Poliziano. Pico della Mirandola è morto il 17 novembre 1494, lo
stesso giorno in cui l’esercito di Carlo VIII entrava a Firenze, dando inizio
alla prima delle guerre per conquistare l’Italia. Pur avendo scritto molte
opere filosofiche, è ricordato da tutti per un breve testo che nel corso del
tempo è diventato l’emblema della concezione dell’Umanesimo: l’ “Oratio de
hominis dignitate”, il “Discorso sulla dignità dell’uomo”. Pico compone questo
discorso nel 1486, quando ha 23 anni. All’inizio del testo egli dice di aver
letto negli antichi libri degli Arabi che il saraceno Abdallah, interrogato su
quale cosa gli sembrasse massimamente degna di meraviglia nel
mondo, aveva risposto che «niente vi appare di più meraviglioso dell’uomo». Per
carità, pare che tutti gli uomini nel corso della storia abbiano sottoscritto
convintamente questa intuizione: analfabeti e sapienti hanno sempre ribadito
che l’uomo è sovrano della natura per acutezza dei sensi, intuito, ragione, capacità
creativa e per altre varie e indiscutibili abilità. D’altra parte, l’uomo è un
essere in grado di comprendere gli oggetti eterni della matematica e di
costruire strumenti complessi per il lavoro o per la conoscenza, di orientarsi
nel mondo; di pensare Dio, l’eterno, e il fluire del tempo, ossia i
processi della storia. Un essere che fa da tramite tra il necessario (ciò che
non muta) e il contingente (ciò che è transitorio); definito «interstizio tra
l’immobile eternità e il fluire del tempo» oppure «imeneo del mondo», vale a
dire intermediario tra il mondo angelico e quello bestiale. Il limite più
elevato del mondo animale e, nello stesso tempo, l’estremità inferiore di
quello celeste. Ma a Pico della Mirandola queste analisi, che certamente condivide,
non sono ancora sufficienti. Egli invita a mettere a fuoco un altro aspetto: la
condizione dell’uomo, quella che ha avuto in sorte nell’universo intero. Avventurandosi
in una breve sintesi della concezione teologica e cosmologica del tempo, egli afferma
che Dio, «sommo Padre e architetto», ha posto gli angeli nell’iperuranio, ha
animato le sfere celesti con gli spiriti beati e ha popolato la Terra, «il
mondo inferiore» composto di parti «sozze e fangose», con svariate specie
animali. Alla fine interpreta in modo mirabile la peculiare condizione umana,
affermando pertanto che Dio: «Prese dunque l’uomo, questa creatura di aspetto
indefinito, e, dopo averlo collocato al centro del mondo, così gli si rivolse:
«O Adamo, non ti abbiamo dato una sede determinata, né una figura tua propria,
né alcun dono peculiare, affinché quella sede, quella figura, quei doni che tu
stesso sceglierai, tu li possegga come tuoi propri, secondo il tuo desiderio e
la tua volontà. Tu, che non sei racchiuso dentro alcun limite, stabilirai la tua natura in base al tuo
arbitrio, nelle cui mani ti ho consegnato. Ti ho collocato come centro del
mondo perché da lì tu potessi osservare tutto quanto è nel mondo. Non ti
creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, in modo tale che tu,
quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa
foggiarti nella forma che preferirai. Potrai degenerare negli esseri inferiori,
ossia negli animali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo animo, essere
rigenerato negli esseri superiori, ossia nella creature divine». E più avanti, chiarendo le peculiarità dell’essere
apparentemente più privilegiato della natura, scrive: «Chi non ammirerà questo
nostro camaleonte?». Già, l’uomo è considerato un camaleonte che può assumere
forme diverse e mutuare le caratteristiche dall’ambiente con cui desidera
identificarsi. Sappiamo bene che l’uomo è sottoposto ai vincoli della natura,
della cultura, della genetica, ma sappiamo che nonostante questi limiti e i molteplici
condizionamenti ogni persona può comunque essere artefice del proprio destino. Pico
della Mirandola ci ricorda quanta responsabilità è affidata a ciascun individuo.
L’uomo è dunque «faber», artefice. La
parola «faber» ricorda il fabbro,
colui che manipola e forgia il metallo, perché con l’energia del proprio corpo,
la robustezza degli attrezzi e con il calore del fuoco imprime ad esso la forma
che desidera. «Faber» deriva dal
verbo «facere», ossia “fare”.
Attraverso l’azione progettuale, è possibile correggere e affinare la propria
natura, fino ad assomigliare sempre più al proprio ideale. Ognuno può variare,
trasformare e migliorare il destino o almeno la propria sorte, «fortunae suae», immettendo una direzione
alla vita, conferendole scopi che si accordano con le idee che ritiene consone
alla propria visione del mondo. Essere artefici significa essere creatori e,
come dice il filosofo, ogni uomo è un’opera d’arte che si scolpisce gradualmente
dall’interno: le scelte ripetute e l’adesione a determinati princìpi fisseranno
a poco a poco i colori di questo prodigioso e singolare camaleonte.
Alberto