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Cor-rispondenze

lunedì 21 gennaio 2019

Sentirsi vivi

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Caro professore,
Quella che sto per porle può sembrare una domanda banale, ma, la prego, cerchi di non giudicarla immediatamente così. Fin da quando me la sono posta, all'incirca due anni fa, ho cercato una soluzione e alla fine penso di averla trovata, ma immagino che essa sia solo una piccola parte della verità. Proprio per questo credo che non sia saggio rivelarla, anche perché temo di poterla influenzare con le mie idee e voglio lasciarle carta bianca. Non mi dilungo oltre e arrivo subito al punto. Cosa ci fa capire di essere vivi? Come possiamo renderci conto che la realtà che ci circonda è vera, che noi siamo realmente qui e che tutto questo non è solo uno strano sogno? La ringrazio per l'attenzione. P.S. Tutti i possibili riferimenti a Matrix sono puramente casuali,
Greta, 3 alfa


Cara Greta,
Potremmo chiederci insieme a Cartesio, nella prima delle Meditazioni metafisiche (1641): quante volte abbiamo creduto di essere seduti presso il fuoco – il caminetto – mentre invece eravamo sotto le coperte? Talvolta, infatti, non è facile distinguere tra la veglia e il sonno. Ed è possibile che ci venga in mente di non vivere in un mondo reale. Se un tempo ci si poteva chiedere se il mondo era frutto di un sogno (ad es. La vita è sogno, Calderon de la Barca, 1635) o di una rappresentazione (Schopenhauer), ma la concretezza e le asprezze della vita riportavano gli uomini con i piedi per terra, oggi il confine tra reale e virtuale si è affievolito. Così, possiamo anche temere di vivere effettivamente in mondi fittizi, soprattutto se ci perdiamo tra social, videogiochi dalla grafica realistica ed effetti sonori iperrealistici. Una sempre maggiore interazione con il virtuale sappiamo che può persino determinare patologie da dipendenza, come perdita di emozioni e dispercezione della realtà. E con ogni probabilità il legame tra questi due aspetti sarà in futuro ancora più stretto. Il dubbio è certamente giustificato; ma tu sei in buona compagnia, perché anche Cartesio diceva che il dubbio era legittimo e non per superficialità, ma per «ragioni valide e meditate». Matrix ha persino sostenuto che la realtà potrebbe essere nient’altro che un mondo virtuale elaborato dal computer. Dice Morpheus «Che vuol dire reale? Dammi una definizione di reale. Se ti riferisci a quello che percepiamo, a quello che possiamo odorare, toccare e vedere, quel reale sono semplici segnali elettrici interpretati dal cervello». L’idea non è nuova. Ricorda l’idea del cervello in una vasca di Hilary Putnam, ripresa da un racconto dello scienziato cognitivo Daniel Dennet. Si tratta di un esperimento mentale: scienziati malvagi hanno rimosso il cervello da un corpo mentre dormiva e lo hanno posto in un liquido di mantenimento in una vasca. Stimolato con elettrodi, il cervello crede di vivere veramente la vita reale e di essere impegnato nelle sue normali attività. Alcuni hanno sostenuto che in tale situazione il cervello non sarebbe in grado di comprendere se la realtà in cui vive è vera oppure no. Penso ora che la tua domanda possa imboccare tre strade: la nostra facoltà conoscitiva è adeguata per conoscere il mondo? (un problema gnoseologico); quanti sono i piani della realtà? Materiale, immateriale, altro? (un problema ontologico); oppure: come posso sentirmi vivo e diventare protagonista della mia vita? (un problema esistenziale). Poiché sei molto giovane, non voglio sottovalutare questo aspetto. Penso che una persona possa non sentirsi viva o per eccesso di vissuto doloroso o per una sorta di torpore. Elisa Springer ne Il silenzio dei vivi scrive: «Ho abitato ad Auschwitz, Bergen-Belsen, Terezìn, ho conosciuto le miserie e l'orrore di uomini senza anima, soldati senza cuore che hanno carpito la nostra libertà, senza darci né il tempo, né il modo di difenderla, confinandoci in un mondo di schiavitù, di odio, in cui era impossibile ritrovarsi esseri umani». E quando per circostanze occasionali e imprevedibili riesce ad uscire dal lager di Bergen-Belsen si chiede: «Ce l'avrei mai fatta a rimanere viva tra i vivi?». L’eccesso di dolore e lo stordimento della sofferenza possono portare a non sentirsi più vivi in mezzo alle vite altrui, spesso ignare di vissuti penosi o di storie assurde e inaudite. I filosofi hanno spesso detto che per sentirsi vivi occorre avere chiara coscienza della propria condizione. Jostein Gaarder ne “Il mondo di Sofia” (1991) ha messo in bocca alla protagonista queste parole: «Non è possibile sentirsi vivi senza essere consapevoli che si deve morire, pensò. Analogamente è impossibile riflettere sul fatto che si deve morire senza pensare al contempo che vivere è una cosa meravigliosamente strana». Non ti spaventare, la riflessione sul tempo della vita è fondamentale. È a partire dal nostro limite nel tempo che possiamo uscire dal torpore. E se diventiamo consapevoli di questo confine, forse riusciamo a orientare la nostra vita, a smuoverla dall’apatia, dal sonno. Allora è fondamentale sentirsi ingaggiati, ossia arruolati dal mondo, interpellati dalla realtà e darsi degli scopi, cercare di impegnarsi in attività e relazioni. Quando si scende nell’umano e si viene coinvolti nelle relazioni, svanisce ogni dubbio su cosa significhi sentirsi vivi. E come direbbe Cartesio, non si tratta di un ragionamento che può essere messo in dubbio, si tratta di un’intuizione immediata. Anticipa ogni logica e aiuta a trovare un senso alle azioni della quotidianità.
Un caro saluto,
Alberto

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