Caro professore,
è un periodo molto strano. L’emergenza coronavirus ha
costretto tutti noi a cambiare la nostra routine, a rivoluzionare le nostre
vite. Certo, se ci pensiamo ci è andata anche bene: il mio bisnonno alla mia
età era un partigiano, a noi è solo stato chiesto di restare a casa fino a data
da destinarsi. Qualcuno non aspettava altro, qualcun altro l’avrà ormai
accettato: io invece faccio parte di quelle persone che continuano a vivere male
questa quarantena. Nella quotidianità ho sempre cercato di riservarmi uno
spazio per dedicarmi a me stessa e ai miei pensieri, per scollegarmi dal mondo,
per ritrovarmi. Quando però, dopo il decreto della settimana scorsa, questo
tempo è diventato troppo, ho iniziato a dare i primi segni di cedimento. Sono
una persona tremendamente riflessiva e la miriade di pensieri a cui mi
sottopongo giornalmente non fanno altro che uccidermi. Cerco di impiegare il
mio tempo come posso: cucino, leggo, scrivo, pratico sport per quanto ci è ora
possibile, ma è come se tutti gli sforzi che faccio risultassero inutili. Tutti
i giorni arriva quel momento in cui inizio a sentire lo stomaco sottosopra e
gli occhi velati di lacrime: quando potrò rivedere le persone che amo? Quando
potrò di nuovo giocare con i miei bimbi dell’oratorio? Quando potrò sentire
finalmente qualcuno vicino? Ho paura che questo momento venga rimandato sempre
più in là e che io non riesca a reggere, che crolli definitivamente. E possono
dirmi quello che vogliono, ma una videochiamata non sostituisce un abbraccio.
Internet ci ha reso sempre più connessi, ma non più vicini. D’altro canto,
credo che in un mondo che premia l’individualismo, che esalta l’egoismo
spregiudicato, essere costretti a stare soli con sé stessi ci porta a
riscoprire l’enorme importanza dell’altro e della sua presenza, della sua
vicinanza: senza i nostri affetti ci ritroviamo improvvisamente fragili,
indifesi, impauriti. Spero che queste settimane possano servire a tutti noi per
apprezzare di più il tempo che trascorriamo con coloro che amiamo, che sia una
giornata intera o un “scendi due minuti che sono passato a salutarti”; spero
che potremmo di nuovo riscoprire la bellezza di un abbraccio, di un bacio, di
uno sguardo, che sapremmo finalmente amare fino in fondo l’altro e la sua
fragilità. Nonostante queste considerazioni però i miei pensieri continuano ad
ossessionarmi e distruggermi. Ma sono convinta che per gestirli serva solo un
po’ di allenamento e forse è giunto il momento per iniziare a provarci.
A domani e buona serata prof!
Cristina, 3C
Cara Cristina,
È ancora un domani online, il nostro domani. Mi rendo conto
che, non essendo abituati a questo tempo sincopato, possiamo vivere con disagio
il confino. Ma le quarantene sono importanti: preservano la salute e la vita. Pensa
che Nietzsche in Umano troppo umano affermava
persino che «Le istituzioni democratiche
sono istituti di quarantena contro l'antica peste delle voglie tiranniche».
Le quarantene mettono dunque a freno gli impulsi violenti e placano l’impeto della
malattia. Allora sono necessarie per preservare quel bene prezioso che ci è
stato affidato alla nascita e che dobbiamo amministrare nel tempo. Il tempo
della vita, in fondo, è un respiro lungo, una camminata che si snoda negli anni
e talvolta richiede anche momenti di sosta forzata per arrivare lontano. Dobbiamo
guardare a questo tempo in modo più positivo, come gli astronauti dell’Apollo
14 – credo gli ultimi ad essere stati messi in isolamento – che come tutti gli
astronauti hanno atteso con responsabilità quella imprescindibile sospensione del
tempo prima di mettere di nuovo piede sulla Terra e abbracciare i loro cari.
Aspettiamo dunque nella nostra navicella casalinga, considerando le ore che scorrono
lente come un momento necessario da vivere con piena coscienza. In fondo, di
solito facciamo di tutto per indagare la nostra vita interiore: leggiamo pagine
bellissime di letteratura e andiamo al cinema sia per accedere a nuove emozioni
o per amplificare quelle che abbiamo timidamente avvertito, sia per scoprire le
sfaccettature dei sentimenti. Ma poi ci dimentichiamo che abbiamo fatto tutto
questo per la vita, per accrescere la nostra sensibilità, il nostro ésprit de finesse, per poterla cogliere
in modo più profondo e più vero. E ora che abitiamo la vita come un film, talvolta
temiamo che quelle stesse emozioni possano danneggiarci e farci soffrire. Dobbiamo
invece impiegare quella sensibilità impreziosita per resistere, per contrastare
il male e non capitolare. Credo che sia importante recuperare anche un po’ la
memoria della nostra storia individuale (e magari anche collettiva). Uno dei
personaggi di Cent’anni di solitudine,
José Arcadia Buendìa, aveva curiosamente deciso di costruire una macchina della
memoria: ogni mattina ripassava tutte le nozioni acquisite nel corso della
vita. Aveva immaginato un dizionario girevole manovrato con una manovella da un
uomo posto al centro di una stanza, in modo che in poche ore potessero passare
davanti ai suoi occhi le nozioni più necessarie per vivere. Gabriel García Marquez
dice che era riuscito a scrivere circa quattordicimila schede. Chissà se in questo
periodo in cui i nostri pensieri producono così tante radiografie esistenziali riusciamo
anche noi a mettere a fuoco alcune «nozioni
necessarie» per vivere. Perché, dici bene, è questione di allenamento.
Un caro saluto,
Alberto