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Cor-rispondenze

lunedì 28 gennaio 2019

Essere grandi


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Caro professore,
Il passaggio dalla scuola media alla scuola superiore è stato un gran bel passo, è cambiato tutto e io mi sento più grande, anche se in realtà non lo sono, tutto dipende dalle circostanze. Mi sento più grande perché sono in una città più grande, perché faccio più cose da sola, cosa voglio fare lo posso decidere io. Però se poi ci penso sono ancora piccola. Perché comunque dipendo, come è giusto che sia alla mia età, da altre persone. Quello che non riesco davvero a capire è: cosa significa davvero essere grandi?
Giorgia, IE

Cara Giorgia,
Il grande filosofo prussiano Immanuel Kant, in una lettera del 1784 in cui spiega che cos’è l’Illuminismo (Was ist Aufklärung?), ritiene che la natura abbia programmato gli uomini per diventare autonomi. Non subito, però. Quando si è piccoli abbiamo infatti bisogno di tutto e di tutti per sopravvivere. Ma la necessità ineluttabile che gli altri si occupino della nostra sopravvivenza piano piano si riduce; ci liberiamo dall’eterodirezione, ossia da questa imprescindibile subordinazione al mondo adulto e la natura ci consente di diventare gradualmente indipendenti. Ci possiamo così prendere cura di noi. Egli scrive dunque che gli uomini sono naturaliter maiorennes (“per natura maggiorenni”), perché è la vita stessa ad averli progettati per conseguire tale obiettivo. E riuscire a emanciparsi vuol dire costruire le condizioni per la propria libertà. Credo che tu stia vivendo un momento importante: i cambiamenti nelle abitudini, il passaggio ad una scuola più grande, la necessità di orientarti in una città piuttosto che in un paese, avere più tempo libero da sola, sono elementi che ti consentiranno significative conquiste di autonomia. Diventare grandi, tuttavia, non è facile per nessuno. E non so quanto sia naturale. Perché in fondo è un’opera di autoeducazione. È un’impresa su se stessi, un continuo esercizio che non si conclude mai. Perché la tentazione di rimanere bambini è sempre viva e quella di appoggiarsi alle idee degli altri altrettanto: di usare le stampelle dell’ideologia dominante, di un partito, di una religione, di una lobby, di amicizie rilevanti. A che età siamo veramente in grado di decidere autonomamente? Non è detto che gli adulti siano diventati grandi. Kant dice che «la viltà e la pigrizia» sono spesso i motivi che impediscono agli uomini di compiere il passaggio alla maggiore età. Se dovessi fare una sorta di inventario personale delle cose che a me sembrano importanti, direi che essere grandi significa certamente essere responsabili. Di questo sono sicuro: essere responsabili significa infatti saper rispondere (“respondēre”) delle proprie azioni e delle proprie parole, come un pilota d’aereo sente la responsabilità per le persone che gli sono affidate. Ho citato il pilota d'aereo perché nel 1939 Saint Exupery ha scritto il libro “Terra degli uomini” (“Terre des hommes”) e lo ha dedicato al suo amico pilota Henri Guillaumet (“compagno mio”) morto in un incidente. E perché in tale opera l’autore associa un significato più profondo a tale mandato, quello di saper «provare vergogna in presenza d'una miseria che pur non sembra dipendere da noi». Nutrire vergogna non significa semplicemente sentire imbarazzo, ma avvertire come immorali l’ingiustizia e la povertà. Il passaggio dalla vibrazione emotiva alla riflessione etica – ed eventualmente alle politiche di giustizia – credo che abbia a che fare con l’acquisizione di un posto da adulti nel mondo. Per me essere grandi significa anche saper accettare i limiti, della propria forza, della propria capacità di comprendere il mondo e di incidere su di esso; e grazie a tale comprensione avvertire che i problemi non si risolvono da soli e che ognuno è un anello di una catena. Essere grandi significa allora saper collaborare, avere il coraggio di agire e non solo di contestare e avere una parola da uomo, ossia essere fedeli alla parola data e operare in modo conforme a ciò che si annuncia. Credo che tale condizione comporti anche avere pazienza, ossia essere forti e saper sostenere i propri progetti, senza scoraggiarsi per la fatica. Non essere impazienti non equivale infatti ad essere passivi, ma resistenti e preparati di fronte alle contrarietà. Essere grandi significa anche saper intessere, intrecciare: ossia costruire e ricostruire senza perdere la fiducia in sé e negli altri; come la barriera corallina che viene continuamente spezzata e, costantemente rinnovata con il concorso di miliardi di organismi, trattiene la forza dirompente del mare. Credo infine che essere grandi voglia dire abitare la Terra con uno sguardo a tutto il pianeta o – per dirla ancora con Saint Exupery – «sentire che, posando la propria pietra, si contribuisce a costruire il mondo». E ad un’eventuale domanda sul perché dovremmo essere impegnati e non egoisti, rispondo – con l’autore – perché è sufficiente  sapere di essere «trasportati dallo stesso pianeta, equipaggi di una stessa nave». Potremmo chiederci, parafrasando Kant: siamo già in un’epoca dove gli adulti sono grandi? E rispondere con lui: no, ci vuole tempo per il rischiaramento delle menti e per l’attivazione emotiva che conduca a comportamenti solidali. Il processo per conquistare l’autonomia è lungo e faticoso e, a differenza della natura, non garantisce sempre il conseguimento del risultato. L’autoeducazione è impegnativa, spesso estenuante. Però ha il vantaggio di rendere gli individui più liberi, non solo di perseguire i propri obiettivi, ma anche di assolvere ad un compito un po’ strano: quello di essere uomini.
Un caro saluto,

Alberto

lunedì 21 gennaio 2019

Sentirsi vivi

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Caro professore,
Quella che sto per porle può sembrare una domanda banale, ma, la prego, cerchi di non giudicarla immediatamente così. Fin da quando me la sono posta, all'incirca due anni fa, ho cercato una soluzione e alla fine penso di averla trovata, ma immagino che essa sia solo una piccola parte della verità. Proprio per questo credo che non sia saggio rivelarla, anche perché temo di poterla influenzare con le mie idee e voglio lasciarle carta bianca. Non mi dilungo oltre e arrivo subito al punto. Cosa ci fa capire di essere vivi? Come possiamo renderci conto che la realtà che ci circonda è vera, che noi siamo realmente qui e che tutto questo non è solo uno strano sogno? La ringrazio per l'attenzione. P.S. Tutti i possibili riferimenti a Matrix sono puramente casuali,
Greta, 3 alfa


Cara Greta,
Potremmo chiederci insieme a Cartesio, nella prima delle Meditazioni metafisiche (1641): quante volte abbiamo creduto di essere seduti presso il fuoco – il caminetto – mentre invece eravamo sotto le coperte? Talvolta, infatti, non è facile distinguere tra la veglia e il sonno. Ed è possibile che ci venga in mente di non vivere in un mondo reale. Se un tempo ci si poteva chiedere se il mondo era frutto di un sogno (ad es. La vita è sogno, Calderon de la Barca, 1635) o di una rappresentazione (Schopenhauer), ma la concretezza e le asprezze della vita riportavano gli uomini con i piedi per terra, oggi il confine tra reale e virtuale si è affievolito. Così, possiamo anche temere di vivere effettivamente in mondi fittizi, soprattutto se ci perdiamo tra social, videogiochi dalla grafica realistica ed effetti sonori iperrealistici. Una sempre maggiore interazione con il virtuale sappiamo che può persino determinare patologie da dipendenza, come perdita di emozioni e dispercezione della realtà. E con ogni probabilità il legame tra questi due aspetti sarà in futuro ancora più stretto. Il dubbio è certamente giustificato; ma tu sei in buona compagnia, perché anche Cartesio diceva che il dubbio era legittimo e non per superficialità, ma per «ragioni valide e meditate». Matrix ha persino sostenuto che la realtà potrebbe essere nient’altro che un mondo virtuale elaborato dal computer. Dice Morpheus «Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello». L’idea non è nuova. Ricorda l’idea del cervello in una vasca di Hilary Putnam, ripresa da un racconto dello scienziato cognitivo Daniel Dennet. Si tratta di un esperimento mentale: scienziati malvagi hanno rimosso il cervello da un corpo mentre dormiva e lo hanno posto in un liquido di mantenimento in una vasca. Stimolato con elettrodi, il cervello crede di vivere veramente la vita reale e di essere impegnato nelle sue normali attività. Alcuni hanno sostenuto che in tale situazione il cervello non sarebbe in grado di comprendere se la realtà in cui vive è vera oppure no. Penso ora che la tua domanda possa imboccare tre strade: la nostra facoltà conoscitiva è adeguata per conoscere il mondo? (un problema gnoseologico); quanti sono i piani della realtà? Materiale, immateriale, altro? (un problema ontologico); oppure: come posso sentirmi vivo e diventare protagonista della mia vita? (un problema esistenziale). Poiché sei molto giovane, non voglio sottovalutare questo aspetto. Penso che una persona possa non sentirsi viva o per eccesso di vissuto doloroso o per una sorta di torpore. Elisa Springer ne Il silenzio dei vivi scrive: «Ho abitato ad Auschwitz, Bergen-Belsen, Terezìn, ho conosciuto le miserie e l'orrore di uomini senza anima, soldati senza cuore che hanno carpito la nostra libertà, senza darci né il tempo, né il modo di difenderla, confinandoci in un mondo di schiavitù, di odio, in cui era impossibile ritrovarsi esseri umani». E quando per circostanze occasionali e imprevedibili riesce ad uscire dal lager di Bergen-Belsen si chiede: «Ce l'avrei mai fatta a rimanere viva tra i vivi?». L’eccesso di dolore e lo stordimento della sofferenza possono portare a non sentirsi più vivi in mezzo alle vite altrui, spesso ignare di vissuti penosi o di storie assurde e inaudite. I filosofi hanno spesso detto che per sentirsi vivi occorre avere chiara coscienza della propria condizione. Jostein Gaarder ne “Il mondo di Sofia” (1991) ha messo in bocca alla protagonista queste parole: «Non è possibile sentirsi vivi senza essere consapevoli che si deve morire, pensò. Analogamente è impossibile riflettere sul fatto che si deve morire senza pensare al contempo che vivere è una cosa meravigliosamente strana». Non ti spaventare, la riflessione sul tempo della vita è fondamentale. È a partire dal nostro limite nel tempo che possiamo uscire dal torpore. E se diventiamo consapevoli di questo confine, forse riusciamo a orientare la nostra vita, a smuoverla dall’apatia, dal sonno. Allora è fondamentale sentirsi ingaggiati, ossia arruolati dal mondo, interpellati dalla realtà e darsi degli scopi, cercare di impegnarsi in attività e relazioni. Quando si scende nell’umano e si viene coinvolti nelle relazioni, svanisce ogni dubbio su cosa significhi sentirsi vivi. E come direbbe Cartesio, non si tratta di un ragionamento che può essere messo in dubbio, si tratta di un’intuizione immediata. Anticipa ogni logica e aiuta a trovare un senso alle azioni della quotidianità.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 14 gennaio 2019

Lasciare il passato alle spalle

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Caro Professore,
Siamo una generazione che vive nelle tecnologie, nelle infinite possibilità che le nuove telecomunicazioni ci offrono e nelle comodità che ogni giorno ci garantiscono. Eppure siamo alla disperata ricerca di elementi del passato. Pezzo per pezzo, stiamo ritirando fuori la storia. Piccoli elementi di un’epoca che non ci appartiene. Abbiamo macchine fotografiche ultramoderne, ma preferiamo una vecchia polaroid. Abbiamo lettori cd ed MP3 o semplicemente il telefono, ma il vecchio vinile sta tornando. Ogni giorno nascono nuovi stili e modelli nel campo della moda, ma indossare qualcosa di vintage oggi è un tocco immancabile e alla moda. È come se in qualsiasi modo stessimo cercando di mantenere vivo ciò che è morto da molto tempo oramai. E non è tutto. Sta serpeggiando sempre più frequentemente tra gli adolescenti il desiderio di essere nati e aver vissuto in anni antecedenti alla propria nascita. Perché l'uomo non riesce mai lasciarsi il passato alle spalle, neanche quello non vissuto da lui in persona e lo desidera anche se potrebbe includere aspetti negativi? In fondo il ‘900 è stato segnato da ben due guerre mondiali che hanno stravolto e distrutto il mondo. Non penso che qualcuno possa davvero desiderare di voler vivere gli orrori della guerra. È una frase comune "devi imparare a lasciarti persone e avvenimenti alle spalle", eppure né come individui singoli, né come collettività riusciamo mai completamente in questa impresa.
Eleonora 3ª alfa


Cara Eleonora,
Non credo che sottoscriveresti facilmente il verso del rivoluzionario francese Eugène Pottier ne L’Internazionale ottocentesca che recita: «del passato facciamo tabula rasa» («Du passé faisons table rase»), ma certamente avverto nelle tue parole una sorta di fastidio per un incomodo di cui sarebbe meglio liberarsi. Penso invece che del passato abbiamo bisogno e proverò a spiegarti perché. Parto da una riflessione personale. Del futuro so poco: i miei maestri non sono lì, sono altrove. Buona parte del futuro è radura, mentre il mio passato è ricco, sia quello soggettivo sia quello culturale in cui sono inserito. Anch’io guardo al futuro, ma sono un po’ miope e l’orizzonte che intravedo è breve; allora spesso interrogo il passato, che non è popolato da tirannosauri e attrezzi inefficienti, ma da persone, alcune delle quali continuano ad orientare la mia vita. Sono affezionato e grato a queste relazioni, tanto che alcune le porterò con me, in ogni spazio che dovrò abitare. Nel passato ci sono i miei affetti, le persone significative, il loro vissuto e il loro modo di guardare la vita. Soprattutto un certo modo di stare al mondo, che nessun futuro mi lascia intravedere. Non ho testimoni della mia storia nel futuro, li ho dietro di me, qualcuno accanto. E voglio assumere queste relazioni per sentirmi umano. È un bisogno di storia personale e anche di storia collettiva. Quando leggo le lettere che i giovani della Grande Guerra inviavano al re e nelle loro parole chiare e angosciose gli spiegavano cos’era veramente la guerra e gli chiedevano ragione della loro permanenza in trincea (Renato Monteleone, "Lettere al Re", Editori Riuniti, Roma, 1973), leggo di vite sventurate e falcidiate, ascolto le speranze, la rabbia e la delusione di ragazzi a cui la vita è stata rubata. Mi sento un privilegiato, un sopravvissuto, un uomo che abita già un futuro che molti non potranno vivere e nemmeno immaginare. Ascoltando quel dolore, comprendo che cosa ho scampato. Tzvetan Todorov è un filosofo bulgaro recentemente scomparso. Parlando dei regimi totalitari ha affermato che «questi regimi non sono arrivati da un altro pianeta, sono nati tra noi, a partire da pratiche che non sono estranee al nostro modo di agire». Il passato, allora, non è così lontano. E Todorov scrive queste parole in un libro dal titolo significativo:  “Gli altri vivono in noi, e noi viviamo in loro. Saggi 1938-2008”. Vivono in noi, perché ognuno di noi è memoria di ciò che ha visto e appreso, e noi viviamo in loro perché la nostra vita è una relazione con altre esistenze che ci aiutano a pensare e a comprendere il presente. La verità della vita è sempre più ampia delle nostre semplificazioni. Il filologo Ivano Dionigi ne “Il presente non basta. La lezione del latino” si chiede: «Come mai ci ostiniamo a credere che il presente si riduca alla novità e che la novità esaurisca la verità?». Egli ricorda pertanto l’invito di san Bernardino da Siena a frequentare i classici: «va’, leggi i loro libri, qual più ti piace; e parlerai con loro, ed eglino parleranno teco; udirannoti e tu udirai loro» (Quaresimale del 1425). Perché c’è un ritorno al vintage? Non credo ci sia una sacralizzazione del passato tout court, non veneriamo il passato in quanto tale o perché nostalgici di ciò che non c’è più. Forse vogliamo solo uscire dall’ordinario per scoprire ciò che non è convenzionale, vogliamo allontanarci da ciò che è insignificante o già obsoleto, per cogliere ciò che ha avuto significato per altre generazioni. O forse perché il nuovo sta anche nel passato come tratto caratteristico di ciò che non abbiamo né visto né vissuto. Nessun passato deve tiranneggiare sul presente, ma la memoria è importante perché spesso è un rimedio al male e ci dà anche la misura di ciò che possediamo. E forse ha ragione Todorov quando scrive che «Il passato non chiede soltanto di essere conosciuto con precisione, contiene anche una lezione per il presente – perché il male non è mai unicamente dietro di noi».
Un caro saluto,
Alberto