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Cor-rispondenze

lunedì 25 novembre 2013

Idiocracy

File:Idiocracy.jpg


Caro professore,
Una volta ho visto il film “Idiocracy” che parlava di come potrebbe essere la Terra nel futuro se popolata soltanto da idioti. Era una commedia, certo, ma mi ha fatto ragionare. Nella premessa del film c’erano due famiglie: una con un Q.I. sopra la media e l’altra con un Q.I. sotto la media. Tutte e due le famiglie dovevano decidere se fare figli. La prima ci pensava coscienziosamente, valutando l’ambiente, l’economia..., la seconda non ci rifletteva su e procreava. Il film spiegava che attraverso queste scelte si sarebbe deciso il futuro. In un futuro del genere non sarebbero i meritevoli a guidare, ma gli ignoranti; ma così ci allontaneremmo ancor di più dal governo ideale di Platone. Mi chiedevo se sarebbe egoistico e sciocco da parte nostra procreare pur conoscendo le circostanze. E se fosse sbagliato, si potrebbe porre rimedio? Potremmo evitare un futuro fatto di idiocrazia?
Noemi, 4D

Cara Noemi,
A leggere la cronaca politica, temo che lo spazio di quel futuro sia già (parzialmente) popolato, perché non sempre persone “meritevoli” occupano ruoli ove occorrono responsabilità, competenze e onestà. Non ho visto il film, tuttavia la cultura non si trasmette per via genetica, e non necessariamente i figli di due persone con un Q.I. alto confermano lo stesso quoziente dei genitori, né segue ineluttabilmente che da persone con minori capacità nascano figli che non sono in grado di occuparsi dignitosamente di sé, degli altri o della salute del pianeta. In ognuno di noi c’è qualcosa di ereditario, ma siamo consapevoli che i fattori ambientali, l’interazione sociale e il contesto familiare hanno un ruolo considerevole nella formazione delle scelte e dell’identità di ciascuno. Non solo, ma oggi sappiamo che il Q.I. non è più in grado di misurare tutta l’intelligenza, perché questa è proteiforme e non certo univoca. Howard Gardner negli anni ’80 del Novecento parlava già di “intelligenze multiple”, e grazie agli studi neuroscientifici evidenziava che nel cervello si attivano aree diverse a seconda delle attività. Robert Sternberg ha considerato invece tre tipi di intelligenza (analitica, creativa e pratica), mentre lo psicologo americano Daniel Goleman ha scritto libri sull’intelligenza emotiva, sull’intelligenza sociale e ultimamente persino sull’intelligenza ecologica. La competenza emotiva personale (come la sensibilità introspettiva di Freud) e le abilità sociali (come l’inclinazione relazionale di Gandhi) sono forme di intelligenza fondamentali nella vita di ciascuno. Quindi, non sarà solo una questione di Q.I. se il nostro pianeta avrà un futuro, ma dipenderà anche un’altra capacità, il Q.E., ossia il quoziente emotivo, che tenta di rilevare se una persona è in grado di rendersi conto dei bisogni e delle condizioni dei propri simili. Purtroppo vale la pena ricordare che molti dirigenti del Terzo Reich avevano Q.I. superiori alla media e che molte persone che compiono efferatezze sono perfettamente capaci di «intendere e di volere», ma, come afferma il filosofo Umberto Galimberti, sono invece incapaci di «sentire», ossia di immedesimarsi nell’altro e di provare empatia. Per mettere al mondo dei figli in modo consapevole credo che non sia necessaria una valutazione esaustiva «dell’ambiente e dell’economia...». Chi ritiene di avere tutto sotto controllo e che le previsioni fatte a lunga distanza siano indubitabili, rivela ahimè scarsa intelligenza, perché nessuno è in grado di considerare tutte le variabili presenti e future. Si mettono al mondo dei figli perché si crede che ci saranno nuove possibilità. Se avessero ragionato diversamente in tempi di guerra, non avremmo avuto le generazioni successive. Dare la vita è un gesto di gratuità e di fiducia – certamente anche di bisogno – più che di calcolo delle variabili ambientali e sociali. Sulla stupidità umana – sciaguratamente assai diffusa – gli antichi raccontavano la storia di Titone (l’ho riletta in James Hilmann, La forza del carattere, 2001) che aveva chiesto agli dei l’immortalità, ma essendosi dimenticato di chiedere l’eterna giovinezza, fu esaudito e dovette invecchiare per l’eternità. Purtroppo, gli uomini chiedono spesso cose sbagliate. Platone lo sapeva bene, per questo era ossessionato dalla politica, dall’idea di costruire una società giusta in cui quelli che tu chiami «idioti» non dovevano essere messi in condizione di danneggiare se stessi e gli altri.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 18 novembre 2013

Realizzazione





Caro professore,
le persone tendono sempre a pensare molto al futuro, vedono i propri sogni realizzati e si programmano la vita. Forse però è un po’ illudersi, e una volta che le cose andranno diversamente da come le avevamo pensate, rimaniamo delusi; non è forse meglio quindi vivere il presente senza pensare a cosa accadrà dopo?
Giulia, 4D

Cara Giulia,
Quanto ascolto l’esortazione a «vivere il presente», penso sia agli aspetti fruttuosi di questo nobile obiettivo, ma nello stesso tempo avverto come rischiosa la riduzione della vita alla sola dimensione dell’attimo fuggente. Per evitare cocenti delusioni e per non subire gli esiti sfavorevoli degli eventi, gli antichi stoici ricordavano che occorre fortificare l’animo e maturare la capacità di regolare se stessi. Suggerivano pertanto misura nei progetti, accortezza nelle intenzioni e competenza sulle questioni della vita per allontanare i pericoli che derivano da mancati traguardi; perché, in fondo, sappiamo che le aspettative deluse – modeste o eccessive – generano sempre sofferenza. Se l’invito a vivere il presente implica maggiore concentrazione su ciò che accade, capacità condividere le situazioni, consapevolezza delle dinamiche interiori, recettività nelle relazioni quotidiane, sensibilità all’ambito locale e attenzione ai processi globali, allora abbiamo tutti bisogno recepire questo stimolo: sostare maggiormente nell’attimo, dilatarlo, apprezzare le esperienze e dare vigore al nostro modo di stare al mondo. In questo senso l’ancoraggio al presente consente di vivere in modo autentico. Attenzione, in fondo, deriva da “ad-tendere”, “tendere verso”. Abbiamo una doppia possibilità: tendere verso il futuro (perché è il futuro che motiva l’azione) e tendere verso il presente, la contemporaneità. Se c’è questa tensione e non siamo ripiegati su noi stessi, abbiamo una disposizione attiva nei confronti dell’esistenza. Diverso è il caso della dispersione nell’attimo, tema su cui il sociologo polacco Zygmunt Bauman (1925) ha scritto pagine estremamente efficaci. In “Vite di corsa” (Il Mulino, 2009), ad esempio, egli spiega che il tempo presente è diventato «puntillistico, ossia frammentato in una moltitudine di particelle separate». Per questo – ricordando un libro di Thomas Hylland Eriksen – egli insegna che occorre non cadere nella «tirannia del momento». Egli cita inoltre le riflessioni di due sociologi contemporanei, Stephen Bertman ed Elżbieta Tarkowska, che hanno sviluppato il concetto di «umani sincronici», che «vivono unicamente nel presente» e che «non prestano attenzione all'esperienza passata o alle conseguenze future delle loro azioni». Sì, perché se l’attenzione si concentra unicamente sul presente, e questo tempo è “puntillistico” – un aggregato di punti senza continuità –, la vita scorre da un punto all’altro senza stabilità, perché ogni punto, per definizione, è scollegato: ogni novità è pertanto attraente, ma subito superata; si vive agiti da sollecitazioni continue, pulsioni immediate, dipendenze indotte, reazioni emotive che rapidamente si dimenticano. Gli uomini si credono dunque liberi, ma vivono alienati e, scrive Bauman: «per questa ragione la vita “dell'adesso” tende a essere una vita “di corsa”». In questo caso, però, c’è dispersione e non costruzione attiva di sé, mentre l’identità di una persona richiede impegno nel tempo. E poiché per vivere bene occorre determinare se stessi, per raggiungere questo obiettivo sono necessari capacità di progetto, continuità, direzione, che richiedono l’abilità di imporsi sul tempo e non di subirne le sollecitazioni continue. Parafrasando Seneca potremmo dire: «Non fidarti della bonaccia: in un attimo il mare si agita; nello stesso giorno le navi vengono inghiottite proprio là dove navigavano tranquille». L’eccessiva concentrazione sull’attimo, che apparentemente sembra dare felicità in quanto ci fa sentire in sintonia con il mondo, può far naufragare la vita, perché una vita senza direzione è una vita di cui non possediamo il timone. La delusione, allora, non deriva dal fatto che non si avverano alcuni obiettivi – perché ogni rotta si assesta nell’itinerario – ma dalla tragica consapevolezza di aver rinunciato ad intraprendere il proprio percorso.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 11 novembre 2013

Una profonda amicizia


 
Caro professore,
aveva chiesto a me (Stefania) e ad Alessia una riflessione fatta insieme sui nostri fogli scritti, su cosa significava la nostra amicizia. Eccola. “È come un grande amore, solo mascherato un po’”. Questa è la frase con cui Alessia ha postato la nostra foto insieme su un social network. Poche parole, sufficienti per descrivere ore e ore di momenti trascorsi insieme. La nostra vita la immaginiamo su quattro pali, a due a due paralleli. Ogni coppia è collegata tramite una fune. Su una fune ci sta Frubi (Alessia), sull’altra ci sta Picci (Stefania). Siamo sospese, vediamo il cielo a pochi passi da noi. Ci teniamo per mano, il nostro viaggio si fa in due. La consapevolezza di poter scivolare da un momento all’altro, la voglia di raggiungere una meta, qualunque essa sia, INSIEME. È tutta una questione di fiducia: riponi i tuoi pensieri, i tuoi dubbi, le tue paure, i tuoi sogni, le tue gioie all’interno della medesima persona. Se questa persona ti abbandona cadi, un volo da un’alta quota. Il male è inevitabile, il male lo si sente già durante le piccole discussioni che portano in bilico il “viaggio”, in cui la stretta di mano non è più salda. E allora basta uno sguardo, basta ritrovare l’intesa, e si continua. Si continua a camminare, ad affrontare giorno per giorno i nostri piccoli grandi problemi. Un’altra frase descrive quella che è la nostra amicizia: “In qualunque posto sarò, in qualunque posto sarai, tra le cose che vivi io per sempre vivrò”. È un pezzo del ritornello di una canzone della Pausini. Ore e ore al telefono insieme, discoteca insieme, cinema insieme, gite insieme, pizza feste insieme, da “Grom” insieme, a scuola insieme, compleanni insieme, compiti delle vacanze insieme. Un esempio? Stefania ad un compleanno e Alessia ad un’altra festa. Uno dei pochi sabati sera non insieme e… 45 minuti al telefono a raccontare l’una all’altra che sta succedendo! Questa è amicizia, sì! E ne siamo convinte, indipendentemente da giudizi altrui. I fogli che scriviamo sono una delle tante prove.
Alessia e Stefania, IVB

Care Alessia e Stefania,
L’idea di tenere un diario è già di per sé un’idea bellissima. Ma oggi, nell’epoca di Twitter, dove talvolta i messaggi durano “un cinguettìo” e non si ha tempo di meditare su ciò che accade, perché tutto si disperde rapidamente nel chiacchiericcio, è bello apprendere che qualcuno trova il tempo per concedersi alla scrittura, per recuperare magari tra qualche anno, riflessioni, memorie e indizi della propria vita adolescenziale. Nel vostro caso si tratta di un meraviglioso diario parallelo a quattro mani che si arricchisce giorno dopo giorno di pagine lunghissime scritte in modo molto fitto. Non avevo mai considerato un diario-tandem, ma a scuola mi avete mostrato un’enciclopedia-papiro che vi tiene incollate in una riflessione congiunta su ciò che accade. Nel linguaggio comune si dice: «chi confida un segreto “si confida”». Significa che non solo trasmette un’informazione riservata, ma “confida se stesso”, ossia consegna la propria intimità all’altro e nell’intimità la propria identità. La vostra confidenza è come il movimento dell’onda: il dialogo ininterrotto consente una doppia valutazione degli eventi e una condivisione razionale ed emotiva dei vissuti. Grazie all’amicizia vi siete avvicinate e in questo palpito parallelo avete creato un’interdipendenza costituiva che attraverso il filo sottile, ma profondo, della scrittura oggi vi lega ancora di più. L’estrema vicinanza della voce dell’amica (l’alterità) è stata metabolizzata nel “dialogo interno”, quello che ogni persona intrattiene con se stessa. La vostra identità è dunque strutturalmente e non solo occasionalmente dialogica. Accogliete la vita insieme, come due parti di un unico respiro e attraverso la comunicazione assidua costruite il vostro sguardo sul mondo. A volte chi scrive un diario lo fa per lamentarsi o per sfogarsi. Voi lo fate per partecipare della vita emotiva e per capire. E mi insegnate allora che comprendere (cum-prendere) non vuol dire solo “tenere insieme”, ma anche “afferrare insieme”. Credo che sia bellissimo sostare là dove nascono le idee, si avvertono i sentimenti, si assapora un’interpretazione nel suo originarsi. Perché il pensiero è sempre dialogico. È dal due che si costruisce l’uno: dal dialogo si generano pensieri, si compone l’identità, si accoglie la differenza come parte di sé. Siete fortunate di poter partecipare di questo «amore un po’ mascherato».
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 4 novembre 2013

Invidia



Caro professore,
Alcuni giorni fa parlando con un mio conoscente ho capito di essere invidioso di lui, perché la maggior parte delle volte lui è più fortunato di me e riesce ad ottenere quasi sempre ciò che vuole. Questo mi ha fatto pensare che tutti almeno una volta nella vita sono stati invidiosi di qualcun altro. Alcune volte l'invidia può anche farci sentire male con noi stessi. La mia domanda è: perché la maggior parte delle persone è invidiosa degli altri invece di cercare di imparare qualcosa da essi?
Alessandro IV E

Caro Alessandro,
Seneca, nelle “Lettere a Lucilio”, scriveva che «secondo un antico precetto, inoltre, bisogna adoperarsi per evitare tre pericoli: l'odio, l'invidia, il disprezzo». Si tratta, infatti, di tre sentimenti che procurano grande danno a chi li prova o da essi si lascia vincere. Il filosofo racconta poi che anche un re può provare invidia per un condannato a morte. Scrive l’autore: «Dovrei esitare a lodare quel moncherino bruciato di Muzio [Scevola] più della mano intatta di qualsiasi uomo valorosissimo? Rimase fermo, disprezzando i nemici e le fiamme e guardò la propria mano consumarsi sul braciere del nemico, finché Porsenna provò invidia per la gloria di colui che voleva punire e ordinò di portar via il braciere contro la sua volontà». Come può un re avvertire grande assillo per un uomo privato della libertà e in procinto di essere giustiziato? Ma se un gesto valoroso offusca il prestigio del sovrano, allora ecco che scatta l’invidia. Già, perché come ricorda la filosofa Elena Pulcini in un libro interamente dedicato a questo tema (Il Mulino 2011), «l’invidia nasce dal confronto». “In-videre”, infatti, significa non riuscire a guardare l’altro in modo corretto, e dunque l’invidia è un guardar male. Baruch Spinoza nell’“Etica” (1677) scrive che «L'invidia è odio, in quanto modifica l'uomo in maniera tale che egli si rattristi della felicità di un altro, e goda invece dell'altrui male». (È pertanto un sentimento opposto alla misericordia – che è invece una forma di amore – in quanto l’uomo misericordioso gode del bene altrui e si rattrista invece dell’altrui male). Il filosofo contemporaneo Salvatore Natoli, nel “Dizionario dei vizi e delle virtù” (Feltrinelli 1996, 2006) afferma che «uno dei fattori per lo scatenarsi dell'invidia è l'impotenza, sia come impotenza di fatto che come sentimento d'impotenza». Questo emerge anche dalla tua riflessione. L’invidia di cui parli nasce infatti sia da «un’impotenza di fatto» («[lui] riesce ad ottenere quasi sempre ciò che vuole») sia da un «sentimento di impotenza» («è più fortunato di me»). Natoli – sulla strada inaugurata da Spinoza – ritiene che ogni esistenza sia una «puntuazione di forza», ossia una potenza finita e limitata che vive in un delicato rapporto tra «bisogno d'espansione» e «insofferenza del limite». L’impotenza è l’incapacità o l’impossibilità di raggiungere la meta dei propri desideri. Poiché spesso non siamo in grado di valutare la nostra forza in riferimento all’obiettivo che ci proponiamo, non sappiamo se ci siamo posti una meta troppo alta e inadeguata alle nostre capacità. Così, invece di fare riferimento alle forze (da considerare) e agli obiettivi (da modificare) in relazione alle caratteristiche individuali, ci confrontiamo con gli altri. Poiché alcune persone raggiungono le mete da noi desiderate, l’impotenza di fatto si trasforma in sentimento di impotenza e da qui nasce l’invidia (l’unico vizio che purtroppo non procura alcun piacere). Natoli ritiene che fatichiamo a sopportare i nostri limiti naturali in quanto la società stabilisce il valore delle persone in base agli obiettivi che esse conseguono. Se veniamo riconosciuti solo per i traguardi raggiunti, allora è inevitabile che la vittoria di un’altra persona diventi il metro con il quale misuriamo noi stessi. Per questo l’impotenza genera il «tormento dell’impotenza». Tuttavia, l’invidia diminuisce se impariamo a perfezionare le nostre abilità e a non assumere i successi altrui come parametri per giudicare la realizzazione individuale. Fatto questo, di solito, passiamo facilmente all’ammirazione. Goethe, nel romanzo “Le affinità elettive”, scrive infatti: «Contro la grande superiorità di un altro non c'è mezzo di salvezza all'infuori dell'amore».
Un caro saluto,
Alberto