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Cor-rispondenze

lunedì 27 settembre 2010

Tertulliano e la logica


Caro professore,
In questi giorni abbiamo letto in classe alcune riflessioni dei Padri della Chiesa. Mi ha stupito con quanta leggerezza Tertulliano abbia potuto dire: “Credo quia absurdum”, ossia “credo perché assurdo”. Come fa la religione a dire a milioni di persone che devono credere a qualcosa di assurdo, anzi proprio “perché” assurdo. La religione cristiana oggi ha molta influenza; secondo me però la Chiesa non può da una parte dire che è giusto credere in qualcosa di “assurdo” e nello stesso tempo pretendere di essere un punto di riferimento per l’umanità o criticare altre religioni come meno evolute o ispirate.
Simona



Cara Simona,
Certo, fede e ragione sono due ambiti diversi e talvolta sembrano incompatibili. Per dirla con Schopenhauer: “O si pensa o si crede” (vedi il testo di Arthur Schopenhauer, “O si pensa o si crede. Scritti sulla religione, Bur, 2000). D’altra parte la ricerca filosofica, per sua natura aperta e problematica, non garantisce in anticipo i risultati della propria ricerca; mentre la religione, facendo riferimento ad un nucleo di credenze che ruota attorno all’accettazione della rivelazione, può estendere la propria ricerca solo per consentire di comprendere meglio la verità rivelata, ma non può oltrepassarla e pertanto non può, eventualmente, scoprire altre verità. Ma è chiaro che, poiché è con la ragione che l’uomo cerca di comprendere meglio la rivelazione, il rapporto fede-ragione è per sua natura dialettico e dagli esiti incerti.
Vediamo come può essere spiegata la frase attribuita a Tertulliano: in modo letterale (Odifreddi) o seguendo un'interpretazione (Kierkegaard).
Nel Novecento il matematico Piergiorgio Odifreddi, in un libro dal titolo: “Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Longanesi, 2007, sottolinea l’impossibilità di conciliare ragione e fede e interpreta in senso letterale una delle Beatitudini enunciate da Gesù nel Discorso della montagna (Mt 5, 1-12): “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”, intendendo per “poveri di spirito” le persone povere di intelligenza e, giocando sulla traduzione di Cristiano=chrétien=cretino, egli scrive “L'accostamento tra Cristianesimo e cretinismo, apparentemente irriguardoso, è in realtà corroborato dall'interpretazione autentica di Cristo stesso, che nel Discorso della Montagna iniziò l'elenco delle beatitudini con: « Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli », usando una formula che ricorre tipicamente anche in ebraico {anawim mach). In fondo, la critica al Cristianesimo potrebbe dunque ridursi a questo: che essendo una religione per letterali cretini, non si adatta a coloro che, forse per loro sfortuna, sono stati condannati a non esserlo. Tale critica, di passaggio, spiegherebbe anche in parte la fortuna del Cristianesimo: perché, come insegna la statistica, metà della popolazione mondiale ha un'intelligenza inferiore alla media(na), ed è dunque nella disposizione di spirito adatta a questa e altre beatitudini.” Oppure, più avanti: “Naturalmente, i poveri di spirito sono solo le teste calde che credevano allora, e credono oggi, di credere alla Trinità”. Insomma: chi ha un po’ di ragione, un po’ di sale in zucca, non può certo credere a ciò che la religione propone come verità.
Piergiorgio Odifreddi ritiene che, ad esempio con il dogma della Trinità, la teologia abbia irrevocabilmente intrapreso la strada delle proposizioni prive di senso. Così scrive: “Con il dogma trinitario delle tre persone in un'unica sostanza, formulato per la prima volta nel III secolo da Tertulliano (al quale, non a caso, è attribuito il motto credo quia absurdum, « credo perché è assurdo »), la teologia cristiana abbandona così definitivamente il terreno della logica e del buon senso, incamminandosi su un percorso che la porterà nel corso dei secoli a impelagarsi in un crescendo pirotecnico di associazioni libere sempre più surreali e imbarazzanti, per non diventare altro, come dirà Jorge Luis Borges, che « un ramo della letteratura fantastica »”.
Allora prendiamo in considerazione quello che aveva scritto Tertulliano (II sec.): “Il Figlio di Dio è stato crocifisso: non me ne vergogno proprio perché c’è da vergognarsene. Che poi il Figlio di Dio sia morto è del tutto credibile, proprio perché è insensato (credibile, quia ineptum est)”. E che, sepolto, sia risuscitato è certo, perché impossibile (certum quia impossibile est)” (Sulla carne di Cristo, 5,1-4).
É chiaro che si tratta di uno scritto polemico e che non cerca di persuadere attraverso la sua logica: come logica, infatti, è evidentemente delirante e assurdo. Sappiamo che queste frasi sono state poi riassunte in un motto che accompagna Tertulliano, ossia: Credo, quia absurdum, credo, perché assurdo. Ma davvero è sensato credere in qualcosa proprio perché è assurdo, sconclusionato e farneticante? Non daremmo certo segno di salute mentale accettando un invito del genere. Però c’è un senso diverso che deve essere esplorato: l’infinito di Dio si sottrae alla nostra modalità di ragionare e di comprendere: va oltre gli schemi della nostra ragione. La verità di Dio va oltre la possibilità di essere ridotta negli schemi razionali della comprensione umana. Per Tertulliano la Parola di Dio è un criterio di verità più solido della logica stessa. Allora, in qualche modo l’uomo crede non perché la religione gli propone cose assurde, ma perché ritiene che il mistero di Dio e dell’infinito superi ogni forma di rappresentazione e di conoscenza operata con le categorie dell’intelletto. Anche contro lo stesso principio di non-contraddizione con cui gli uomini misurano le loro verità. Credo pertanto che le frasi di Tertulliano debbano essere interpretate come una provocazione: ritieni di poter comprendere il mistero dell’infinito? Allora sbagli. È proprio perché questo mistero è altro dal linguaggio umano che il credente ritiene che sia sensato non fidarsi della riduzione alle proprie categorie di ciò che in tali categorie non può essere contenuto (Kierkegaard).
Un caro saluto,
alberto

lunedì 20 settembre 2010

Incenso e rose rosse


Caro professore,
Ultimamente sopporto sempre meno i funerali. Purtroppo ne ho già avuto una bella dose e più vedo gente intorno a me che cerca di consolarmi ("perché è piccola, sarà devastata..."), più voglio scappare lontano dall'odore nauseante dell'incenso mischiato ai fiori e ai profumi delle vecchie signore. In Messico la festa dei morti è pura allegria. Perché tutti pensano che sono triste se ho sentito dire tante volte che dall'altra parte c'è solo felicità?
Bianca


Cara Bianca,
Cominciamo con una storia buffa. Il grande filosofo Montaigne (1533-1592), nei Saggi, racconta alcuni episodi di uomini e donne che seppero resistere eroicamente al dolore. E cita anche un tale a cui l’incenso dovette procurare ancora più fastidio che a te. A questo signore, infatti, “mentre dava l'incenso in un sacrificio, il carbone era caduto nella manica”. Montaigne narra che “si lasciò bruciare fino all'osso pur di non turbare il rito” (Montaigne, Saggi, Adelphi 1992). La nostra sopportazione, quasi certamente, sarebbe durata molto meno.
Hai ragione, talvolta una esagerata consolazione non è di sostegno né allevia il dolore, ma può essere percepita come tentativo di negare la realtà stessa o l’evidenza dell’irreparabilità del dolore. L’assurdo dell’esistenza ci viene incontro nella tragedia e ci disorienta. La consolazione di solito vuole essere una sottrazione di dolore. Quando è affiancata da commiserazione provoca fastidio e rigetto, ma quando avviene attraverso un percorso razionale può essere di aiuto. Un eccesso di sofferenza, come la vista prolungata del male o una catena ravvicinata di eventi luttuosi può essere difficilmente sopportabile e incrinare la fiducia nella vita. Anche per molto tempo, e a volte in modo permanente. Per questo gli adulti si preoccupano di difendere i ragazzi da ciò che può angustiare eccessivamente e abbattere l’umore. Temono che una persona giovane sia più fragile e vulnerabile, e spesso è così. La sofferenza può certamente abbattere anche chi ha più esperienza, o ha escogitato quelle che Nietzsche chiamava “bugie di sopravvivenza”, ma sicuramente indebolisce e fiacca chi non ha ancora avuto modo di riflettere adeguatamente sul senso della sparizione definitiva di qualcuno o di un proprio caro. L’esposizione alla tragedia è pertanto sempre uno choc. Perché è uno strappo nella linearità della vita. Gli adulti hanno in qualche modo elaborato forme di razionalità (o irrazionalità) e di senso per avvicinarsi alla tragedia. Ma come ben sappiamo anche l’irrazionalità è un tentativo di contenere e diminuire la potenza del tragico attraverso una descrizione che si serve in ogni caso di pensieri o di immagini per arginare l’orrore del nulla. Già, perché è il nulla che disorienta e disarma. L’idea che la vita si dissolva tutta insieme in un momento, senza possibilità di recupero. Senza giustificazione.
In qualche modo la razionalità deve contenere la disperazione, mitigare l’angoscia, attenuare lo sconforto. Deve fare in modo di non far precipitare le persone nell’abisso di senso che si spalanca negli eventi tragici della vita. Deve addomesticare il dolore, renderlo sop-portabile. E poiché la tragedia non si può evitare, perché la vita è tragica, allora la razionalità ha il compito di circoscrivere gli scenari dell’assurdo, del non-senso e non lasciare che potenti emozioni prendano gli uomini di petto senza il filtro calmante del linguaggio che attribuisce senso.
Vorrei dirti però che le “consolazioni” erano tipiche nella letteratura antica. Il fatto che fossero tipiche significa che erano sentite come necessarie. Cicerone (106 a.C – 43 a.C.) colpito, nel 45 a.C., dalla straziante perdita della figlia Tulliola, compose una Consolazione a se stesso. Nelle Tusculane scrive: «Noi non siamo di pietra: nei nostri animi c'è sensibilità e debolezza che il dolore può scuotere come una tempesta» (Tusculane, 3, 12). Il dolore scuote come una tempesta e fa vacillare anche gli uomini più forti. Seneca (4 a.C. – 65) scrisse consolazioni di tipo filosofico a Marcia, a Polibio, alla madre Elvia. Marcia perde la propria famiglia: prima le muore il marito, poi il figlio più grande, poi quello più piccolo si toglie la vita. Marcia crolla psicologicamente, si chiude in casa e nella propria sofferenza ed esce solo più per andare alla tomba del figlio. Polibio perde il fratello. Elvia diventa per tre volte vedova e deve seppellire un nipotino. Seneca, il figlio, che è in esilio le scrive per consolarla, anche per la sua lontananza.
Non dobbiamo confondere la com-passione, la capacità di patire insieme, di sentire insieme, con la commiserazione, un compianto inaccettabile perché rivela la superficialità nell’atteggiamento nei confronti della morte. L’incapacità di guardarla in faccia. Abbiamo tutti bisogno di compassione e non di vuoti discorsi, meno ancora di sentimentalismi.

Il tuo ragionamento conclusivo è profondamente corretto e, nella sua logica, disarmante: “Perché tutti pensano che sono triste se ho sentito dire tante volte che dall'altra parte c'è solo felicità?”. Già, se tutti sono così convinti che dopo la morte vi sia “solo felicità”, allora perché piangere o dolersi? Proviamo a percorrere due strade.
La prima.
La gente non è poi così convinta che vi sia tutta questa felicità e sa bene che quello che dice non è una certezza apodittica, ma una tenue speranza (una speranza che va contro l’evidenza quotidiana). E talvolta non ha neppure la forza per credere in quella eventualità. Cioè, fondamentalmente, non crede nella distinzione aldiqua-aldilà. In fondo in fondo, non è persuasa che vi sia autenticamente un aldilà, un mondo altro, diverso, in cui le persone torneranno ad avere coscienza, memoria e a riconoscere e riunirsi con i famigliari, ma che la vita si esaurisca e cessi in modo irreversibile.
La seconda.
La gente che ti sta intorno ha sì fede nell’aldilà, ma piange e soffre per la perdita di un legame importante. Emozioni e sentimenti sono infatti profondamente modellati dalle relazioni con una certa persona e quando questa viene a mancare la perdita provoca una sofferenza così forte che il dolore per l’assenza sembra emergere con maggiore forza, soprattutto nei primi tempi, rispetto alla fiducia. Anche una persona con fede salda è fortemente turbata dalla perdita di un legame importante.
La tua sensibilità ti farà sentire più vicina la prima o la seconda. Identificandoti con una delle alternative, scoprirai quello che ti persuade maggiormente in questo periodo della tua vita.
Un caro saluto,
alberto