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Cor-rispondenze

lunedì 11 aprile 2016

Colmare l'abisso tra "me" e "lui"



Caro professore,
Stamattina, come ogni mattina d’altronde, lavandomi i denti mi guardavo allo specchio, ma quello che ho visto è stato come se non fosse il solito riflesso. Sono uscito dal bagno quasi turbato, o addirittura terrorizzato dalle domande a cui non sono in grado di rispondere e che le pongo in questa lettera. Mentre, appunto, mi fissavo, mi sono chiesto: «È quindi così che mi vede il mondo?». La risposta epifanica che mi sono dato è stata: «No, è così che il mondo vede lui», riferendomi al riflesso. Il mondo non ha mai visto me, anzi non ha mai visto nessuno, ma guarda meramente a noi come noi guardiamo il nostro riflesso. Ma allora, alla fine, la domanda che le pongo è: «Da che parte dello specchio ci troviamo? Come facciamo a capirlo?». Queste idee sono state indotte, credo, dalla lettura di “Uno, nessuno e centomila” che ho iniziato da poco a leggere e che, forse alla fine, risponderà a queste domande. Nell’attesa della fine del libro pongo a lei queste domande, e ne aggiungo delle altre. Siamo più di ciò che appariamo? La distanza tra noi e lo specchio può essere la deriva dell’uomo? È possibile colmare questo abisso tra me e lui?
Niccolò, IVB

Caro Niccolò,
Come vedi, la letteratura è benefica: aguzza l’ingegno e permette di sondare dimensioni inesplorate della vita. Pirandello ha questa grande capacità: attraverso le sue opere solleva dubbi che ci impongono di indagare a fondo il nostro rapporto con noi stessi e con gli altri. Allo specchio ti senti un estraneo. Parli di un “me” e di un “lui” riflesso, ma appena procederai nella lettura le tue considerazioni, liberate dall’abitudine, si perderanno in altri sentieri intricati, proprio come è avvenuto a Vitangelo Moscarda, il protagonista dell’opera che stai leggendo. Scrive infatti Pirandello: «Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà». L’idea che il mondo veda solo quello che appare e non la tua vera natura suscita nel tuo animo «turbamento e terrore», sentimenti analoghi al «tormento» del Moscarda. Tuttavia, non dobbiamo considerare noi stessi come un oggetto che mostra agli altri solo la superficie e non l’essenza intima. Semplicemente perché non siamo oggetti e la nostra essenza (o interiorità) non è nascosta come la polpa sotto la buccia dell’arancia, né è definita una volta per tutte, ma si forma nel tempo e nell’esperienza. Sei sicuro di conoscerti “veramente”? La comprensione che ognuno ha di sé muta con l’età, la cultura, le letture, gli stati d’animo, le parole a disposizione, gli aspetti che si vogliono mettere in luce. «Caro mio, la verità è questa: che sono tutte fissazioni. Oggi vi fissate in un modo e domani in un altro», direbbe Pirandello. Se ci ancoriamo su alcuni particolari e poi mutiamo prospettiva, come possiamo pretendere che gli altri conoscano un presunto “vero me”? Non esistono lettori neutrali: ogni persona porta dentro di sé la propria personalità e la propria storia e pertanto considera l’altro a partire da una prospettiva. Come scrive Pirandello «per gli altri avevo tante sommarie determinazioni, ch’io non m’ero date né fatte e a cui non avevo mai badato». Per non parlare della difficoltà di comprendersi proprio attraverso le parole («Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci, non ci siamo intesi affatto»). Viviamo allora dentro classificazioni (determinazioni) e interpretazioni, addirittura in un vero e proprio conflitto di interpretazioni? Direi proprio di sì, e come ci hanno suggerito gli Stoici non ci dovremmo preoccupare troppo dello sguardo altrui, perché sappiamo che se abbiamo potere sulle nostre scelte, sulle opinioni altrui non abbiamo invece alcun controllo. Non solo l’interiorità si forma e muta col tempo, ma gli uomini si ingannano perché spesso conoscono solo ciò che si vuole loro mostrare. Madeleine de Souvré de Sablé, scrittrice francese del XVII sec., nelle sue “Massime” scriveva che «Spesso abbiamo più voglia di apparire servizievoli che di compiere bene tali servizi, e spesso preferiamo poter dire agli amici d'aver fatto loro del bene che farlo davvero». E qualche anno più tardi La Rochefoucauld scriverà che «In tutte le condizioni, ciascuno simula un contegno per apparire come vuol che lo si creda. Sicché si può dire che l'umanità è composta soltanto da maschere». Preferisco sostituire la parola “maschera” con la parola “interpretazione”, perché la prima sottende l’idea che sotto di essa ci sia un “vero” e unico soggetto. L’abisso tra il presunto “me” (o i molteplici “me”) e “lui” (o i molteplici “lui”) non si può colmare, perché sono proteiformi i modi in cui un soggetto delinea se stesso o viene rappresentato dagli altri. Questa distanza, tuttavia, si può ridurre. Cercando la coerenza con la propria vita e le proprie scelte.
Un caro saluto,
Alberto