Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 29 marzo 2010

I ricordi: fili invisibili che legano passato e presente


Caro professore,
Alcune volte, quando tutto sembra andar male nella vita, le persone dovrebbero cercare di superare i propri problemi e buttarsi a capofitto in attività che danno risultati positivi, ma non sempre accade...
Tre anni fa ho litigato con un gruppo di amiche che pensavo mi avrebbero accompagnato per tutto il resto della mia vita. Erano come sorelle per me. Ma il tempo passa, le persone crescono, ed io, da parte mia, ho cercato di dimenticare, andando avanti con altre amicizie; ma dimenticare non è per niente facile. Ieri sera ho ritrovato delle vecchie foto di queste amiche, le lacrime sono uscite incondizionatamente e le emozioni hanno preso il sopravvento sulla razionalità che mi diceva che ormai era passato.
Ora... come fare a dominare certe emozioni che sfuggono alla ragione? Come fare a passare oltre a sentimenti così forti anche dopo molti anni di distanza? Perché il dolore del passato ci tormenta anche spesso e ben volentieri nel presente? C'è una soluzione alla paura di dimenticare? al dolore del ricordare?
Diletta


Cara Diletta,
Mi sembra che le espressioni che hai individuato, “paura di dimenticare” e “dolore di ricordare”, esprimano efficacemente il rapporto ambivalente che ogni persona instaura con la propria memoria, con il proprio passato e con i ricordi. Mi vengono in mente due personaggi che incarnano singolarmente questi due elementi. In un bel libro di Elie Wiesel (1928) - lo scrittore rumeno sopravvissuto all’Olocausto -, dal titolo l’Oblio [1989, Garzanti 2007] sono presenti due persone che hanno un diverso rapporto con il passato. Malkiel ha “paura di dimenticare”, mentre la signora Elena Calinescu soffre invece il “dolore del ricordo”. Malkiel la cerca perché ha bisogno di informazioni su suo padre e teme di perdere la memoria del passato; la signora Calinescu - da giovane costretta a sposare un ragazzo che diventerà poi un ufficiale delle SS., spietato con gli ebrei e violento e crudele anche con lei –, cerca invece di dimenticare il marito, proprio per liberarsi dal “dolore del ricordo”.
Quando Malkiel le chiede di ricordare, ad esempio, il giorno della liberazione, la donna risponde: “"Ho dimenticato tante cose, tante cose," dice la vecchia. Tira una sedia verso di sé per accomodarvisi. Da quel momento, Malkiel la vedrà soltanto di profilo. "Tante cose," ripete lei con tono stanco. «Meno male che ho potuto dimenticarle. Dio, nella Sua bontà, mi ha aiutato a cancellarle dalla mia memoria. Lei è ancora giovane, signore. Non può capire le virtù dell'oblio. Come si può resistere se ci si ricorda di tutto?" . Spesso maltrattata, soffre perché accanto al marito sente “la presenza delle sue vittime”, ed è un grado di udire “i loro gemiti." Così questa donna sostiene che, quando i ricordi sono troppo dolorosi, anche l’oblio diventa una virtù. Dimenticare vuol dire liberarsi dall’ossessione e dall’angoscia, allontanare travagli, drammi troppo intensi, che travolgono e schiacciano. Malkiel invece è ossessionato dal passato e sente forte il dovere di ricordare, spinto, come dici tu, dalla “paura di dimenticare”. Scrive l’autore: “Malkiel le trattiene la mano tra le proprie: "Spero che non me ne voglia troppo, signora Calinescu. Grazie a lei, sono venuto a sapere qualcosa di utile e forse di essenziale: anche l'oblio fa parte del mistero. Lei ha bisogno di dimenticare, e la capisco; io, invece, devo combattere l'oblio, cerchi anche lei di capirmi."
Il verbo ricordare deriva dal latino (recordare) e contiene la particella “cor”, ossia cuore. Per gli antichi infatti ricordare significava letteralmente “reimmettere nel cuore”, perché il cuore era considerato la sede della memoria. Ecco allora il “dolore del ricordo”: perché quando si reimmettono nel cuore eventi dolorosi come la perdita di affetti importanti, si diventa consapevoli che persone significative e momenti belli non ci sono più. Reimmettere nel cuore il dolore della lacerazione di una relazione di amicizia o di amore genera dispiacere anche a distanza di tempo; la sventura della perdita di un amico o di un familiare rinnova la sofferenza. “Perché il dolore del passato ci tormenta anche spesso e ben volentieri nel presente?” Credo perché noi siamo costituiti dalle relazioni. Relazioni interpersonali che danno significato alle nostre giornate: occhi, sguardi, parole. Ogni legame è importante perché ci permette di vivere, di conoscere, di esprimere la personalità. Per questo quando viene meno un legame significativo proviamo una sofferenza immensa, perché viene meno una parte di noi. Credo che il passato, fondamentalmente, non sia mai del tutto “passato”. Ognuno di noi è costituito infatti da legami: ci rispecchiamo negli altri, instauriamo relazioni, la nostra interiorità è coinvolta in una dialettica inesauribile con le persone; anzi, possiamo anche dire che la nostra soggettività è possibile grazie all’intersoggettività. Non possiamo eliminare l’intersoggettività perché rappresenta la condizione stessa perché ognuno di noi diventi ciò che è, tra identificazione col prossimo e distanza dal prossimo. Coloro che hanno permesso la costituzione del nostro essere, continuano a vivere dentro di noi, magari in modo impalpabile, inavvertibile. Ma continuano ad essere presenti, parte della nostra vita. A distanza di tempo, come è capitato a te, si prova ancora dolore. Credo almeno per tre motivi: perché il ricordo di eventi positivi scomparsi fa nascere in noi la nostalgia di momenti belli (la nostalgia è infatti il dolore per il ricordo); perché temiamo che la pena che si rinnova possa sovvertire un equilibrio psicologico faticosamente conquistato; infine, perché il fallimento di una relazione fa diminuire la fiducia di essere degni dell’amicizia e dell’affetto degli altri. Immaginando quello che abbiamo perso e fantasticando su come poteva essere la nostra vita, sappiamo che una possibilità (la relazione con le vecchie amiche) percorribile nella tela articolata delle relazioni si è interrotta. L’interruzione segna la fine di uno scenario, di un’apertura verso il futuro. Siamo consapevoli che dobbiamo ricreare relazioni, inventare nuove corrispondenze, perché sappiamo che, nonostante la fragilità dei legami, la bellezza di una vita piena è data dalle relazioni,. Dobbiamo però avere fiducia che nuovi rapporti sono possibili e che siamo in grado di crearli. Inoltre, credo che quello che non si riesce a dimenticare debba essere interpretato. È vero, vorremmo ricordare solo le cose belle per stare bene, ma a tradimento, involontariamente, affiorano in noi anche episodi spiacevoli, dolorosi: frasi sgradevoli, scene amare e penose che fanno affiorare l’angoscia. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo circoscrivere gli effetti dolorosi su di noi, considerando tali eventi sotto una nuova luce. In fondo noi non facciamo altro che descriverci e ridescriverci continuamente. Quando un evento ci turba profondamente, ne parliamo o lo ridescriviamo spesso anche a noi stessi. La scienza ci ricorda che la nostra coscienza si sviluppa nella successione dei momenti storici e che anche le emozioni vanno incontro ad un processo di cambiamento. La ridescrizione di certi momenti implica una nuova comprensione dei fatti, getta una nuova luce sul contesto e ci permette di considerare un evento da prospettive diverse. Descrivere e ridescrivere sono operazioni che ci consentono di guardare alla nostra vita in modo meno negativo, senza essere giudici troppo severi. Poiché i pensieri influenzano le emozioni, una nuova valutazione degli eventi dolorosi riduce lo stordimento delle emozioni negative. Un ottimo antidoto alla sofferenza provocata dalla considerazione del passato consiste nell’attribuire significato al presente. Dare senso al presente e a ciò che si fa procura gioia. Ricordo che uno psichiatra diceva che nella dimensione della gioia si dimentica il futuro ma anche il passato: i fantasmi del passato e le aspettative del futuro, perché l’istante del presente riesce ad occupare ogni dimensione. Nietzsche stesso scriveva: “Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell'attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri”.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 22 marzo 2010

La solitudine



Caro professore,
I primi pensieri che ci vengono in mente associati alla solitudine sono pensieri negativi, di tristezza, di malinconia. Secondo me la solitudine è sempre dentro di noi, noi ci sentiamo sempre soli, a volte di più altre di meno, e non riusciamo mai ed eliminarla del tutto. Perché? Anche quando siamo accerchiati da persone che ci vogliono bene ci sentiamo soli e sentiamo ancora la mancanza di qualcosa. Ci sentiamo soli dopo la perdita di un caro, la rottura di un'amicizia, di un amore, quando non troviamo più vicino a noi l'affetto di una persona che prima ci era vicina e ci donava il suo aiuto quando ne avevamo più bisogno. A volte però siamo proprio noi che cerchiamo la solitudine, lo stare da soli, quando abbiamo il desiderio di riflettere, di pensare a noi stessi, ai nostri comportamenti e ci facciamo delle domande su ciò che ci sta accadendo nella vita; quando siamo soli riusciamo a pensare senza essere condizionati dai pensieri di altri. Perché vediamo la solitudine come cosa negativa ma la cerchiamo? A volte da soli si sta meglio, riusciamo ad essere felici, a trovare ciò di cui abbiamo veramente bisogno. Altre volte però sentiamo il bisogno di avere qualcuno a fianco, qualcuno che sappia ascoltare i nostri pensieri, che ci capisca. Il nostro essere quindi vuole rimanere da solo, ma sente il bisogno degli altri; cerchiamo la solitudine, ma poi non la vogliamo. Perché?
Elena


Cara Elena,
Il filosofo Montaigne nei suoi Saggi racconta di aver conosciuto un decano di Saint-Hilaire di Poitiers ridotto a una grave forma di solitudine causata dai tormenti di una malattia che un tempo veniva chiamata “malinconia” e che oggi sarebbe probabilmente etichettata con il termine “depressione”. Racconta che quando entrò nella sua camera scoprì che: “erano ventidue anni che non aveva fatto un passo fuori”; […] “Appena una volta alla settimana permetteva che qualcuno entrasse a fargli visita; si teneva sempre chiuso in camera sua, solo, a parte un servo che gli portava da mangiare una volta al giorno, e non faceva che entrare e uscire. La sua occupazione era passeggiare e leggere qualche libro (poiché aveva qualche cognizione di lettere), ostinato quanto al resto a morire in tale condizione, come fece poco dopo” (Saggi, vol. I). Una solitudine estrema, probabilmente molto sofferta e che conduce anche alla morte: quella relazionale, prima; e quella fisica, dopo, come conseguenza. Ricordo che qualche tempo fa mi ha colpito un libro di Elie Wiesel dal titolo La danza della memoria [2008], in cui l’autore mette in relazione la solitudine con la follia. Ad un certo punto infatti parla di un uomo di nome Beinish che ha deciso di vivere da solo, forse in completa solitudine. Il protagonista del libro desidera incontrarlo e si interroga su tale opportunità. Si chiede che cosa avrebbe potuto offrirgli in un eventuale incontro quel personaggio così particolare, e pensa anche solo alla possibilità di ottenere la chiave interpretativa per comprendere quella solitudine. Poi riporta questa bella riflessione che mette in relazione solitudine, paura e follia. Scrive Wiesel: “La solitudine è una donna percossa che non ha più né la forza né la voglia di amare. La solitudine è un bambino affamato che sogna un pezzetto di pane ammuffito. La solitudine è il mendicante che non chiude occhio da giorni e notti, forse da quando è stato strappato al ventre di sua madre. Come la follia, la solitudine è la paura. Un uomo solo è un uomo che ha paura. Un uomo che vive nella paura è un uomo solo. Quando la solitudine entra in me, diventa me. La solitudine sorge all'improvviso quando solo il corpo mi appartiene, ma anche quando solo io appartengo al corpo. La solitudine trasforma la coscienza in prigione, una prigione dalla quale ho paura di uscire. Paura di non capire nulla, paura di capire tutto. Paura di amare e di non amare più. Paura di dimenticare tutto e paura di non dimenticare niente: i corpi dilaniati che si trascinano sui campi di battaglia, l'agonia lenta e implacabile dei superstiti. Paura di conoscere la fame, paura di non avere più sete di niente. Paura di morire e di vivere. Paura di avere paura. Paura di essere solo quando non c'è più nessuno. Paura di essere solo con la persona amata. C'è una paura che non è ancora morte, ma che non è più vita”.
Quando penso ad un filosofo che è vissuto solo e che ha fatto della solitudine la propria forza per esplorare l’interiorità dell’uomo, penso a Kierkegaard. Il filosofo danese ha fatto della solitudine un momento fondamentale per la scoperta dell’uomo come “singolo”, perché ha esplorato la persona nella sua unicità e irripetibilità. Kierkegaard racconta che cercava spesso la solitudine dei boschi in una grande foresta a nord-ovest di Copenaghen: “Nel Bosco di Grib c'è un posto che si chiama ‘Angolo degli Otto Sentieri’; lo trova solo chi lo cerca attentamente, poiché nessuna carta lo riporta”. […]“È come se il mondo si fosse estinto e l'unico sopravvissuto si trovasse nell'imbarazzo di non avere nessuno che possa dargli sepoltura; ovvero come se l'umanità intera avesse trasmigrato per quegli otto sentieri dimenticando uno dei suoi membri!”. Dice: “qui il silenzio e la bellezza regnano sempre” (Stadi sul cammino della vita, [1845] 2006). In questo bosco egli riusciva a trovare quel silenzio che sovente gli uomini cercano di notte. Un silenzio possibile dunque anche di giorno, nelle ore di luce e all’aperto. Il nome Otto Sentieri, però, è contraddittorio perché da quei luoghi non passava mai nessuno e dunque quei sentieri non erano altro che una “possibilità per il pensiero”. Scrive Kierkegaard: “Voi, Otto Sentieri, avete allontanato da me tutti gli uomini e non mi avete riportato che i miei pensieri”. Nella solitudine Kierkegaard indagava l’uomo e il suo rapporto con il divino: indagava le possibilità della fede e la relazione autentica con Dio. Kierkegaard dunque sfruttava la solitudine, nonostante la sofferenza che questa procura, per ascoltare la propria voce interiore e ottenere il massimo rendimento nell’elaborazione dei propri pensieri e nella stesura delle proprie opere.
Pascal era convinto che gli uomini avessero timore della solitudine e che cercassero ogni forma di svago per non sentire la condizione della propria esistenza. Scrive Pascal nei Pensieri (1669-1670): “Il re è circondato da persone che non pensano che a divertire il re, e a impedirgli di pensare a se stesso. Infatti diventa infelice, per quanto sia re, se vi pensa”. Gli uomini dunque si gettano nel fracasso, nel trambusto, tanto che, dice il filosofo, per molti uomini il piacere della solitudine è “un piacere incomprensibile”. Gli uomini infatti preferiscono essere occupati e amano meno riflettere sulla propria condizione; infatti cercano qualcosa “che li distragga dal pensare a se stessi”. La solitudine invece non deve essere fuggita, ma deve essere accolta come un momento importante per la maturità dell’individuo, come un’occasione per guardare in faccia la condizione umana. Scrive Pascal: “Noi siamo ridicoli a cercare riposo nella società dei nostri simili: miserabili come noi, impotenti come noi, non ci aiuteranno; si morirà soli”. Si nasce soli e si muore soli, nessuno si può sostituire a noi e per quanto abbiamo riflettuto o per quanti amici e persone care abbiamo attorno a noi ci sono momenti in cui siamo soli a compiere delle scelte.

La solitudine se non è scelta è una pena e procura sofferenze. Anche se l’uomo avesse tutta la natura al proprio comando e fosse in grado di ottenere tutto ciò che desidera nella vita, sarebbe sempre infelice se non potesse condividere con altri le proprie gioie. Il filosofo scozzese David Hume spiega efficacemente questa idea. Scrive Hume: “Una solitudine totale è forse il peggior castigo che ci si possa infliggere. Qualsiasi piacere languisce se non è goduto in compagnia, e qualsiasi dolore diventa più crudele e intollerabile. Qualunque sia la passione che ci muove, orgoglio, ambizione, avarizia, brama di sapere, desiderio di vendetta o concupiscenza, di tutte la simpatia è l'anima o il principio animatore; ed essa non avrebbe alcuna forza se facessimo completamente astrazione dai pensieri e dai sentimenti altrui. Se anche tutte le forze e gli elementi della natura pattuissero di servire un solo uomo e di obbedirgli; se anche il sole sorgesse e tramontasse al suo comando; se anche il mare e i fiumi scorressero a suo piacimento, e la terra producesse spontaneamente tutto quanto gli fosse utile o gradito, egli sarebbe pur sempre un infelice finché non gli si desse almeno un'altra persona con cui poter condividere la propria felicità e di cui godere la stima e l'amicizia” (David Hume, Trattato sulla natura umana, II, Sulle passioni, [1739-1740] Laterza 2008).

La solitudine è però l’occasione, come diceva il filosofo e teologo Martin Buber, affinché l’uomo si ponga “il problema dell’uomo”. L’uomo che si perde nella massa cerca di rimuovere l’angoscia, depotenziare la paura della propria condizione esistenziale; cerca infatti di eliminare l’inquietudine, allontanando l’incontro con se stesso che forse lo spaventa. Ma rimuovere la solitudine non è possibile, perché la solitudine è una condizione importante della vita. Se l’uomo allenta il proprio contatto con il mondo, entra in crisi, si mette in discussione, ascolta la propria fragilità e si sente vulnerabile. La solitudine rappresenta anche il momento che rende possibile l’apertura alla trascendenza e alla relazione con Dio. Scrive Martin Buber (1878-1965) nel Principio dialogico e altri saggi ([1984] 1997): “Ma non è un portale anche la solitudine? Non sorge a tratti, nel più silenzioso isolamento, un vedere inaspettato? La frequentazione del proprio io non può misteriosamente trasformarsi in una frequentazione con il mistero?”
La solitudine questa volta è intesa come momento di ricovero, di rifugio essenziale affinché i legami con l’altro (e con l’Assoluto nella riflessione di Buber) non si cristallizzino. Nella solitudine si recupera un senso più autentico anche nelle relazioni tra gli uomini e, forse, come intendeva Buber, la solitudine è un momento dell’alternarsi del rapporto con la vita: “una sistole e una diastole dell’anima”. Allora la solitudine si attraversa e nella solitudine si ritorna, perché la nostra vita, che si rinnova continuamente, è possibile grazie a un’oscillazione costante tra solitudine e vita attiva.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 15 marzo 2010

Il testamento biologico


Caro professore,
L'umano ridotto a vegetale.
Non conosciamo la nostra sorte. Un incidente può ridurci allo stato vegetale: non possiamo più parlare, muoverci, ma solo soffrire. Quelli che sono in coma vegetativo soffrono ogni secondo, ogni minuto e nessuno può aiutarli. Tutto questo finirà con la morte. Perché qualcun altro deve decidere al posto nostro? Noi siamo padroni della nostra vita! Tutto quindi si può risolvere e finire con l’eutanasia, la morte. Questa non può essere una nostra volontà? Perché siamo costretti a obbedire (anche in quelle condizioni) ad una “legge” della Chiesa che ci impedisce di interrompere la vita e le sofferenze? Dicono che dopo la morte c’è una vita di felicità, allora perché a queste persone non la si può dare subito?
Martina



Cara Martina,
Una serie di eventi drammatici, ad esempio quelli di Luca Coscioni, Piergiorgio Welby e Eluana Englaro (ma Giorgio Cosmacini – importante storico della medicina - ci aiuta a ricordare anche altri casi: Karen Quinlan, Nancy Cruzan, Terri Schiavo, Mirko Drazen Grmek), hanno creato in tutti noi un forte impatto emotivo e hanno richiamato fortemente l’attenzione su una questione estremamente rilevante: in certe situazioni-limite chi ha il diritto di intervenire, di prendere decisioni, di sentenziare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fare della vita di ciascuno? (Il filosofo italiano Paolo Flores D'Arcais, direttore della rivista MicroMega, ha intitolato significativamente un libro su questo argomento: “A chi appartiene la tua vita?”, Ponte alle Grazie, 2009). Per questo negli ultimi anni è emersa la questione del “testamento biologico” anche nella formula di “dichiarazione anticipata di trattamento” (questa, tra l’altro, è la definizione impiegata dal Comitato Nazionale di Bioetica). Conosciamo il significato della parola testamento: indica la disposizione dei propri beni per il futuro, ossia indica il desiderio che qualcosa venga attuato. E se questo bene è la vita stessa in certe condizioni tragiche, sventurate e dolorose, allora la questione acquista un valore ancora maggiore.
Perché la “dichiarazione anticipata di trattamento” è diventata importante?
Perché alcune malattie o condizioni particolari del cervello (il coma, il morbo di Alzheimer, gravi forme di demenza) debilitano talmente una persona che si pensa che sia preferibile lasciare alla persona stessa la possibilità di indicare in forma scritta i propri desideri quando si trova, come dici tu, ad es. per uno stato di coma, in condizione di incoscienza o quando è comunque impossibilitata a comunicare in qualche modo la propria volontà a coloro che si stanno prendendo cura di lei. Nel corso del tempo, nelle riflessioni sui diritti della persona sta aumentando la consapevolezza che sia lecito che un uomo in grado di intendere e volere possa far conoscere i propri desideri e le proprie decisioni sulle terapie e sui trattamenti che desidera gli siano (o meno) praticati nel caso in cui la vita non gli consenta più di esprimere con precisione la propria volontà. D’altra parte questo diritto deriva anche dalla Costituzione italiana, che all’art. 32 dice: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
Lo studioso Giorgio Cosmacini, nel libro “Testamento biologico. Idee ed esperienze per una morte giusta” (Il Mulino, 2010, 123 pp.) racconta un curiosa dichiarazione anticipata di testamento risalente al Rinascimento. Si tratta del “testamento del capitano”. Scrive l’autore: “Il 18 ottobre 1528 il marchese di Saluzzo Michel'Antonio Del Vasto, luogotenente del maresciallo francese visconte di Lautrec all'assedio di Napoli, muore per ferite. Il corpo viene rimpatriato dai suo armigeri, diviso in quattro parti, destinate per volere del defunto rispettivamente: alla madre la testa, alle vallate subalpine il tronco, alla promessa sposa il cuore e il resto al Monferrato natio. Durante il rimpatrio, nei bivacchi militareschi nasce una ballata che, ricuperata da Costantino Nigra all'indomani dell'unità d'Italia, entra a far parte del patrimonio culturale del Corpo degli Alpini e viene modernizzata durante la prima guerra mondiale”. Ora, il testamento biologico a cui si fa riferimento non è certo di questa natura, ma è semplicemente il tentativo di evitare che la vita umana in certe condizioni di non ritorno si perda in una zona particolare in cui però leggi e meandri lasciati dalle leggi rendono difficile trovare soluzioni per il paziente, responsabilità per chi si prende cura del corpo e dignità per il soggetto sofferente. Ti riporto una bella riflessione di uno studioso dell’Università di Torino: "Ogni paziente, qualunque sia la sua condizione clinica, conserva la propria dignità anche nel tempo dell’approssimarsi della morte; egli rimane cioè pienamente persona, meritevole dunque di un rispetto incondizionato", scrive Giannino Piana nel libretto Testamento biologico. Nodi critici e prospettive (Cittadella editrice, 2010, 128 pp.) e più avanti aggiunge che: “Il valore della persona trova anche nella scelta della propria morte e proprio riconoscimento della propria dignità”.
Ora soffermiamoci sulla relazione di cura.
Uno dei problemi da affrontare è quello relativo alla sospensione della nutrizione e dell’idratazione.
Cosmacini presenta una efficace sintesi dell’articolazione di tale problema.
1. la nutrizione-idratazione è un trattamento medico-sanitario oppure un sostentamento vitale ordinario (equivalente ad es. a dare da mangiare e da bere a un individuo affamato e assetato)?
2. si può sospendere di nutrire-idratare in base alla volontà del paziente oppure questo non è possibile in assenza di una diretta ed esplicita testimonianza in proposito da parte del paziente?
3. l'interruzione del sostegno vitale assistito deve essere considerato come cessazione di un accanimento terapeutico oppure come una forma di eutanasia?
Su queste tre questioni diciamo che sostanzialmente vertono le riflessioni sull’opportunità e sulla validità del testamento biologico.
1 A Alcuni ritengono che siano equivalenti le seguenti azioni: dar da mangiare e da bere a chi è affamato e assetato e le odierne trasfusioni e fleboclisi che forniscono nutrimento e idratazione del corpo
1 B Altri ritengono che non possiamo equiparare l’imperativo di dar da mangiare e da bere a chi è affamato e assetato alle odierne trasfusioni e fleboclisi perché queste pratiche rientrano in un preciso contesto di terapie mediche (non sono un’indicazione di principio che si rivolge genericamente a tutti); e che in riferimento alla pietas umana, e proprio per il bene altrui, sia talvolta necessario sospendere trattamenti che, prolungando indefinitamente il bios vitale, ledono la dignità della persona umana che viene ridotta a cosa.
2 A Alcuni ritengono che poiché in base alle tecniche attuali non si è definitivamente sicuri che non vi sia un residuo di attività cerebrale che potrebbe dar origine ad una variazione di una valutazione fatta anticipatamente, non sia lecito interrompere le terapie.
2 B altri ritengono che se, in base anche alle neuroimmagini fornite dalle nuove tecniche di studio del cervello (grazie alla fMRI=risonanza magnetica funzionale) non è possibile dimostrare attività cerebrale, allora è lecito fare riferimento alle indicazioni fornite dal paziente precedentemente.
3 A Alcuni ritengono che rinunciare ad un trattamento artificiale di sostegno alla vita sia un atto di pietas umana che rinuncia all’accanimento terapeutico
3 B Altri ritengono che tale rinuncia sia - dice Cosmacini - un “colposo dare la morte a chi ancora vive”.
Personalmente condivido la riflessione del professore emerito di medicina Claudio Rugarli dell’Ospedale San Raffaele di Milano, riportata nel volume citato. Egli distingue tra vita biologica e vita umana e scrive: “La vita umana è certamente impossibile senza vita biologica, ma implica qualcosa di radicalmente superiore, che consiste in quattro qualità: la capacità di inferire aspetti della realtà che vanno al di là delle esperienze percettive e della loro memoria; il linguaggio; l'immaginazione; la capacità di nutrire sentimenti del tutto peculiari, tipici degli esseri umani”. Inoltre ricorda ancora che nonostante tutta la pietas e l’affetto per la persona in queste condizioni, a volte sia proprio l’amore che invita a sospendere ogni forma di accanimento. Scrive Rugarli: “La vita biologica può confliggere con la vita umana, come in presenza di serie malattie che comportano gravi sofferenze o quello stato di cosificazione che è lo stato vegetativo permanente. In queste circostanze l'amore può esprimersi nel desiderio che la vita biologica si separi dalla vita umana.” Prolungare la vita biologica non è equivalente a prolungare la vita umana. … Spero che i riferimenti citati da Alessandra e in questo articolo ti permettano di riflettere su questo delicato problema per comprendere anche le ragioni di coloro che sostengono tesi differenti e che in questo momento senti lontane dalla tua sensibilità.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 8 marzo 2010

L'aborto


Io ti amo, ma non nascerò mai.
“Tu non mi vedi ancora, non sai della mia esistenza, ma io sono qui: sono nel tuo grembo frutto del tuo amore.
Tu non sai che esisto, eppure io ti amo già. Sono piccolo, debole e indifeso, ma spero che tu mi vorrai proteggere, far nascere e far crescere con il tuo amore.
Dal giorno in cui hai scoperto la mia esistenza piangi ogni sera.
Sono triste di essere la causa della tua tristezza.
Forse è meglio se non mi farai nascere…
Una sera sento qualcosa cambiare in te, hai deciso, non nascerò.
Ti rechi in un laboratorio, non è una cosa complicata, basta poco.
Ma io spero ancora: non lasciarmi andare!”
Che diritto ha una donna di negare la vita a un’altra creatura?
Francesca



Cara Francesca,
hai scritto una lettera intensa su una tematica delicata che suscita forti emozioni. Hai dato voce, pensiero e sentimenti a chi deve venire alla luce, e hai immaginato sia la capacità di un nascituro di sentire empaticamente quello che prova la mamma (la tristezza invece della gioia) sia la speranza salda di nascere fino all’ultimo.
Desidero riportare qui di seguito le posizioni più importanti sull’aborto che sono state efficacemente riassunte da Maurizio Mori nel libro “Aborto e morale. Capire un nuovo diritto” (Einaudi 2008).
“Fino a pochi anni fa, i dibattiti circa l'eventuale liceità dell'aborto riguardavano soprattutto le fasi avanzate o finali della gravidanza. Oggi invece la controversia investe soprattutto il primo trimestre, periodo in cui avviene la stragrande maggioranza degli aborti, circa il 90 per cento dei casi. D'ora in avanti, quando parlerò di aborto presupporrò sempre questo primo periodo.
Le principali posizioni in campo sono le seguenti:
La posizione cattolica: Afferma con vigore la «condanna morale di qualsiasi aborto procurato» (Donum Vitae 1987, I, 1), atto che non è mai ammesso: né quando necessario per salvare la vita della donna, né quando la gravidanza è conseguente a violenza carnale, né quando il feto ha gravi malformazioni. Anche se molti teologi cattolici sostengono che l'embrione è persona dal concepimento (tanto da far credere che questa sia la posizione ufficiale), il magistero ecclesiastico non afferma affatto che il feto è persona. Anzi, esplicitamente dichiara di astenersi dal prendere posizione in materia, sostenendo solamente che l'embrione va comunque trattato come una persona. Inoltre, questa posizione
(A questo riguardo, ad esempio, il Catechismo della Chiesa Cattolica (1997) afferma che l'embrione «deve essere trattato come una persona» (n. 2274, il corsivo è mio) oppure che «dal primo istante della sua esistenza l'essere umano deve vedersi riconosciuti i diritti della persona» (n. 2270, il corsivo è mio), ma mai che l'embrione è persona).
La posizione del Movimento perla Vita: Come quella cattolica si oppone all'aborto, da cui si distingue per i seguenti aspetti: 1) afferma esplicitamente che l'embrione è persona dal concepimento e che l'aborto è un vero e proprio omicidio; 2) lascia libertà di opinione circa la liceità morale della contraccezione, perché altro è «prevenire la formazione di una vita» e altro è «distruggere una vita già esistente»; 3) è propensa ad ammettere qualche eccezione al divieto generale di aborto, per esempio ove fosse necessario per salvare la vita della donna (pur sottolineando che il problema delle eccezioni è oggi poco rilevante, perché limitato a pochissime situazioni da vagliare caso per caso).

La posizione per la legalizzazione dell'aborto: Ammette l'aborto, osservando che esso già di per sé costituisce una scelta tragica per la donna, e che la società non deve infierire ulteriormente con divieti giuridici che rendono la situazione ancora piú difficile spingendo la donna all'aborto clandestino. L'aborto deve essere regolato socialmente perché non è un mero «problema privato» che può essere lasciato alla discrezionalità della donna, ma va consentito entro le forme istituzionali di controllo. Queste, tuttavia, di solito, oggi ammettono l'aborto anche per motivi psicologici ed economici, per cui - pur restando il principio del «controllo sociale» in materia - in pratica l'aborto è (quasi) sempre consentito a discrezione della donna.
La posizione per la liberalizzazione dell'aborto: Afferma che l'aborto è un mero «problema privato» della donna, e come tale deve essere risolto nella riservatezza del rapporto medico-paziente: la legge deve limitarsi a garantire solo la correttezza dell'intervento medico, e la donna può pretendere l'aborto a semplice richiesta. La donna ha il controllo della propria fertilità e diventa sovrana di quanto accade nel proprio corpo anche circa la generazione. In questo senso la posizione è specularmente opposta a quella cattolica.
Tra, queste posizioni ci sono significative differenze, ma lo spartiacque in materia è tra chi consente in qualche modo l'aborto e chi lo vieta con decisione. Poiché per appoggiare il divieto sembra che oggi si debba sostenere che l'aborto è un vero e proprio omicidio, la posizione del Movimento per la Vita ha un ruolo decisamente dominante nel dibattito contemporaneo, tanto che le differenze con la posizione cattolica sembrano essere di poco conto e passano in secondo piano. Infatti, l'intera controversia sembra dipendere dalla questione se l'embrione sia o no persona. L'antiabortista è cosí sicuro della risposta affermativa da proporre l'argomento dell'omicidio che porta a impostare il problema nel modo seguente: se l'embrione è persona, allora l'aborto è sempre (moralmente) illecito in quanto omicidio, e se invece non è persona, allora è sempre lecito. Specularmente opposto a quest'argomento è l'appello al diritto alla vita dell'embrione, da cui deriva il correlativo divieto di uccidere l'embrione stesso. Questa tesi è a volte formulata in modo conciso nella domanda: «l'embrione è cosa o persona?», dove è sottinteso che la risposta corretta è la seconda. (Poiché in questo libro considero il problema della moralità dell'aborto solo nei primi tre mesi di gravidanza, uso i termini « embrione» e «feto» come sinonimi, anche se dal punto di vista tecnico si chiama «embrione» il prodotto del concepimento fino all'ottava settimana - due mesi -, dopo di che diventa «feto».)
Di fronte a un'accusa cosí forte come quella dell'antiabortista, alcuni sono disposti ad ammettere che l'aborto sia davvero un omicidio, atto che riconoscono essere moralmente riprovevole, ma - osservano - che può essere giuridicamente permesso ove attuato entro i limiti di legge. Infatti, secondo la dottrina giuspositivista, il diritto può ammettere qualunque contenuto morale e quindi, almeno dal punto di vista tecnico-giuridico, non ci sono ostacoli a tale soluzione. L'antiabortista critica subito questa posizione sottolineando come essa violi il principio di eguaglianza tra le persone e apra la strada a ingiuste discriminazioni. Se si ammette che l'aborto è davvero un omicidio, allora questa critica sembra essere sostanzialmente valida.
Di solito, tuttavia, chi è favorevole a una legislazione permissiva semplicemente evita di considerare la questione della natura del feto, spesso osservando che l'etica è un lusso eccessivo in questo campo. Sottolinea invece che: 1) la donna è già in grave difficoltà e la sua situazione non deve essere ulteriormente aggravata da ostacoli giuridici; 2) la legislazione permissiva non intende avallare la moralità dell'aborto, ma semplicemente evitare l'aborto clandestino che alimenta l'illegalità e spesso mette in pericolo la vita delle donne; 3) il divieto obbliga tutti ad astenersi dal comportamento indicato, mentre il permesso non impone l'azione, ma semplicemente la consente a chi vuole compierla, e questa asimmetria è garanzia di libertà per tutti”.

Un caro saluto,
Alberto

lunedì 1 marzo 2010

Eventi positivi e negativi


Caro professore,
Perché proprio a me? Nella vita accadono alcuni eventi positivi e altri negativi. Spesso pensiamo che le cose belle accadano agli altri e quelle brutte a noi. Come avviene questa scelta?
Margherita



Cara Margherita,
In psicologia quando i nostri pensieri sono disturbati da valutazioni sbagliate si parla di “distorsioni cognitive”. Che cosa sono le distorsioni cognitive? Sono una serie di pensieri che noi mettiamo in atto quando valutiamo qualche cosa o quando ci valutiamo. Purtroppo se tali pensieri svalutativi sono ricorrenti provocano un abbassamento dell’autostima. È importante allora prestare attenzione agli eventi, ai comportamenti, e anche alle valutazioni che facciamo di ciò che accade a noi e agli altri. Bisogna imparare a riconoscere i pensieri ripetuti con regolarità in certe occasioni per impedire che le valutazioni negative si trasformino in pensieri dannosi per il nostro umore e per le azioni che dobbiamo intraprendere. Credere che le cose positive accadano solo agli altri e quelle negative con maggiore frequenza a noi sottintende una valutazione sbagliata degli eventi che può ridurre anche il nostro senso di autoefficacia, ossia la consapevolezza che siamo in grado di portare a compimento quello che abbiamo intrapreso. Tali pensieri devono dunque essere riconosciuti e poi modificati. Ti elenco qualche distorsione cognitiva, così quando penserai a qualche situazione specifica potrai verificare se affiorano alla tua mente alcuni di questi modi di valutare: 1. INFERENZA ARBITRARIA: talvolta traiamo conclusioni frettolose sia su noi stessi (magari negative) sia sugli altri (magari positive), spesso in assenza di dati oppure disponendo persino di dati contrari. Prova a pensare in quale occasione ti è capitato di essere stata precipitosa e superficiale nella valutazione di un evento della tua vita, forse per stanchezza o per abitudine. Talvolta quindi attribuiamo agli altri più felicità di quanta realmente loro ne percepiscano; 2. ASTRAZIONE SELETTIVA: di tanto in tanto siamo portati a focalizzarci su un dettaglio negativo e non riusciamo a vedere altro. Se in un contesto astraiamo solo un episodio positivo e lo attribuiamo agli altri, non abbiamo una percezione corretta di ciò che accade. Viceversa se in una conversazione che ci riguarda mettiamo in luce solo un aspetto poco piacevole, siamo poi portati a dare una valutazione negativa di noi stessi e della conversazione; 3. SOVRAGENERALIZZAZIONE: sulla base di un caso singolo traiamo conclusioni generali (ieri hai preso un voto basso di matematica e pensi: “in matematica non riesco mai”; “sbaglio sempre”); 4. MAGNIFICAZIONE: sovrastimiamo gli eventi negativi; 5. MINIMIZZAZIONE: sottostimiamo gli eventi positivi (facciamo però il contrario quando eventi positivi e negativi accadono agli altri); 6. PERSONALIZZAZIONE: se una cosa va male attribuiamo la colpa sempre a noi stessi, e ci assumiamo la responsabilità solo per gli eventi negativi. Infatti se qualcosa va bene diciamo che siamo stati fortunati o che il compito era facile. 7. PENSIERO DICOTOMICO: ragioniamo in termini di " tutto o niente”, senza vedere le sfumature.
Nella vita accadono continuamente degli eventi: casi più o meno fortuiti. Quello che proviamo però dipende dalla nostra valutazione. Ci sono persone che in ogni contesto vedono costantemente aspetti negativi e altre che sanno concentrarsi maggiormente su quelli positivi.
Dopo aver prestato attenzioni alle considerazioni che facciamo delle circostanze in un cui agiamo, pensa anche che si possono migliorare le proprie abilità. L’affinamento delle capacità richiede tempo e lavoro. Ma il perfezionamento di qualche capacità ti farà sentire più adeguata e ti aiuterà ad avere una valutazione migliore di te. Senti cosa scriveva l’imperatore Marc’Aurelio (121-180 d.C.) nei Ricordi (Einaudi 2006): “Gli uomini non ammireranno l'acutezza del tuo ingegno? E sia pure! Ma esistono molte altre cose delle quali non puoi dire: — Non sono tagliato per questo —. Sforzati quindi d'esercitare quelle che dipendono completamente da te: la sincerità, la dignità, la resistenza alle fatiche, la rinuncia ai piaceri, l'esser pago della propria sorte, la sobrietà, la dolcezza, la libertà, la semplicità, il disdegno del lusso, la grandezza d'animo. Non conosci quante cose esistono che puoi fare senza addurre alcun motivo di non esserne idoneo per natura”.
Un caro saluto,
Alberto