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Cor-rispondenze

lunedì 31 gennaio 2022

Le ragioni del cuore, 3/3

 




 

L’espressione: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» è stata intesa almeno con un duplice significato: alcuni hanno recepito che c’è una facoltà indipendente dalla ragione discorsiva che è in grado di cogliere i principi primi della matematica, della geometria e dei valori. Ma c’è anche chi ha sottolineato che le «ragioni del cuore» possono anche essere giudicate come le motivazioni inconsce – mai completamente esplicitate né afferrate – che agiscono in modo profondo nel soggetto. La riflessione si è poi arricchita con la considerazione che «il cuore ha le sue ragioni che la ragione conosce», facendo riferimento ad un concetto più ampio di ragione: quella sapienziale, che non appartiene agli uomini che agiscono impulsivamente o in assenza di dati, ma a coloro che sanno ascoltare tutto quello che il corpo comunica loro e sanno accogliere informazioni di varia natura prima di decidere. Ora potremmo gettare la moneta e chiederci: allora, “testa o cuore?”. L’alternativa non può essere così netta, perché le due attività dell’uomo sono davvero assai vicine. Gli studi delle neuroscienze hanno mostrato che ragione e cuore non si comportano come nella terra di Skagen in Danimarca, ove il Mare del Nord e il Mar Baltico si incontrano senza mescolarsi. Se a quella latitudine le diverse temperature, densità e salinità impediscono alle acque di fondersi, ragione e cuore non sono affatto scindibili: si intrecciano, si alimentano, talvolta entrano in conflitto, si sostengono e si potenziano l’una con l’altro. Uno dei filosofi che più ha cercato di dare dignità alle «ragioni del cuore», senza rendere il cuore subalterno alla logica, è Max Scheler. Nell’opera “Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valori”, pubblicata all’inizio del Novecento, il filosofo tedesco fornisce una diversa e radicale interpretazione del detto di Pascal. Egli ritiene che poche persone abbiano realmente capito il filosofo francese e che i più gli abbiano semplicemente fatto dire: «Anche il cuore ha qualcosa da dire dopo che la ragione ha parlato!». L’autore mostra tuttavia che Pascal, con il termine cuore, si riferisce invece ad una specifica attività del sentire che è irriducibile alla logica. Scrive Scheler: «Pascal si riferisce a un’eterna e assoluta legalità del sentire, dell’amare e dell’odiare; una legalità assoluta, come quella della logica pura, ma irriducibile alle leggi del pensiero». Egli afferma che il cuore ha davvero «ses raisons», ossia «le sue proprie ragioni», che non trae affatto dall’intelletto e che tali ragioni sono equivalenti, per importanza e significato, a quelle della logica stessa. Secondo il filosofo, Pascal non vuole dire che occorre anche lasciar parlare «il cuore» o il cieco sentimento. E neppure che dove l’intelletto non è in grado di dare risposte congrue ai problemi della conoscenza e della vita allora occorre fatalmente anche accogliere la dimensione del sentimento. Max Scheler è convinto che Pascal voglia dire che: «c’è un tipo d’esperienza i cui oggetti sono assolutamente inaccessibili all’«intelletto», di fronte ai quali l’intelletto è cieco, come lo sono l’orecchio e l’udito di fronte ai colori». Si tratta di un tipo di esperienza che coglie i “valori” e «l’ordine e le leggi di quest’esperienza sono definiti, precisi ed evidenti come quelli della logica e della matematica; esistono, cioè, relazioni e opposizioni evidenti tra i valori, le credenze di valore e gli atti del preferire ecc. che si fondano su di essi, per cui è possibile e necessaria una vera fondazione delle decisioni morali e delle leggi che le regolano». I sentimenti sono organi capaci di afferrare i valori. Per il filosofo i valori sono oggettivi e la loro intuizione viene prima di qualunque rappresentazione discorsiva, logica o narrativa. Scrive l’autore: «I valori non possono essere né creati né distrutti. Essi sussistono indipendentemente dalla struttura di una determinata realtà personale», potremmo dire esattamente come la somma degli angoli interni di un triangolo continua a fare 180° sia che gli uomini ne siano consapevoli sia che ignorino del tutto le proprietà del triangolo. Riflettendo sui termini «ordine del cuore» e «logica del cuore» utilizzati da Pascal, Scheler riconosce che nel mondo vi sono stati dei geni anche in questo campo, ad esempio Gesù Cristo. Anzi, coloro che hanno apportato risultati innovativi in questo settore sarebbero persino più rari rispetto ai geni della conoscenza scientifica. Come questi ultimi sono eccezionali rispetto agli uomini comuni, coloro che hanno riformato la riflessione sui valori sarebbero ancora più rari dei grandi scienziati. A sottolineare la consistenza di una dimensione valoriale che può essere colta dal sentimento, egli suggerisce che le persone possono anche differire radicalmente sulle opinioni di Dio sul piano concettuale, ma possono essere d’accordo sul nucleo dell’idea di Dio. Scrive Scheler: «il Dio di una contadina non è quello di un teologo. Ma è possibile che entrambi condividano lo stesso contenuto sacro». «Le persone che, nell’amore, afferrano Dio insieme sono più numerose di quelle che, sul piano intellettuale, lo intendono nello stesso modo». Non si tratta di una concezione romantica o soggettiva, ma della capacità di avvertire intuitivamente lo stesso nucleo sacro, al di là delle parole e dei concetti. Perché, secondo il filosofo: «È nel genio morale-religioso, pertanto, che sboccia il regno dei valori». 

 Un caro saluto,

Alberto











lunedì 24 gennaio 2022

Le ragioni del cuore, 2/3

 




L’idea pascaliana di ascoltare il cuore ha assunto molti significati: è stata riferita sia alla capacità di intuire i principi primi della matematica e della geometria sia a quella di intendere ciò che si agita nel profondo dell’animo umano. La ragione discorsiva non conosce le logiche del cuore, perché esse scorrono come un fiume carsico sotto la superficie di ciò che è immediatamente visibile allo sguardo. Tuttavia non si esulti facilmente per aver forse riconosciuto la dimensione più importante e qualificante per l’uomo. Le ragioni del cuore potrebbero non essere così nobili e vantaggiose. Si può anche assumere che nel profondo, al di là della ragione, si celino le disposizioni primitive della specie. Potremmo dunque legittimamente diffidare di seguire ciò che non si è ancora affacciato al livello della coscienza, perché rischieremmo di agire come marionette azionate da sofisticati comandi della natura, incapaci di dirigere consapevolmente l’esistenza. Pascal non voleva spingersi a tanto, voleva solo affermare che ragione e cuore convivono, ma appartengono ad ambiti diversi: complementari e pertanto essenziali allo stesso tempo. Il cuore ha certamente «le sue ragioni che la ragione non conosce», ma potrebbero esistere anche delle «ragioni che la ragione conosce». Quando si manifesta tale condizione? Il teologo Gianfranco Ravasi ha mostrato che l’affermazione di Pascal non è del tutto vera per quanto riguarda la Bibbia. Nel testo sacro la parola “cuore” è utilizzata circa 2000 volte ed è ovviamente impiegata con molti significati. Talvolta ha questa connotazione: indica un’intelligenza illuminata dall’amore, un’intelligenza propriamente umana. Scrive Ravasi: «perché il cuore abbraccia anche l’intelligenza, essendo in pratica espressione dell’intera realtà e attività interiore della persona. Quello che noi rimandiamo alla mente, la razionalità, è invece dalla Bibbia inglobato nel cuore: «Il cuore intelligente cerca la conoscenza». Se consideriamo la storia del re Salomone, il re saggio per eccellenza, notiamo che prima di salire al trono egli chiede a Dio «un cuore che ascolti [Dio] perché sappia rendere giustizia al popolo e sappia distinguere il bene dal male». L’autore del “primo libro dei Re” commenta così questa invocazione: «al Signore piacque che Salomone avesse domandato la saggezza nel governare». Gianfranco Ravasi spiega che «per la Bibbia, infatti, l’intelligenza non è mai mera attività razionale ma sapienza ed esperienza, conoscenza e moralità». Ragione e cuore in questo caso non sono due attività distinte: non c’è da una parte la razionalità impassibile e dall’altra un generico “cuore” che rappresenta il sentimento dell’uomo o la sua partecipazione alla vita della comunità. C’è piuttosto un riferimento ad una razionalità apportatrice di saggezza. Quest’ultima non deriva esclusivamente dalla logica, ma da una intelligenza fecondata dall’amore. In questo caso l’intelligenza accoglie le ragioni del cuore e non le ignora. Con l’espressione “cuore” si intende allora ciò che umanizza l’uomo, come nella storia di “Pinocchio”, il passaggio da manichino a bambino non avviene solo perché il protagonista migliora la capacità razionale, ma perché egli è in grado di sentire ciò che è giusto. Anche il bel libro di Susanna Tamaro “Va’ dove ti porta il cuore” non si riferisce al cuore come alla cieca dimensione istintuale, ma contiene un invito a realizzarsi globalmente, senza abbandonarsi all’emotività o alla suggestione del momento. Quando la nonna dialoga con la nipote, dice infatti: «E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta. Respira con la profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuta al mondo, senza farti distrarre da nulla, aspetta e aspetta ancora. Stai ferma, in silenzio, e ascolta il tuo cuore. Quando poi ti parla, alzati e va' dove lui ti porta». «Siediti e aspetta», è un’esortazione a cercare la verità e allude a quell’intelligenza illuminata di Salomone che nel tentativo di comprendere la vita tiene conto del bene complessivo dell’individuo. C’è dunque una conoscenza che nasce dall’amore. Il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar scriveva: «Le radici dell’occhio giacciono nel cuore», e ancora: «l’occhio vede a partire dal cuore». «È questo che Agostino ha inteso, quando ha detto che solo l’amore è capace di vedere». Certo, si dice spesso che “l’amore è cieco”, ma si intende quello gestito dalla specie. C’è invece un’altra forma di amore, quella del re sapiente, del genitore amorevole, dell’insegnante premuroso, dell’amico rispettoso che consente di vedere la persona nel suo complesso e nel divenire: di cogliere con un colpo d’occhio l’evoluzione individuale. Vorremmo tutti essere interpretati da chi ci ama, perché chi ama sa vedere l’altro al di là delle imperfezioni e delle contraddizioni. E qualche volta vorremmo parlare solo con chi ci guarda con il cuore. Ci sentiremmo capiti, perché «Cor ad cor loquitur», «il cuore parla al cuore», diceva il teologo inglese san John Henry Newman un paio di secoli fa. Nel rapporto mente-cuore spesso si è pensato che il cuore fosse la parte più antica e incontrollata, mentre la mente la parte più nobile e evolutivamente più recente. In parte è vero, ma come dice Susanna Tamaro: «E se le cose invece non fossero così, se fosse vero proprio il contrario? Se fosse questo eccesso di ragione a denutrire la vita?».

Un caro saluto,

Alberto





lunedì 17 gennaio 2022

Le ragioni del cuore, 1/3

 



Proviamo a confrontare un antico proverbio italiano con uno dei pensieri più famosi di Blaise Pascal: il primo, frutto di un’ironica ma anche amara constatazione, afferma: «Il cuore ha le sue ragioni e non intende ragione»; il secondo, quello del filosofo francese, dice: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Sembra che queste proposizioni siano simili, ma in realtà corrono su binari paralleli destinate a non incontrarsi. Possiamo asserire che abbiano significati analoghi e che siano, almeno parzialmente, sovrapponibili? Nel proverbio è contenuta un’antica e crudele verità: l’amore è cieco, l’uomo innamorato è ostinato e non sa discernere. Chi è infatuato, infatti, di solito è irremovibile, cocciuto e ha scarsa capacità di procedere non solo in modo razionale, ma persino in modo ragionevole. Soggetto agli stimoli naturali, che collocano le sue azioni in mano alla pulsione della specie, è lontano dalla condizione dell’uomo saggio, rigoroso e temperante, in grado di prendere decisioni ponderate. L’obiettivo di Pascal è forse quello di voler sottolineare – nell’irrazionalità dell’amante – l’ottundimento della ragione? Ovviamente no. La proposizione: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce» è stata variamente interpretata nel corso della storia. Qualcuno ha affermato che la ragione umana è incompetente sulle ragioni del cuore, altri hanno detto invece che essa può conoscerle adeguatamente. Altri ancora hanno sostenuto che anche il corpo ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Oggi tale affermazione è contenuta persino nei libri di linguistica, i quali mostrano che essa è costruita secondo la figura retorica dell’antanaclasi (o anaclasi), perché contiene la ripetizione di una parola («ragione») impiegata con senso diverso. Nel primo caso con «ragioni» si intendono i motivi che spingono l’uomo all’azione, nel secondo la «ragione» è intesa come facoltà razionale che consente di essere coscienti dei propri pensieri, delle proprie intenzioni e degli effetti delle proprie azioni. Da cosa sarebbe tenuta all’oscuro la ragione umana? Che cosa ignora e quali sarebbero le “altre” ragioni, quelle del cuore? Sappiamo che Pascal è uomo di scienza. Studia matematica e geometria: a sedici anni scrive un trattato intitolato “Saggio sulle coniche” [sezioni coniche], a diciotto progetta una calcolatrice meccanica per aiutare il padre nei calcoli delle imposte, e nella sua breve vita si dedica agli studi di fisica, ad esempio sul vuoto, per mostrare che la natura non ha orrore del vuoto, poi si dedica ancora agli studi sull’equilibrio dei liquidi e sul peso della massa dell’aria. Conosce perfettamente i ragionamenti logici che costituiscono la grande forza della matematica e della geometria, e conosce il valore degli esperimenti che nella fisica hanno una capacità di persuadere maggiore di quella dei ragionamenti stessi. Sa tuttavia che la grande capacità di dare conto di tutti i passaggi che legano le varie parti di una dimostrazione non può essere estesa a tutte le questioni importanti per l’uomo. La ragione scientifica non può dare conto dei principi primi su cui si fondano la matematica e la geometria. Tali principi non possono essere dimostrati, ma vengono accolti grazie all’intuizione. L’uomo possiede allora due tipi di intelligenza: quella geometrica, «l’esprit de géométrie» e quella intuitiva, «l’esprit de finesse». La prima rappresenta il procedimento razionale che consente alla scienza di avanzare per gradi, in modo discorsivo, attraverso collegamenti logici che esibiscono tutti i nessi all’interno di un procedimento dimostrativo, collegando esattamente ogni parte del discorso. Poi c’è una seconda intelligenza che non necessita del ragionamento logico-discorsivo, perché è in grado di cogliere immediatamente i principi grazie alla facoltà dell’intuizione. Ragione dimostrativa e intuizione sono pertanto strettamente connesse. I fondamenti delle scienze, dice il filosofo, «sono princìpi che a stento si vedono; più che vederli si avvertono; solo a costo di fatiche infinite si riesce a farli avvertire a chi non li avverte da sé». E se l’intelligenza geometrica rivela piano piano i nessi tra un passaggio e un altro di una spiegazione, l’intuizione, ossia “il cuore”, consente di «vedere la cosa all’istante, con un solo colpo d’occhio, e non già per procedimento razionale». Ma Pascal non è solo uno scienziato. Si occupa anche di morale e di filosofia. Egli afferma che neppure i fondamenti della morale sono dimostrabili dalla ragione e che questi sono avvertiti piuttosto dalla sensibilità e dall’intuizione. Egli è infine anche un uomo di fede: ha una prima conversione religiosa nel 1646 e una seconda nel 1654. In questo ambito le ragioni del cuore sono quelle che permettono all’uomo di avvicinarsi anche alla dimensione del mistero di Dio e della vita. Per Pascal, Dio è infatti «sensibile al cuore e non alla ragione». Scrive l’autore: «È il cuore che sente Dio, e non la ragione: ecco che cos’è la fede. Dio si rende percepibile al cuore, non alla ragione». Partendo da un’analisi della condizione umana, che oscilla tra grandezza e miseria, tra il tutto e il nulla, Pascal ritiene che la potente razionalità umana generi una meravigliosa tessitura del reale, anche se limitata. Tutta la conoscenza si fonda su un atto di fiducia in alcuni elementi indimostrabili che tuttavia costituiscono i fondamenti della scienza, della morale e della religione.

Un caro saluto,

Alberto




lunedì 10 gennaio 2022

Beffarsi della filosofia


 


Ridere o «Beffarsi della filosofia è filosofare veramente» («Se moquer de la philosophie, c'est vraiment philosopher»), dice Blaise Pascal e sembra evocare il commediografo Aristofane che nella commedia “Le nuvole” si era beffato di Socrate e del suo tentativo di razionalizzare la vita. Lo aveva posto dentro una cesta sospeso a mezz’aria a riflettere su argomenti stravaganti con aria austera: una beffa dall’effetto comico garantito. Non si avviliscano coloro che amano la filosofia occidentale, il suo procedere razionale, le sue indagini abissali, le sue sferzate al senso comune e alle tradizioni consolidate. La filosofia non è scomparsa, la sua luce non si è spenta: conserva sia la funzione di sospetto nei confronti di ogni forma di ingenua credenza e di disincanto nei confronti delle illusioni, sia quella di illuminare gli aspetti più intricati e ambigui della vita individuale e interpersonale. C’è persino una filosofia come terapia ai mali dell’anima che dagli stoici agli epicurei sino ad oggi non smette di ridurre le ansie dell’uomo proponendosi come farmaco dell’anima. E allora perché Pascal, il grande matematico e filosofo del Seicento, è così risoluto, rischiando di dissipare con gelida noncuranza un patrimonio così importante? Dobbiamo intenderci sul termine filosofia. La filosofia dell’Occidente è un’indagine razionale sulla realtà, sul modo di conoscere dell’uomo, sui principi etici e politici, su quelli estetici. Al tempo di Pascal la filosofia aveva prodotto grandi sistemi razionali nel tentativo di spiegare la realtà, di tenere insieme finito e infinito, uomo e Dio. Pascal è tuttavia convinto che nessun discorso razionale sia in grado di spiegare tutto e che nessun sistema possa imbrigliare fino a ridurre l’infinito nel finito. Scrive l’autore: «Perché insomma, cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, un punto medio tra il nulla e il tutto. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, il termine delle cose e il loro principio sono per lui invincibilmente nascosti in un segreto impenetrabile (cosa potrà dunque capire? egli è al più) ugualmente incapace di scorgere il nulla da cui è tratto e l’infinito dove è inghiottito». Nel cosmo che lo ospita, l’uomo si trova in una posizione intermedia, in quanto «troppa luce lo acceca, troppo poca luce gli impedisce di vedere» e dunque la tela che è in grado di costruire con i fili della ragione è una tela provvisoria e limitata dalla sua stessa condizione. In fondo nessuna dimostrazione razionale di Dio ha mai convinto alcun uomo nell’esistenza di Dio né viceversa una controdimostrazione ha allontanato l’uomo di fede dalle proprie convinzioni. E nessuna indagine razionale ha mostrato che vi è un accordo universale sui valori, tanto che «due gradi di latitudine e tutta la giurisprudenza è da buttare». Ciò che è valido in un luogo non lo è in un altro. C’è una sorta di delusione per i risultati della ragione, non perché Pascal preferisca l’irrazionalità, perché è sempre lui a dire che «tutta la nostra dignità sta nel pensiero», ma perché c’è sproporzione tra infinito e finito e la ragione si rivela impotente di fronte all’impresa sovrumana di adattare il primo al secondo. Pascal è convinto che la pretesa di una qualunque costruzione razionale di aderire perfettamente alla struttura del mondo sia ingannevole e vana. Questa diffidenza nella ragione arriva da lontano. San Paolo nella “Lettera ai Colossesi” (62 d.C.) scrive: «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo». Paolo di Tarso usa la parola filosofia facendo riferimento alla sapienza del mondo. Qualche secolo dopo sant’Agostino riprende questa riflessione nelle sue “Confessioni”. Nel terzo capitolo dell’opera parla del proprio incontro con la filosofia avvenuto grazie alla lettura dell’ “Ortensio” di Cicerone, un dialogo perduto che contiene un’esortazione alla filosofia. Scrive Agostino: «Ma l'amore della sapienza ha il nome greco di filosofia, e per quel nome mi accendevo, leggendo» […] e «nel mio cuore divampò un’incredibile passione per l’immortalità della sapienza». Agostino comincia a dubitare del valore di tale avventura perché: «Si può sedurre, con la filosofia: c’è gente che usa il suo grande nome affascinante e nobile per imbellettare e mascherare i propri errori, e quasi tutti quelli di questa razza, contemporanei o precedenti all’autore, sono segnalati e bollati in quel libro». Pascal non cerca dunque né di affascinare né rapire il suo interlocutore con sottili ragionamenti logici né di abbellire un certo sistema filosofico con parole avvincenti. Egli sa che l’uomo è un mistero: un elemento insignificante nell’universo racchiuso in una vita effimera, ma allo stesso tempo è anche grande, perché in grado di abbracciare con il pensiero l’idea dell’infinito. La filosofia scettica del suo tempo metteva in luce solo l’impotenza dell’uomo, quella dogmatica solo la grandezza. Tuttavia per il filosofo l’uomo è una unità inscindibile di miseria e grandezza che nessuna filosofia è in grado di decifrare. Poi, nella notte del 27 novembre del 1654, Pascal vive un’esperienza mistica che gli cambia la vita. Per questo dirà che «L’estremo passo della ragione consiste nel riconoscere che esiste un’infinità di cose che la trascendono. Essa è soltanto debole se non arriva a riconoscerlo». Ridere della filosofia significa allora mantenere alta tale consapevolezza.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 3 gennaio 2022

Homo homini deus

 





Ecco capovolta l’idea di Hobbes: non più «homo homini lupus», ma «homo homini deus». Tale sentenza si trova probabilmente per la prima volta nel commediografo romano Cecilio Stazio del III-II sec a.C. Tra i frammenti delle sue numerose opere troviamo infatti il detto: «homo homini deus est, si suum officium sciat» («l'uomo è un dio per l'uomo, se conosce il proprio dovere»). Vicino alla cultura stoica, egli sa che chi conosce che cosa è importante per se stesso e ha la determinazione per compierlo ha il dominio su di sé: si colloca pertanto ad un livello più alto dell’uomo comune, è come un dio. Compiere il dovere è l’apice della saggezza umana ed è il modo in cui l’uomo può essere felice riuscendo a governare i propri istinti senza esserne subordinato. Il grande umanista rinascimentale Erasmo da Rotterdam negli “Adagi”, una grande raccolta di proverbi e detti del mondo greco e romano, afferma che tale frase si usa in attribuzione «a chi apporta una salvezza improvvisa e insperata o vi contribuisce con un grande beneficio». Chi aiuta il prossimo è per lui come un dio. Chi contribuisce a migliorare la vita dell’uomo, soccorre qualcuno, gli salva la vita, gli fa dei favori, fa le veci di un dio. C’è una bella espressione tra due amici che riassume perfettamente questo concetto: «certo, in tutte le altre circostanze tu mi sei sempre stato molto amico, ma in questa occasione non solo ti sei confermato tale, ma direi quasi che, come recita il proverbio greco, ti sei comportato tu, uomo, da dio con un uomo”». Questa idea viene ribadita con maggior enfasi dal filosofo tedesco dell’Ottocento Ludwig Feuerbach nel libro “L’essenza del Cristianesimo” (1841). Feuerbach è un autore fortemente critico della religione: egli pensa che le caratteristiche di Dio siano quelle dell’uomo. Ritiene pertanto che gli uomini debbano passare dall’amore di Dio a quello interpersonale e considera la forma più alta (divina) di relazione umana il prendersi cura dell’altro. Scrive l’autore: «la suprema e prima legge dev'essere anche praticamente l'amore dell'uomo per l'uomo. Homo homini Deus est – questo è il più alto principio pratico, questo il punto di svolta della storia universale. I rapporti del bambino con i genitori, del coniuge col coniuge, del fratello col fratello, dell'amico con l'amico e, in genere, dell'uomo con l'uomo, in breve, i rapporti morali, sono di per sé, veramente, rapporti religiosi. La vita è in generale, nei suoi rapporti essenziali, sostanziali, di natura assolutamente divina». In ambito cristiano San Paolo nella prima lettera ai Corinzi si focalizza sul tema della carità: la considera una virtù eccellente, «la più grande di tutte», ma a differenza di Feuerbach ritiene che tale qualità sia quella che avvicina maggiormente l’uomo a Dio, e per questo afferma che «la carità non avrà mai fine». Si riferisce a questo concetto anche il maestro di San Girolamo, Gregorio di Nazianzo, nel suo discorso su “L’amore dei poveri”, quando dice: «se imiti la misericordia di Dio, tu stesso sarai un dio per il misero, perché l’uomo non ha nulla di così divino come il fatto di poter fare del bene». Speculari le due interpretazioni: quella atea sottolinea che l’amore è la forma suprema di relazione umana, quella cristiana ritiene che l’amore, nella forma della carità, avvicini a Dio, perché come dice l’evangelista Giovanni «Dio è amore». La locuzione antica assume un significato diverso in Baruch Spinoza. Per Spinoza la mente umana è una parte dell’intelletto infinito di Dio, e Dio è la struttura razionale del cosmo. Quando l’uomo vive secondo la propria natura autentica, ossia la ragione, vive in Dio. Si libera dai tormenti dei desideri e comprende che Dio è l’intelaiatura del mondo. Si dedica a questa comprensione e ha questo principale interesse: sentirsi parte di quell’infinita sostanza. L’uomo depone la veste animale, bruta, e fonda la propria beatitudine sulla comprensione razionale. «Amor dei intellectualis», perché ama Dio non con un amore passionale, ma con un amore intellettuale, come se avesse compreso di essere parte di una grande struttura, come se un numero si rendesse conto di far parte di una grande equazione e gioisse di essere contenuto in essa. Scrive l’autore: «Quanto maggiore è la conoscenza di Dio che è implicata dall’essenza della mente, tanto maggiore sarà anche la cupidità con cui chi segue la virtù desidera per gli altri il bene che appetisce per sé». L’uomo è allora una sorta di dio per l’altro uomo e si sforza affinché anche gli altri amino il bene, perché chi è guidato dalla ragione desidera anche per gli altri il bene che brama per sé. Il bene supremo è la conoscenza di Dio e la mente umana si accorda con natura divina essendo anch’essa razionale. Una nuova connessione tra “homo” e “deus” è stata immaginata dallo storico israeliano Yuval Noah Harari. In “Homo deus. Breve storia del futuro” (2018) egli mostra come l’uomo coltivi l’ambizione di trasformarsi «al rango di divinità», e desideri convertire l’Homo sapiens in Homo Deus. In futuro avverrà probabilmente una grande trasformazione della natura umana – oggi ancora inimmaginabile – con i potenti strumenti tecnologici: dai progressi biologici alle commistioni con i computer. Gli uomini dovranno proteggere il genere umano e il pianeta dai rischi legati al grande potere dell’uomo. Non sappiamo se sarà un bene, perché, dice l’autore, «nessuno ha uno straccio di indizio di dove ci stiamo dirigendo con così tanta fretta».

Un caro saluto,

Alberto