Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 27 settembre 2021

Copula mundi


Oggi conosciamo tutte le opere di Platone (più di trenta), ma per tutto il Trecento quelle disponibili in latino si contano sulle dita di una mano: il “Timeo”, che parla dell’origine e della struttura del cosmo, in cui viene introdotta la figura del Demiurgo, una sorta di dio che non crea il mondo dal nulla, ma plasma una materia preesistente, dando forma al caos; il “Fedone”, in cui sono contenute tre prove dell’immortalità dell’anima e la narrazione degli ultimi istanti della vita di Socrate; e il “Menone”, che presenta la celebre teoria dell’ “anamnesi”, ossia della conoscenza come ricordo. In tutte queste opere vi sono riferimenti precisi ad una realtà eterna, sottratta al fluire del tempo, a cui è dato il nome di “psyché”, “anima”. Il mondo greco intende con tale parola la parte razionale dell’uomo in grado di giungere a conoscere alcuni elementi senza tempo, come ad esempio gli oggetti della matematica, e proprio per la somiglianza con tali entità considera che sia un’unità immortale inserita in un corpo caduco. Molti anni dopo, sia nel mondo greco – con il genio di Plotino nel III sec. d.C. – sia in quello cristiano, quella componente immateriale è considerata una realtà intermedia tra tutto ciò che esiste. Si pensa che se si potesse fare una sorta di radiografia di tutta la realtà – che i filosofi chiamano “essere”,  l’insieme di ciò che è materiale e di ciò che non lo è  –, si potrebbero individuare entità differenti. Dio, al grado più alto e origine di ogni cosa, poi gli angeli, sostanze immateriali; poi l’anima, anch’essa sostanza immateriale, ma capace di relazione con le sostanze materiali, poi le qualità (come il bianco o il rettangolo), infine, nel rango inferiore, i corpi. In questa scala gerarchica l’anima occupa pertanto una posizione mediana, ed è ritenuta il «vincolo del mondo», in grado di unire tutti gli aspetti di ciò che esiste: è definita «copula mundi», un «legame» che permette di pensare l’eterno e la materia. Una sorta di Giano bifronte in grado di relazionarsi con il mondo sensibile e di animarlo, e nello stesso tempo di sollevarsi a contemplare gli elementi perfetti e più stabili di quello intelligibile. Per estensione, poi, l’idea di «copula mundi», è applicata all’uomo stesso, via di mezzo tra l’animale bruto e l’angelo, come scrive Pico della Mirandola nel “Discorso sulla dignità dell'uomo” del 1496, l’opera in cui il filosofo ricorda quanto ogni uomo sia responsabile del proprio destino. Sullo sfondo di questa concezione vi è una grande analogia religiosa con Cristo, che unisce Dio e l’uomo, l’eterno e l’effimero, l’infinito e il finito. L’idea che l’uomo sia davvero una creatura prodigiosa per questa sua posizione intermedia nell’ordine del creato è centrale nell’Umanesimo, periodo in cui si avverte la necessità di avere nuove versioni delle opere di Platone e di altri autori che trattano argomenti affini. Questo è reso possibile grazie ad una ripresa dello studio del greco che si verifica quando molti intellettuali bizantini si trasferiscono in Italia a seguito del concilio di Firenze del 1438, convocato per riunificare la chiesa latina e quella greca, o come conseguenza della caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi nel 1453. I dotti che diffondono in Italia la conoscenza della lingua greca sono molto noti: il bizantino Manuele Crisolora, chiamato da Coluccio Salutati a Firenze, e il suo allievo Leonardo Bruni di Arezzo; e poi un altro bizantino, il Trapezunzio, che traduce altre opere di Platone su invito del cardinale Nicola Cusano. Firenze è così il centro culturale più importante per gli studi su Platone, tanto che Cosimo de’ Medici offre a Marsilio Ficino una villa per ricreare l’ “Accademia”, ossia l’antica scuola di Platone, chiusa nel 529 d. C. dall’imperatore Giustiniano. L’anno è il 1459 e Marsilio Ficino, che si dichiara «seguace del divino Platone», è entusiasta di poter tradurre tutte le opere del filosofo ateniese. A dire il vero l’interesse non è solo per Platone, ma anche per una serie di scritti e di autori che vengono individuati da Ficino come “trait d'union” tra il mondo antico, egiziano, greco e cristiano. Secondo il filosofo vi è infatti un preciso filo rosso che unisce la tradizione greca e il mondo medievale: Platone e il cristianesimo. Molti autori del tempo sono infatti convinti che: «modificate poche cose i Platonici sarebbero cristiani». Ecco allora che nella “Theologia platonica” del 1482, dedicata a Lorenzo de’ Medici, Marsilio Ficino ripropone, sulla scia di Plotino, i cinque gradi della realtà: «la massa corporea, le qualità, l’anima, l’angelo, Dio». E nel terzo libro qualifica l’anima con termini che influenzeranno tutta la cultura umanistica: «centro della natura, il grado intermedio dell’universo, la concatenazione del mondo, il volto di tutte le cose, il vincolo e la copula del cosmo». Il poeta, il letterato, il pittore, lo scultore, il musicista esprimeranno perfettamente il concetto di «copula mundi», perché saranno in grado di infondere nella materia le loro intuizioni o ciò che hanno contemplato con la loro mente. Ogni artista volgerà dunque lo sguardo ad una realtà più alta per poi ricreare con la materia l’oggetto della propria visione. È un momento di grande fiducia nell’uomo, che cerca di tenere insieme tutte le dimensioni della realtà e non si accontenta di abitarne qualche frammento. 
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 20 settembre 2021

La dotta ignoranza

 


Il grande umanista e libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci ha definito Nicola Cusano «poverissimo cardinale» che né «la pompa, né la robba stimò molto», in quanto era profondamente dedito allo studio. I suoi interessi furono molteplici: matematica, filosofia, politica, religione. Alcuni libri, come “La concordanza universale” e “La pace nella fede”, che trattano temi religiosi e politici, sono stati tradotti e pubblicati per la UTET nel 1971 da un nostro illustre conterraneo, don Pio Gaia (1922-2003), originario di Vezza d’Alba. L’anno dopo, Graziella Federici-Vescovini ha pubblicato invece le opere filosofiche, tra cui “La dotta ignoranza”, composta dal filosofo nel 1440. Il tema centrale della sua ricerca è legato alla conoscenza. «Dotta ignoranza» è un ossimoro. Perché un accostamento tra termini così fortemente contrastanti? Un po’ perché, come dicono i suoi biografi, Cusano cercava di stupire e di creare concetti nuovi, un po’ perché tale espressione ricorda la professione di ignoranza di Socrate («so di non sapere») grazie alla quale il filosofo greco era stato definito l’uomo più sapiente di Atene. A Cusano sta a cuore il rapporto fede-ragione, una questione già a lungo affrontata nel periodo della Scolastica medievale. Non si può avere una «scienza» di Dio, ossia una conoscenza precisa, ma solo una «sapienza». Qualunque tentativo di racchiudere Dio in un concetto, definirne il perimetro con la ragione, è destinato a fallire. E allora: «Nessun’altra dottrina più perfetta può sopraggiungere all’uomo (anche più diligente) oltre quella di scoprire di essere dottissimo nella sua propria ignoranza: e tanto più uno sarà dotto, quanto più si saprà ignorante». Per la ragione finita, legata al principio di non-contraddizione, capace di procedere in modo lineare nella dimostrazione, non c’è alcuna possibilità di giungere a racchiudere in concetti esaustivi la complessità di Dio. È un po’ il limite del software che vivifica il nostro corpo: le applicazioni della nostra mente sono certamente eccezionali, ma circoscritte; un po’ come quelle del pipistrello che permettono al mammifero di orientarsi nello spazio, ma non di vedere una scritta bidimensionale su una parete o distinguere le indicazioni «entrata» e «uscita» in un cinema. Gli applicativi del nostro cervello per quanto potenti non sarebbero in grado di codificare una dimensione che supera quella del finito. Ogni tentativo compiuto in tale direzione è inadatto a rappresentare Dio, esattamente come il disegno di un bambino è lontano dal restituire fedelmente l’immagine dei propri genitori. Dio è infinito e immenso. Cusano lo definisce – con un’immagine tratta dalla geometria – «una sfera infinita il cui centro è dappertutto e la circonferenza in ogni luogo». Che rapporto possiamo avere con una sfera infinita? Non c’è proporzione alcuna. Noi stiamo alla verità come il poligono al cerchio: «Quanti più angoli avrà il poligono inscritto, tanto più sarà simile al cerchio: tuttavia, non sarà mai uguale, anche se avremo moltiplicato i suoi angoli all’infinito, a meno che non si risolva nell’identità con il circolo». Possiamo dunque aumentare enormemente il numero del lati di un poligono inscritto in un cerchio, ma nessun poligono sarà sovrapponibile ad esso. Solo una figura con un numero infinito di lati combacerà con il cerchio, ma una perfetta coincidenza uomo-Dio è impossibile perché l’essere umano non può eludere le proprie caratteristiche. Se ci rendiamo conto che «Dio è incomprensibile per l’immensità della sua eccellenza», abbiamo dunque compreso che cos’è la «dotta ignoranza». Intuiamo che c’è qualcosa che supera la ragione e che ad essa non si può ridurre. Siamo certi dunque di ignorare, e tale cognizione fa di noi dei piccoli dotti, ferrati nella comprensione di ciò che sappiamo e di ciò che ignoriamo. Spesso si dice che l’ignorante non può sapere che cosa ignora. Quando gli Europei non erano mai stati in America, non solo non si curavano delle popolazioni che vivevano là, ma non sapevano neppure che cosa ignoravano e non potevano immaginare. Era un vuoto di sapere profondo e incolmabile. Invece, per quanto riguarda la conoscenza di Dio l’uomo può intuire che Dio esiste ma, nonostante tutti gli sforzi, la sua comprensione sarà sempre inadeguata. La nostra ignoranza è dunque “dotta”, solo se riusciamo ad immaginare la nostra insufficienza. In un’altra opera intitolata “Le congetture”, l’autore scrive che «ogni proposizione affermativa circa il vero, che l’uomo può formulare, è una congettura. L’accrescimento dell’apprendimento del vero, infatti, non si esaurisce mai». Chi pertanto sa che la conoscenza di Dio è inesauribile, è dotto; chi pretende di giungere ad esso è stolto. È il vero ignorante, in quanto ignora che Dio è inconoscibile. Possiamo incrementare la nostra conoscenza solo se c’è proporzione tra ciò che sappiamo in un dato momento e ciò che dobbiamo conoscere. A partire dalla scuola dell’infanzia, ogni anno, infatti, incrementiamo il nostro sapere. Gradualmente. Ma con ciò che è massimo non c’è più proporzione e il nostro apprendimento non ha più parametri di riferimento. Così, in “La caccia della sapienza” (1463), Cusano ribadisce che «Dio è più grande di ogni concetto e di ogni scibile». E più avanti afferma che Proclo «solamente, che ha avuto intuizioni più profonde degli altri filosofi, ha detto che si sarebbe meravigliato se avesse potuto trovare Dio, e più ancora se, trovatolo, fosse riuscito a divulgarlo».
Un caro saluto,
Alberto


lunedì 13 settembre 2021

L’uomo artefice del proprio destino

 


La locuzione latina «homo faber fortunae suae», «l’uomo è artefice del proprio destino», attribuita al politico e letterato romano Appio Claudio Cieco (IV-III sec. a.C.), è stata ampiamente rielaborata da uno dei più noti umanisti italiani, Giovanni Pico della Mirandola. Pico, purtroppo, non è diventato longevo: è morto a 31 anni, e solo qualche anno fa i Ris di Parma hanno scoperto che è stato avvelenato con l’arsenico, due mesi dopo l’altro grande umanista e suo amico, Angelo Ambrogini, il Poliziano. Pico della Mirandola è morto il 17 novembre 1494, lo stesso giorno in cui l’esercito di Carlo VIII entrava a Firenze, dando inizio alla prima delle guerre per conquistare l’Italia. Pur avendo scritto molte opere filosofiche, è ricordato da tutti per un breve testo che nel corso del tempo è diventato l’emblema della concezione dell’Umanesimo: l’ “Oratio de hominis dignitate”, il “Discorso sulla dignità dell’uomo”. Pico compone questo discorso nel 1486, quando ha 23 anni. All’inizio del testo egli dice di aver letto negli antichi libri degli Arabi che il saraceno Abdallah, interrogato su quale cosa gli sembrasse massimamente degna di meraviglia nel mondo, aveva risposto che «niente vi appare di più meraviglioso dell’uomo». Per carità, pare che tutti gli uomini nel corso della storia abbiano sottoscritto convintamente questa intuizione: analfabeti e sapienti hanno sempre ribadito che l’uomo è sovrano della natura per acutezza dei sensi, intuito, ragione, capacità creativa e per altre varie e indiscutibili abilità. D’altra parte, l’uomo è un essere in grado di comprendere gli oggetti eterni della matematica e di costruire strumenti complessi per il lavoro o per la conoscenza, di orientarsi nel mondo; di pensare Dio, l’eterno, e il fluire del tempo, ossia i processi della storia. Un essere che fa da tramite tra il necessario (ciò che non muta) e il contingente (ciò che è transitorio); definito «interstizio tra l’immobile eternità e il fluire del tempo» oppure «imeneo del mondo», vale a dire intermediario tra il mondo angelico e quello bestiale. Il limite più elevato del mondo animale e, nello stesso tempo, l’estremità inferiore di quello celeste. Ma a Pico della Mirandola queste analisi, che certamente condivide, non sono ancora sufficienti. Egli invita a mettere a fuoco un altro aspetto: la condizione dell’uomo, quella che ha avuto in sorte nell’universo intero. Avventurandosi in una breve sintesi della concezione teologica e cosmologica del tempo, egli afferma che Dio, «sommo Padre e architetto», ha posto gli angeli nell’iperuranio, ha animato le sfere celesti con gli spiriti beati e ha popolato la Terra, «il mondo inferiore» composto di parti «sozze e fangose», con svariate specie animali. Alla fine interpreta in modo mirabile la peculiare condizione umana, affermando pertanto che Dio: «Prese dunque l’uomo, questa creatura di aspetto indefinito, e, dopo averlo collocato al centro del mondo, così gli si rivolse: «O Adamo, non ti abbiamo dato una sede determinata, né una figura tua propria, né alcun dono peculiare, affinché quella sede, quella figura, quei doni che tu stesso sceglierai, tu li possegga come tuoi propri, secondo il tuo desiderio e la tua volontà. Tu, che non sei racchiuso dentro alcun limite,  stabilirai la tua natura in base al tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho consegnato. Ti ho collocato come centro del mondo perché da lì tu potessi osservare tutto quanto è nel mondo. Non ti creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, in modo tale che tu, quasi volontario e onorario scultore e modellatore di te stesso, possa foggiarti nella forma che preferirai. Potrai degenerare negli esseri inferiori, ossia negli animali bruti; o potrai, secondo la volontà del tuo animo, essere rigenerato negli esseri superiori, ossia nella creature divine».  E più avanti, chiarendo le peculiarità dell’essere apparentemente più privilegiato della natura, scrive: «Chi non ammirerà questo nostro camaleonte?». Già, l’uomo è considerato un camaleonte che può assumere forme diverse e mutuare le caratteristiche dall’ambiente con cui desidera identificarsi. Sappiamo bene che l’uomo è sottoposto ai vincoli della natura, della cultura, della genetica, ma sappiamo che nonostante questi limiti e i molteplici condizionamenti ogni persona può comunque essere artefice del proprio destino. Pico della Mirandola ci ricorda quanta responsabilità è affidata a ciascun individuo. L’uomo è dunque «faber», artefice. La parola «faber» ricorda il fabbro, colui che manipola e forgia il metallo, perché con l’energia del proprio corpo, la robustezza degli attrezzi e con il calore del fuoco imprime ad esso la forma che desidera. «Faber» deriva dal verbo «facere», ossia “fare”. Attraverso l’azione progettuale, è possibile correggere e affinare la propria natura, fino ad assomigliare sempre più al proprio ideale. Ognuno può variare, trasformare e migliorare il destino o almeno la propria sorte, «fortunae suae», immettendo una direzione alla vita, conferendole scopi che si accordano con le idee che ritiene consone alla propria visione del mondo. Essere artefici significa essere creatori e, come dice il filosofo, ogni uomo è un’opera d’arte che si scolpisce gradualmente dall’interno: le scelte ripetute e l’adesione a determinati princìpi fisseranno a poco a poco i colori di questo prodigioso e singolare camaleonte. 

Alberto