Che cosa abbatte l’uomo e che cosa
lo consola? Certamente i due temi più importanti della vita: l’amore e la
morte. Il primo salva e sostiene, mentre l’impossibilità di amare riduce le
energie e provoca sofferenza. Talvolta anche il rifiuto da parte della persona
amata indebolisce, come raccontano i grandi romanzi o le tragedie. Consideriamo
la tragedia “Amleto” di William Shakespeare. Polonio – il padre di
Ofelia di cui Amleto è innamorato – consiglia alla figlia di star lontana dai
luoghi frequentati dal suo spasimante, di non accogliere i suoi messaggeri e di
non accettare i suoi doni. Lei ascolta gli ammonimenti, mentre Amleto, respinto
– scrive Shakespeare – «a farla breve si abbatté molto, poi prese a
digiunare, poi perse il sonno, poi sopravvenne la debolezza, poi il mancamento,
e per questa china la pazzia per la quale ora lui farnetica». Non abbiamo
dubbi, allora, che l’amore o il suo rigetto possano rendere gli uomini
particolarmente cupi e in alcuni casi persino inclini alla pazzia. Dall’altra
c’è la condizione umana: la consapevolezza che l’uomo è effimero e che deve
morire. Il pensiero della morte di solito avvilisce, e la morte conforta solo
se si porta via dei grandi dolori. Secondo Pascal se pensassimo veramente alla
nostra condizione, una vita tesa tra sforzi, passioni, affanni, arrabbiature,
fatiche, sacrifici e sconfitte, forse cadremmo nel panico e nell’inazione
totale. Scrive Pascal: «L’infelicità naturale della nostra condizione debole
e mortale, e così miserabile che nulla ci può consolare quando ci pensiamo
attentamente». Per fortuna gli uomini si tengono alla larga da tali
pensieri, evitano di meditare «attentamente» e così si salvano, anche
solo provvisoriamente, dalla disperazione. C’è però una sentenza di Pascal che
descrive con grande esattezza la natura umana e le sue ambivalenze. In modo
accurato e gentile egli ci consegna una verità importante quando afferma: «Peu
de chose nous console parce que peu de chose nous afflige», «Ci
consoliamo con poco, perché di poco ci affliggiamo». È una frase che
potrebbe essere pronunciata in una conversazione, una confidenza fatta con una
certa leggerezza ad un amico. Dietro l’apparente naturalità e l’immediatezza
della comprensione il suo contenuto sembra caratterizzare efficacemente la vita
umana. Ci sono almeno due possibilità di intendere questa sentenza: «ci
consoliamo con poco, perché di poco ci affliggiamo» può voler dire che
siamo diventati insensibili e dunque nulla ci scalfisce più; siamo pertanto
facili al conforto perché non proviamo più grandi angosce né tormenti e siamo
così poco vulnerabili perché abbiamo sviluppato una corazza di imperturbabilità
che ci consente di vivere senza problemi. Il livello delle nostre afflizioni e
delle nostre inquietudini non è mai particolarmente profondo. Mangiamo
guardando la guerra in televisione, sprechiamo cibo e oggetti quotidiani pur
sapendo quali sono i costi sociali e quanta energia e denaro saranno necessari
per il riciclo. Quel «di poco» indica un livello oltre il quale non riusciamo
a sentire. Non avvertiamo più il tragico della vita, non cadiamo in angoscia
per le disuguaglianze né per le ingiustizie né per le sventure lontane.
Accogliamo tutto attutito, mitigato, come una musica in sordina, e dunque ci
consoliamo con poco perché non dobbiamo essere recuperati in qualche abisso
lontano. Possiamo attraversare con levità il mare della vita senza essere
scossi né travolti dagli urti delle onde rovinose. Questa riduzione della
nostra capacità di sentire è stata definita dal filosofo tedesco Günther Anders
«dislivello prometeico». Anders diceva che in passato la fantasia e
l’immaginazione erano «esorbitanti» rispetto alle produzioni umane, ma
affermava che nel Novecento il rapporto tra fantasia e realtà si era capovolto.
La velocità della produzione tecnica, la difficoltà di prevederne gli sviluppi
e le conseguenze che essa ha sulla vita hanno ridimensionato la nostra capacità
di sentire e di immaginare. Spesso, solo ciò che ci riguarda è importante, il
resto è sullo sfondo. Siamo disabituati a sentire l’altro, se l’altro è
lontano. Proviamo dunque empatia – quando va bene – solo con coloro che sono
vicini a noi. E così, superati dalla realtà, non cadiamo in angoscia e
risorgiamo facilmente da ogni preoccupazione con la fiducia che tutto si
risolverà in qualche modo in futuro. La sentenza di Pascal può però significare
anche l’opposto. Siamo ipersensibili: basta poco a rasserenare il nostro animo
e basta poco a buttarci giù, a farci star male. Ci crucciamo per delle
sciocchezze: siamo dunque fragili, insicuri e facilmente impressionabili. Basta
un nulla per gettare un’ombra sul nostro umore, su una serata in compagnia, su
convinzioni apparentemente granitiche, sulle relazioni interpersonali. In quel
«peu de chose», è contenuta la nostra essenza: quando un piccolo evento
ci amareggia, muta la nostra percezione della realtà e, insieme ad essa, il
giudizio sulle persone. Portiamo dunque dentro di noi questo Giano bifronte:
insensibili e ipersensibili, indifferenti e insicuri. Facilmente consolabili
sia perché raramente raggiungiamo le profondità abissali di certi pensieri sia
perché, all’opposto, l’ipersensibilità ha bisogno di poco per raggiungere un
nuovo equilibrio. Aveva ragione Pascal a dire che l’uomo è un «mostro
incomprensibile», «un paradosso di fronte a se stesso».
Un caro saluto,
Alberto
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