Alberto
lunedì 29 novembre 2021
Cogito, ergo sum 1/3
Alberto
lunedì 22 novembre 2021
sapere è potere 2/2
L’uomo è dunque invitato a dominare la natura e l’idea di «accelerare e anticipare la scoperta al più
presto, subito e simultaneamente» ha accompagnato non solo Bacone, ma si è
imposta anche nelle epoche successive. Al tempo del filosofo londinese la
capacità tecnica di manipolare il mondo in modo profondo e irreversibile era
ancora al suo debutto, mentre oggi tale facoltà è in una fase avanzata; sullo
sfondo non si intravvede un mondo inteso come «paradiso della tecnica», ma una
grande preoccupazione per le conseguenze di processi difficili da controllare. L’immagine
di dominio dell’uomo sulla natura, simboleggiata dal dono del fuoco di Prometeo
all’uomo, metafora di una tecnica in grado di consentirgli di signoreggiare sull’ambiente,
si alimenta con Bacone ed emerge significativamente nel “Faust” di Goethe, in un dialogo in cui si gettano le basi per la
creazione di un essere umano in laboratorio. Il dialogo tra Wagner e
Mefistofele è bellissimo: «Wagner: Ma
parlate sottovoce e trattenete il respiro; …una cosa grande sta per venire a
termine. Mefistofele: Che
accade mai? Wagner: Si sta fabbricando un uomo. Mefistofele:
Un uomo? e che ci avete dunque nascosto nella cappa del camino: una coppia di
amanti? Wagner: Dio ne scampi! la vecchia moda di generare noi la dichiariamo
roba ridicola. … Le bestie continuano a trovarci gusto, … ma l'uomo, … così
generosamente dotato, … deve avere in avvenire una più pura e più nobile
origine. Wagner: Ciò che si voleva proclamare in natura un mistero, noi osiamo
sperimentarlo razionalmente … Ogni
vasto disegno in principio è giudicato follia… … ma in avvenire noi rideremo del caso, e un cervello destinato a
pensare, in avvenire fabbricherà un pensatore … Di più che possiamo noi volere, che può volere la gente? … Ormai il segreto è scoperto». L’idea
di dominare la natura con la tecnica ha portato all’immaginazione – anche se all’inizio
dell’Ottocento era solo letteraria ma già fortemente inquietante – dell’ “homunculus”,
un omuncolo, un piccolo uomo prodotto in un laboratorio. Uno dei filosofi che
si è più impegnato nell’analisi delle conseguenze di questa accelerazione
illimitata del progresso è stato un filosofo tedesco del Novecento: Hans Jonas.
Nell’opera principale, “Il principio
responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica”, egli riflette sui
pericoli che stiamo vivendo e mostra le nuove emergenze del nostro tempo:
l’ambiente, le generazioni future, le specie non umane. Parla di un futuro poco
rassicurante e indaga la «minaccia di
sventura» dell’ideale baconiano. Egli ritiene che il successo smisurato
della tecnica sia in grado di mettere a rischio sia la natura sia la
sopravvivenza di quasi tutte le specie, perché le promesse del dominio: «si sono capovolte in minaccia, la sua
prospettiva di salvezza in apocalisse”. Se in passato gli uomini non erano
in grado di modificare profondamente la natura, oggi, dice il filosofo: «l’uomo è diventato per la natura più
pericoloso di quanto un tempo la natura lo fosse per lui». Si è dunque passati
dall’impotenza ad una supremazia quasi totale: l’influenza umana è cresciuta
gradualmente e in modo esponenziale tanto da sembrare inesauribile (potere di I
grado). Pare però che oggi il potere sfugga sempre più al controllo dell’uomo
(potere di II grado): la tecnica cresce infatti indipendentemente dalla volontà
dei singoli. Scrive a questo proposito il filosofo Umberto Galimberti in “Psiche e techne”: «l'anima dell'uomo non riesce più ad immaginare e tanto meno a prevedere quello che le sue macchine possono fare, non
riesce più a sentire ciò a cui lo
porta il suo agire, non riesce ad aver coscienza della quantità di conoscenza oggettivata incorporata dalle sue
macchine». Per cui secondo Jonas è necessaria un’autolimitazione del
dominio e quindi «un potere sul potere»
che deve essere operato dalla società (potere di III grado). Scrive Jonas: «Ora però il programma baconiano, lasciato a
se stesso, ha rivelato al culmine del trionfo la sua insufficienza, anzi la sua
intima contraddizione, perdendo cioè l’autocontrollo, il che comporta
l’incapacità di proteggere non soltanto l’uomo da se stesso, ma anche la natura
dall’uomo». E questo è il senso del lavoro tentato della Conferenza delle
Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è appena conclusa a Glasgow, in
Scozia (Cop26), in merito alla riduzione
delle emissioni di gas serra. I temi che preoccupano si sono moltiplicati: eventi
meteorologici estremi, la perdita di biodiversità, il collasso dell’ecosistema,
i grandi disastri naturali, i disastri ambientali creati dall’uomo; ma anche le
manipolazioni che avvengono sulla specie umana e sulle altre specie. Se negli
anni Ottanta la principale apprensione era legata agli scenari apocalittici di
un’esplosione atomica, la paura contemporanea è principalmente legata
all’ambiente. Dall’entusiasmo baconiano alla realismo contemporaneo: è
necessario riprendere il controllo su un processo apparentemente inarrestabile.
Il «potere sul potere» è possibile
solo se si aumenta il sapere sulle conseguenze possibili delle nostre azioni:
intenzionali e non intenzionali, e dal sapere si passa all’intervento. Anche
qui «sapere è potere»: la conoscenza
delle conseguenze dei nostri gesti quotidiani può aiutarci a prendere
provvedimenti collettivi efficaci prima che sia troppo tardi.
lunedì 15 novembre 2021
Sapere è potere 1/2
un caro saluto,
Alberto
lunedì 8 novembre 2021
Imparare a morire
Può essere curioso che i filosofi abbiano considerato che si
deve «imparare a morire». Si potrebbe pensare – se proprio è necessario apprendere qualcosa di importante –, perché
non “imparare a vivere felici”? La
felicità è in fondo preferibile ad ogni obiettivo, tanto che Aristotele diceva
che tutti i beni sono conseguiti come mezzi in vista della felicità Ad esempio,
di solito si cerca il lavoro in funzione della gratificazione personale o per
accrescere il proprio reddito; si compra una casa nuova per avere più spazio e
più comodità: gratificazione, reddito, comodità servono ad essere più felici, ma
la felicità non è conseguita in funzione di altro. Per questo è un fine e non
un mezzo. Capire e sperimentare che cos’è la felicità potrebbe essere dunque il
compito prioritario dell’uomo. Oggi vengono offerti molti manuali di autoaiuto:
prontuari che promettono di risolvere qualche aspetto dell’esistenza: si
propongono di far scomparire qualche carenza relazionale e di perfezionare delle
abilità. Imparare «a gestire le emozioni», «a parlare in pubblico», «a studiare», «ad affrontare i problemi in modo positivo», «a suonare uno strumento», «a
parlare fluentemente una lingua», «a
cucinare». Sono abilità per la vita, per vivere meglio. Ma imparare a
morire può essere considerata un’abilità fondamentale? Ci serve a vivere meglio
o è preferibile – come diceva Spinoza – che l’uomo si dedichi alle meditazioni
sulla vita, tralasciando i pensieri sulla morte? Nel corso dell’esistenza di
solito si ampliano le conoscenze, si instaurano relazioni, si realizzano
progetti e poi si muore. La morte accade, ed è l’evento che accomuna tutti gli
esseri viventi. Non sarebbe meglio non pensarci? Cicerone nelle “Discussioni Tusculane”, ritiene invece
che sia necessario affrontare tale riflessione e addirittura che sia importante
«abituarsi a morire». Dialogando con
un giovane su tali questioni, nella villa di Tusculo, vicino a Frascati, nel 45
a.C., egli afferma: «La morte infatti è
per così dire il distacco e la separazione, lo strappo di quelle parti che
prima della morte erano tenute da qualche giuntura». Per questo dice al suo
interlocutore: «Perciò, dà retta a me,
esercitiamoci a ciò e teniamoci disgiunti dal corpo, cioè abituiamoci a morire».
Cosa intende con l’espressione “abituiamoci
a morire”? Come stoico sa quanto è importante svincolare l’anima – la
ragione – dalle eccessive distrazioni del corpo, dagli affari e dal piacere
stesso. Più l’uomo conduce una vita razionale, più è autonomo. In questo senso,
se la maggior parte degli uomini è così ossessivamente legata ai beni materiali
e ritiene che la vita coincida con il massimo possesso o col massimo godimento di
questi, allora separarsi progressivamente dal corpo è un venir meno a ciò che
la massa considera vita, ed è dunque un abituarsi a morire. Egli invita
pertanto a far sì che la condotta di ciascuno sia perfetta, ineccepibile, e a
liberare progressivamente l’anima dal corpo. Ricorda che Socrate si è preparato
a lungo alla morte e l’ha affrontata con dignità. Non ha cercato avvocati per
il processo e non si è rivolto in modo supplichevole ai giudici, ma ha parlato
con fierezza. Non è evaso di prigione, anche se avrebbe potuto farlo senza
difficoltà, e quando ha dovuto bere la cicuta ha parlato in modo tranquillo. Era
calmo. Sapeva che all’uomo si presentano due strade: il sonno eterno o una
dimensione diversa al cospetto degli dei. Socrate non temeva né l’una né l’altra.
Se tutto finisce, aver vissuto in coerenza con la giustizia e con le leggi sarebbe stato sufficiente. Se si apre un’altra dimensione, allora chi si è
comportato in modo virtuoso non ha nulla da temere. Socrate fa l’esempio dei
cigni che, prima di morire, cantano. Egli afferma: «cantano allora il loro canto più lungo e più bello, presi come sono
dalla letizia che di lì a poco se ne andranno al dio di cui sono devoti». E
così dovrebbero comportarsi le persone sagge e virtuose. La sapienza consiste
nel saper prendere congedo gradualmente da tutto ciò che lega al mondo e da ciò
che è effimero. Anche Montaigne ritiene che eludere il problema della morte sia
il «rimedio del volgo», mentre le
persone serie hanno il dovere di «guardare
in faccia la negatività». Per questo egli dedica un intero capitolo dei “Saggi” al tema: «imparare a morire». Egli rivela che il pensiero della morte è
sempre stato presente nella sua vita, anche nella sua stagione più dissoluta. La
meditazione sulla negatività dell’esistenza non deve condurre però alla
paralisi dell’azione, alla depressione dell’umore, alla rinuncia ai progetti,
ma deve semplicemente gettare luce sulla condizione umana. Scrive l’autore: «I bambini hanno paura perfino dei loro amici
quando li vedono mascherati, e così noi. Bisogna togliere la maschera alle cose
come alle persone». Togliere la maschera alla morte e accettarla come parte
della vita. Montaigne insegna a rapportarsi in modo corretto alla vita e a non
illudersi, perché la morte può sorprendere ad ogni età. Imparare a morire altro
non è che un modo di relazionarsi con l’esistenza che consente all’uomo di
distinguere ciò che è essenziale da ciò che è accessorio. Il più grande
vantaggio di tale consapevolezza è che chi ha imparato a morire, ha «disimparato a servire». Scrive il
filosofo: «È incerto dove la morte ci
attenda, attendiamola dovunque. La meditazione della morte è meditazione della
libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Il saper morire ci
affranca da ogni soggezione e costrizione».