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Cor-rispondenze

lunedì 30 aprile 2012

Il "gioco" o l'arte della vita






E' stato recentemente pubblicato il libro di Wilhelm Schmid, L'amicizia per se stessi. Cura di sé e arte di vivere, Roma, Fazi editore, 2012.
Il filosofo tedesco, di cui abbiamo parlato in un post sulla felicità (6/5/2009), fa riferimento ad alcune analogie tra il calcio e la vita. Ripropongo una parte di questa riflessione contenuta alle pagine 55-56 del testo.

"Ecco le sue venti condizioni: uno spazio, il campo di gioco. Un tempo, 190 minuti. Un oggetto con cui giocare, il pallone. La presenza di più di una persona che partecipa al gioco: deve sempre essere possibile "giocare con qualcuno". L'esistenza di regole da rispettare e, talvolta, anche da aggirare. Tattica e strategia, che diventano decisive e danno struttura al gioco azione dopo azione. Creatività, per vedere in ogni situazione sempre ulteriori possibilità, oppure per crearne di alternative o tentare qualcosa di nuovo. Apertura all'imprevisto, sto, per giocare al meglio in ogni particolare situazione. Tecnica, fatta di movimenti singoli, sequenze di azioni, schemi, varianti da preparare e perfezionare continuamente senza mai stancarsi. I trucchi, non sempre e non necessariamente conformi alle regole. Un fiuto sottile e "un occhio clinico", allenato e formato grazie a un'esperienza molteplice e alla riflessione su di essa. Ognuna di queste condizioni deve essere legata alla saggezza: l'emozione come spinta, la cognizione come conoscenza teorica delle strutture. Un gioco di forza all'interno del sé, perché un giocatore squilibrato prima o poi "smette di giocare". Un gioco di forze esteriore, diretto contro un "avversario", che rappresenta senz'altro il problema del gioco, ma che, in realtà, ne è il garante: crea la polarità e quindi anche la tensione. Un gioco di squadra, perché in questo modo si possono realizzare molte più possibilità di quante ce ne potrebbero essere giocando da soli. Uno sguardo esteriore istituzionale (allenatore, arbitro), con l'aiuto del quale la partita può essere modificata e corretta da un metalivello. Spettatori, la cassa di risonanza: senza di loro la partita sarebbe un gioco spettrale, sebbene i giocatori possano essere considerati anche come spettatori della partita che loro stessi stanno giocando. Superare la paura di una sconfitta, di un'incertezza che non dà soddisfazione e, soprattutto, superare la paura di un trionfo, che indebolisce ed espone a ogni sorta di leggerezza e pigrizia. Uno scopo immanente al gioco, come quello di segnare un goal; se si presentano anche scopi esteriori, il gioco ne soffre. E, soprattutto, la libertà e la spontaneità, non la necessità: un gioco non è un obbligo; anche ammettendo che chi gioca sia in grado di amare ciò a cui è obbligato, la pressione dell'obbligo sparirebbe e il giocatore si sentirebbe nuovamente libero.

Tutti questi aspetti si ritrovano evidentemente nel gioco della vita. Esiste uno spazio, o "un campo da gioco": la definizione dei diversi luoghi tra i quali il soggetto preferisce muoversi. Una limitazione temporale, sempre data alla vita, che deve sempre poter esistere, o in singoli frammenti, o anche nella forma di un tutto. L'oggetto del gioco è il materiale molteplice della vita che, come un pallone, cambia continuamente direzione e con il quale bisogna saperci fare nei modi più svariati. La partita è giocata sempre da più di una persona: il soggetto dell'arte di vivere non è mai solo il sé, ma sempre anche gli altri e "la vita" stessa, che provvede a delineare le diverse situazioni, che si presentano al contempo come sfide. Le regole e le consuetudini che devono essere rispettate, formali o informali che siano, sono poste in essere dal sé, dagli altri e dalla vita stessa e non possono essere violate senza conseguenze. Le regole devono comunque essere "flessibili" in modo tale che la vita possa sempre continuare. L'arte di vivere culmina nella definizione della tattica e della strategia. Lo scopo dell'arte di vivere è infatti quello di strutturare in maniera prudente, non meno che lungimirante, le singole azioni e le situazioni complessive. La creatività si occupa di fare in modo che la conduzione della propria vita possa sempre destare sorpresa, che non possa essere risolta da qualcos'altro, che resti enigmatica, non determinabile, spesso anche sperimentale: la vita diviene un gioco quando è necessario tentare e provare qualcosa indipendentemente dalla riuscita o dal fallimento dei tentativi. Questa è la base per inscrivere la contingenza nella comprensione della vita, allo scopo di non rimanere troppo a lungo dell'idea che la vita possa essere pienamente determinata. Quello che conta è, in ogni caso, apprendere una capacità ed esercitarla esteticamente, allenarla per raggiungere, almeno idealmente, la più alta eleganza nell'affrontare le diverse situazioni; come esercizio per acquisire questa capacità sono adatti tutti i tipi di giochi. La conoscenza dei trucchi così come una certa destrezza sono importanti, ad esempio, per sciogliere un nodo in cui si è aggrovigliata una situazione. L'educazione progressiva, la raffinazione del fiuto mediante l'esperienza e la riflessione sono imprescindibili per non doversi fermare a pensare troppo a ogni passo. Il gioco di forza interno al sé deve essere chiarito per raggiungere una conoscenza di se stessi che tenga conto delle contraddizioni che non possono essere eliminate. Il gioco di forza esteriore è il polo contrario, contraddittorio e tuttavia ne- cessario. Quando si gioca a vivere questo polo è rappresenta- to dagli altri, che devono essere accettati come dati o perfino affermati come qualcosa che arricchisce la vita. Il gioco di squadra, la cooperazione con gli altri, può essere cercata per formare una rete di legami che permette di scoprire un numero molto maggiore di possibilità rispetto a quelle dischiuse dalla vita condotta solo per sé. Lo sguardo dall'esterno è importante, perché rende manifesta la figura di colui in cui riponiamo fiducia, dell'amico; per questo il sé si sforza di inte- ríorizzarlo. Ogni azione comprende, infatti, la dimensione dello spettatore, poiché si tratta sempre di condurre la propria vita di fronte agli occhi degli altri, di essere commentati e giudicati dal loro punto di vista. È impossibile che questo non abbia ripercussioni sul modo in cui il sé si autocomprende. Una sfida per il compimento della vita è senz'altro quella rappresentata dalle sconfitte e dagli insuccessi, così come dalle vittorie e dai successi. La vita trova, poi, il suo scopo, cioè la sua pienezza, in se stessa e non al suo esterno. Partecipare al gioco della vita, infine, significa farlo con libertà e spontaneità, mai come costrizione necessaria; non ci si può dunque mettere semplicemente a giocare. Deve essere sempre fondamentalmente possibile scegliere se farlo o meno".

lunedì 23 aprile 2012

Nei meandri della mente: déjà-vu

Caro professore,
A volte nei meandri della mente affiorano scene famigliari e ricordi già vissuti in tempi passati della nostra attuale vita. Queste visualizzazioni del nostro subconscio vengono chiamate déjà-vu. Ora spiegherò secondo la mia opinione il motivo di questo avvenimento. L'uomo nasce, cresce e poi muore. In quest'ultimo avvenimento, ovvero quando l'anima lascia il corpo, la mente dell'uomo cancella tutti o quasi tutti i ricordi della propria vita che ha vissuto. dopo la morte l'anima di quel corpo che ormai è senza vita occupa un altro essere, ricominciando una nuova vita. Durante questa nuova esistenza l'anima, quando prova certe emozioni, che assomigliano a quelle della vita precendente, fa ricordare quell'azione che il "nuovo corpo" sta svolgendo, in modo da far sembrare all'essere umano di aver già vissuto quella medesima esperienza. In conclusione, secondo la mia opinione, il déjà-vu avviene grazie a una sensazione dell'esistenza precedente uguale ad un'altra della vita "attuale". Queste sensazioni suscitano nell'anima il ricordo dell'azione avvenuto durante l'esistenza precedente. Simona IV C

Cara Simona,
La tua opinione sull’origine del déjà-vu ricorda l’antica teoria della reincarnazione; l’esperienza del déjà-vu richiama apparentemente alla memoria esperienze precedenti: si ha talvolta l’impressione di aver già vissuto certe situazioni, di aver già avuto certe percezioni. Metempsicosi e reincarnazione, infatti, hanno il loro fondamento in questo vissuto. La spiritualità indiana è ricca di queste immagini e anche Platone, come ben ricorderai, faceva riferimento al rapporto tra memoria e reminiscenza. A questo proposito, Gianfranco Ravasi, il grande biblista, nel libro Breve storia dell’anima [2003] scrive che «che la metempsicosi per le varie religiosità indiane è simile a un purgatorio, ove ci si purifica dal male per poter poi accedere alla pace perfetta e immobile del nirvana. Là finalmente la ruota della vita si ferma, il trasmigrare necessario e coatto si arresta, il desiderio si spegne, il dolore si dissolve, appare un «vuoto» che è pienezza, un annullamento che è salvezza, un'assenza che è presenza, secondo categorie simboliche e mentali difficilmente riproducibili e convertibili nelle nostre coordinate logiche (e anche, bisogna aggiungere, secondo teorie differenti, proprie delle varie scuole buddhista)». L’idea di poter rivivere qualcosa che abbiamo già sperimentato in passato è assolutamente affascinante, e talvolta inquietante (come in Matrix). Il passato rievocato nel presente, che si insinua nella coscienza involontariamente o, viceversa, l’anticipazione del futuro suggeriscono riflessioni in molte direzioni. Qualche tempo fa, il professor Remo Bodei ha pubblicato un bellissimo libro su questo argomento dal titolo “Piramidi di tempo. Storia e teoria del déjà-vu [2006]”. Riflettendo sul déjà-vu egli scrive che: «la realtà e l'irrealtà si sovrappongono e le differenze temporali si azzerano nel momento stesso in cui vengono sottolineate. Il passato e il presente, l'allora e l'ora, il qui e l'altrove entrano in un cortocircuito, che annulla non solo lo scorrere del tempo, ma perfino il suo stesso annullamento». Quella del déjà-vu potrebbe essere considerata un’esperienza simile a quella del sogno, ma scrive l’autore: «Diversamente dall'esperienza onirica, nel déjà vu si diventa però vittime di un «sogno rovesciato»: mentre nel sognare si prende l'allucinazione per realtà, in quest'ultimo si scambia invece la realtà per allucinazione, per qualcosa che stentiamo a credere pur avendola indubbiamente davanti ai nostri occhi». Siamo forse in grado di predire il futuro, di anticipare ciò che ancora non esiste, o portiamo dentro di noi una realtà di cui solo ogni tanto siamo consapevoli? Bodei mostra quante direzioni possano scaturire dalla tematica: «Siamo dinanzi a un trompe-l'oeil temporale, a un falso e illusorio riconoscimento di una situazione da parte della memoria, a un irragionevole «ricordo del presente» o non diventiamo, piuttosto, partecipi dell'eccezionale e misterioso rivelarsi di un tempo altro, ambiguamente sospeso nel suo volo e indifferente all'abituale ritmo dei flussi di coscienza?». Egli narra le varie interpretazioni dei poeti, dei filosofi e degli scienziati e ricorda che, ad esempio, Aristotele considera il déjà-vu un disturbo psichico, mentre Agostino ritiene che sia prodotto da spiriti maligni che si insinuano nella mente dell’uomo per confonderlo e turbarlo. Per Nietzsche sarebbe una conferma dell’eterno ritorno di tutte le cose («E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna, e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti — non dobbiamo tutti essere stati un'altra volta? — e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via — non dobbiamo ritornare in eterno?»). Ma se veramente abbiamo già vissuto in modo analogo la vita, in che cosa consiste la nostra libertà? Forse, come ritenevano Spinoza e Nietzsche, nel semplice riconoscimento della necessità di tutto, nell’amor fati? Chissà. Romo Bodei non si limita alle interpretazioni filosofiche, ma fa riferimento anche a teorie di molti scienziati: a quella del «doppio cervello di Wigan», a quella «dell'arrivo differito di due percezioni dello stesso evento di Jensen», a « quella dell'eco interiore, sostenuta da Fouillée », a quella del «sintomo rivelatore di una scissione della personalità in atto, di Dugas» e a molte altre. Egli riporta una curiosa riflessione di Bergson, il quale lega il momento della percezione a quello della memoria: «la formazione del ricordo non è mai posteriore a quella della percezione, ma contemporanea ad essa. Man mano che la percezione si crea, il suo ricordo si disegna ai suoi lati, come l'ombra al lato del corpo. Ma la coscienza di solito non lo percepisce, così come l'occhio non vedrebbe la nostra ombra se la illuminasse ogni volta che si volge verso di essa». Anche se è bello pensare che il dèjà-vu sia una forma di rivelazione di qualcosa di misterioso o faccia accenno a un’altra realtà, permettendo l’accesso ad una dimensione remota, la scienza parla oggi di una semplice alterazione dei ricordi e rubrica il déjà-vu sotto la categoria "paramnesie", ossia alle anomalie della memoria. Insomma, anche se certamente meno evocativo, il déjà-vu sarebbe semplicemente una “falsa memoria”.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 16 aprile 2012

Condannati alla crescita



Caro professore,
Nei giorni che hanno preceduto e seguito il Natale, i telegiornali delle maggiori reti televisive nazionali hanno annunciato che quest’anno i consumi si sono ridotti del 18% rispetto all’anno scorso, il potere d’acquisto dei salari è calato del 1,8% circa e che con tutta probabilità questa tendenza negativa si accentuerà il prossimo anno poiché, come sappiamo, il Pil nazionale andrà in contro ad una recessione di 1,5/2 punti percentuali e tutto ciò peggiorerà sempre di più nel caso in cui non venissero varate delle serie misure per il bilancio e soprattutto per la crescita. L’Italia, almeno in questo caso, non è la sola, infatti,una situazione del tutto analoga la si può riscontrare nella maggior parte dei paesi dell’Ue nonché negli apparentemente inarrivabili Stati Uniti. In seguito alla dura manovra economica, approvata in via definitiva anche al Senato, da diversi giorni la parola che ricorre più frequentemente è la già citata “crescita”. Tutti ne parlano, dai tecnocrati ai politici di qualsiasi schieramento, dai giornali alle televisioni: la crescita, lo sviluppo economico, l’aumento della produttività sono le uniche vie per superare il periodo di austerità che inevitabilmente siamo costretti ad attraversare. Non c’e altra via d’uscita. È già stato tutto deciso. Dobbiamo farcela, dobbiamo crescere.….per forza! Ma se non fosse cosi?
Non mi ritengo certo un esperto ma credo sia inevitabile per tutti domandarsi dove ci condurrà questa crescita così lodata e perseguita fino alla paranoia. E se non servisse a nulla? Lei è convinto, come la maggioranza degli uomini, che siano sufficienti un più rigido controllo sul bilancio statale e qualche intervento per sostenere lo sviluppo per cambiare le sorti dei Paesi in difficoltà oppure comincia ad avere qualche perplessità sulle soluzioni che ci vengono proposte dai potenti della terra? Non le appare ridicolo e degradante che l’unico orizzonte che attende la mia e la sua generazione si fondi sul consumismo di massa, sul profitto per amore del profitto e sulla competizione ad oltranza di tutti contro tutti?

La condizione in cui vige il sistema di vita e il modello economico che tutti conosciamo, che indubbiamente ci hanno garantito per lunghi anni un elevato grado di benessere e stabilità, sono paragonabili ad un individuo che a causa delle eccessive dosi di eroina si trova ormai in fin di vita e per impedire che soffra gli vengono somministrate delle quantità di eroina sempre più potenti, ma come è facile immaginare tale individuo è condannato a desiderare dosi ogni volta più forti ed inevitabilmente prima o poi il suo organismo non reggerà più e morirà. È quello che, con le dovute diversità, potrebbe accadere al nostro modello di sviluppo nel caso in cui i cittadini e i leader dei paesi “più avanzati” non prendano rapidamente coscienza del fatto che il futuro dell’Occidente è davvero sulla lama di un coltello e per averlo un futuro dovrà rinunciare a quei “dogmi” che lo hanno contraddistinto nell’ultimo secolo. Almeno per gli ultimi 60/70 anni, infatti, abbiamo inseguito questo futuro con accelerazioni sempre più insostenibili che vanno dall’incremento dell’industrializzazione alla finanziarizzazione dell’economia, dal boom tecnologico all’odierna globalizzazione ed ora questo futuro è finalmente arrivato. E si presenta sotto forme spaventose. Un modello che ha puntato tutto sull’economico, rendendo marginali tutte le altre componenti dell’essere umano, provocando stress, angoscia, depressione, dipendenza da ogni sorta di droga per avere la forza di andare avanti, fallisce anche, e proprio, sull’economico. Le crisi si succedono alle crisi. Invece di rifletterci su, vengono tamponate al solito modo: immettendo nel sistema denaro inesistente. Ma un giorno, vicino, questo trucchetto non funzionerà più. La gente, sia pur confusamente, lo avverte: un modello basato sulle crescite infinite, che esistono solo in matematica, quando non potrà più espandersi imploderà su se stesso provocando una catastrofe planetaria.
Il fatto più inquietante è il senso di impotenza che scaturisce questo sistema. Nessuno, individuo o Stato, è più arbitro del proprio destino. Ognuno può aver lavorato una vita, con fatica e con onestà, e basta anche solo una piccola crepa all’interno del sistema per distruggere, d’un colpo, il proprio lavoro, la propria fatica, i propri risparmi. Il mondo occidentale (inteso in senso lato perché ormai quasi tutti i paesi sono coinvolti nel modello di sviluppo teorizzato per la prima volta da Adam Smith ed in seguito da Karl Marx) si rifiuta di capire perché considera irrinunciabili gli standard di benessere acquisiti. E allora si droga di denaro. Non comprende che se non pilota una decrescita graduale di questo benessere o quanto meno un investimento sulla risorse sostenibili nel futuro lo perderà tutto d’un colpo per quante manovre, restrizioni e sacrifici possa pretendere dalle popolazioni.
Secondo me, come avrà già potuto intuire da un’altra lettera che le avevo inviato qualche mese fa, la strada maestra da seguire, affinché gli uomini, i cittadini, la gente comune torni ad avere nelle proprie mani il destino del pianeta, è quella che l’autore del libro Indignatevi!, Stephane Hessel, indica nell’indignazione, nell’insurrezione pacifica, nel "terrorismo non-violento". E a suo parere cosa ci attende nei prossimi anni? Quale sarebbe per lei la via, anche dal punto di vista filosofico-morale più corretta ed efficace, per superare quegli ostacoli che impediscono ai Paesi di raggiungere condizioni di sviluppo accettabili e sostenibili? Dobbiamo aspettarci realmente un avvenire così cupo oppure superata questa crisi ritornerà tutto come prima? Quello che veramente ci sta a cuore è un segno positivo sul Pil annuale ed una busta paga un po’ più sostanziosa oppure una società profondamente rinnovata attraverso uno stile di vita meno frenetico e più rispettoso delle necessità degli uomini, una società equa dove tutti possono mettersi in gioco e partecipare attivamente alla Democrazia ed una società dove l’aumento del Pil significa miglioramento della qualità dell’ambiente, dell’istruzione, dei rapporti umani e della vita?


Con affetto,
Alberto Cappello IV




Caro Alberto,
Complimenti per la riflessione, impegnativa e responsabile. Individui una questione cruciale e sollevi giustamente il problema se vi sia davvero una corrispondenza necessaria tra Pil e qualità della vita. Credo che molte persone si siano chieste – dopo aver sentito da tutte le parti sottolineare l’ostentazione della crescita – se l’imperativo del progresso incessante e imprescindibile sia diventato più una condanna che un auspicio. La filosofa contemporanea Martha Nussbaum (insegna “Law and Ethics” all’Università di Chicago) ha intitolato il suo ultimo libro, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, (Il Mulino, 2012). Questo testo mi sembra che assecondi e sostenga le tue osservazioni. Nussbaum sostiene che, per liberarsi dalla “dittatura del Pil”, occorra creare capacità e non solo ricchezze. La semplice valutazione del Pil non rende infatti conto delle enormi disuguaglianze all’interno di uno Stato né del livello di vita degli abitanti. La tesi sostenuta dalla filosofa fa riferimento ad un nuovo modello noto come «approccio dello sviluppo umano» o come «approccio della capacità». In sostanza ci si chiede «cosa sono effettivamente in grado di essere e di fare le persone? Quali sono le reali opportunità a loro disposizione?». Scrive Nussbaum: «Questo nuovo paradigma ha avuto un impatto crescente presso le istituzioni internazionali che si occupano di welfare, dalla Banca mondiale allo United Nations Development Programma (Undp). Attraverso gli Human Development Reports, che dal 1990 vengono pubblicati tutti gli anni dallo United Nations Human Development Report Office, esso influenza i criteri di valutazione adottati dalla maggior parte delle nazioni contemporanee nella compilazione degli studi sul benessere dei differenti gruppi e regioni che compongono le loro società. Sono poche oggi le nazioni che non producono tali rapporti: anche gli Stati Uniti lo fanno, dal 2008». Infatti, da alcuni anni sono stati introdotti altri indicatori per la valutazione della crescita di un Paese. Uno di questi è l’ISU (l’indice di sviluppo umano). Puoi vedere la voce su wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Indice_di_sviluppo_umano) che contribuirà a chiarire questi concetti. L'Indice di sviluppo umano (HDI-Human Development Index) è un indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dall'economista pakistano Mahbub ul Haq nel 1990. Questo autore ha scritto che « La vera ricchezza di una nazione è il suo popolo. E l'obiettívo dello sviluppo è creare un ambiente che consenta alla gente di godere di una vita lunga, sana e creativa. Questa verità molto semplice, ma potente, viene spesso dimenticata nell'inseguimento della ricchezza materiale e finanziaria.» (cit. in Nussbaum, p. 11). È vero, l’aumento del Pil non aumenta automaticamente la qualità della vita, perché spesso i vantaggi della ricchezza non raggiungono le famiglie povere. La filosofa americana riporta il caso di una donna, Vasanti, di circa 30 anni che vive nello Stato del Guajarat nell’India nordoccidentale e mette in luce come in questo Stato, anche se sono cresciuti l’economia così come il Pil pro capite, poche persone riescono tuttavia ad accedere ai beni della nazione. Questa donna, moglie di un uomo alcolizzato e dedito al gioco che ha sperperato tutto il denaro della famiglia, si è sottoposta a vesectomia per ottenere un po’ di denaro che il governo offriva come incentivo alla sterilizzazione. Quando il marito è diventato violento, lei lo ha lasciato ed è tornata nella sua famiglia. Molte donne non vengono più accettate dalla famiglia e spesso finiscono sulla strada. In questo caso, una buona politica dello Stato potrebbe offrire: assistenza sanitaria, cure mediche, credito e istruzione. Davvero tutte le persone possono accedere ai beni di una nazione? Spesso, come mostra Nussbaum, le ricchezze finiscono nelle tasche di alcuni gruppi privilegiati. Quindi è vero quello che scrive l’autrice che «La crescita è buona se le politiche dei governi sono in grado di adottare azioni pubbliche in grado di incidere sulla vita dei cittadini». Il Pil infatti «guarda la media e trascura la distribuzione» e, come potrai vedere, ben dimostrato nel testo, la crescita economica non migliora automaticamente la qualità della vita in settori cruciali quali sanità, istruzione o libertà politica. Riporto due osservazioni chiarificatrici della filosofa: «L'India ha reso molto peggio della Cina in termini di aumento del Pil, eppure è una democrazia estremamente stabile, con libertà di base assolutamente garantite; la Cina no. Inoltre, i dati raccolti nei rapporti sullo sviluppo umano rivelano che la classifica nazionale basata sull'Indice dello sviluppo umano (Isu), calcolata su fattori come istruzione e longevità, non è la stessa di quella ottenuta sulla base esclusiva del Pil medio: gli Stati Uniti slittano dal primo posto come Pil al dodicesimo come Isu, ed è ancora peggio su altre specifiche capacità» (Nussbaum, p. 52). Quando si riferisce ad altre specifiche capacità, Nussbaum fa riferimento, ad esempio, all’ISG (indice di sviluppo di genere), ossia se anche le donne abbiano la stessa possibilità degli uomini di accedere all’istruzione, alla sanità e alla partecipazione politica. (Un altro grande studioso che sostiene queste idee è il premio nobel per l’economia Amartya Sen).

Riporto le 10 capacità centrali che dovrebbero essere garantite a tutti i cittadini:
«1. Vita. Avere la possibilità di vivere fino alla fine una vita di normale durata; di non morire prematuramente, o prima che la propria vita sia limitata in modo tale da risultare indegna di essere vissuta.
2. Salute fisica. Poter godere di buona salute, compresa una sana riproduzione; poter essere adeguatamente nutriti e avere un'abitazione adeguata.
3. Integrità fisica. Essere in grado di muoversi liberamente da un luogo all'altro; di essere protetti contro aggressioni, comprese la violenza sessuale e la violenza domestica; di avere la possibilità di godere del piacere sessuale e di scelta in campo riproduttivo.
4. Sensi, immaginazione e pensiero. Poter usare i propri sensi, poter immaginare, pensare e ragionare, avendo la possibilità di farlo in modo «veramente umano», ossia in un modo informato e coltivato da un'istruzione adeguata, comprendente alfabetizzazione, matematica elementare e formazione scientifica, ma nient'affatto limitata a questo. Essere in grado di usare l'immaginazione e il pensiero in collegamento con l'esperienza e la produzione di opere autoespressive, di eventi, scelti autonomamente, di natura religiosa, letteraria, musicale, e così via. Poter usare la propria mente tutelati dalla garanzia di libertà di espressione rispetto sia al discorso politico che artistico, nonché della libertà di culto. Poter fare esperienze piacevoli ed evitare dolori inutili.
5. Sentimenti. Poter provare attaccamento per persone e cose oltre che per noi stessi; poter amare coloro che ci amano e che si curano di noi, poter soffrire per la loro assenza; in generale, amare, soffrire, provare desiderio, gratitudine e ira giustificata. Non vedere il proprio sviluppo emotivo distrutto da ansie e paure (sostenere questa capacità significa sostenere forme di associazione umana che si possono rivelare cruciali per lo sviluppo).
6. Ragion pratica. Essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita (ciò comporta la tutela della libertà di coscienza e di pratica religiosa).
7. Appartenenza. a) Poter vivere con gli altri e per gli altri, riconoscere e preoccuparsi per gli altri esseri umani; impegnarsi in varie forme di interazione sociale; essere in grado di immaginare la condizione altrui (proteggere questa capacità significa proteggere istituzioni che fondano e alimentano tali forme di appartenenza e anche tutelare la libertà di parola e di associazione politica). b) Disporre delle basi sociali per il rispetto di sé e per non essere umiliati; poter essere trattati come persone dignitose il cui valore eguaglia quello altrui. Questo implica tutela contro la discriminazione in base a razza, sesso, tendenza sessuale, religione, casta, etnia, origine nazionale.
8. Altre specie. Essere in grado di vivere in relazione con gli animali, le piante e con il mondo della natura, avendone cura.
9. Gioco. Poter ridere, giocare e godere di attività ricreative.
10. Controllo del proprio ambiente. a) Politico. Poter partecipare in modo efficace alle scelte politiche che governano la propria vita; godere del diritto di partecipazione politica, delle garanzie di libertà di parola e di associazione. b) Materiale. Essere in grado di avere proprietà (sia terra che beni mobili) e godere del diritto di proprietà in modo uguale agli altri; avere il diritto di cercare lavoro alla pari degli altri; essere garantiti da perquisizioni o arresti non autorizzati. Sul lavoro, essere in grado di lavorare in modo degno di. un essere umano, esercitando la ragion pratica e stabilendo un rapporto significativo di mutuo riconoscimento con gli altri lavoratori» (Nussbaum, pp. 39-40).

Un caro saluto,
alberto

domenica 1 aprile 2012

Dire le cose ai bambini


Caro professore,
Perché è così difficile? La domanda è nata dalla mia testa ieri. Stavo leggendo il libro di Gramellini “Fai bei sogni”, dove l’autore racconta la sua infanzia e di come ha vissuto la precoce scomparsa della madre. A lui per quarant’anni è stato tenuto nascosto il modo in cui la madre è morta, ma ancor peggio al momento della morte nessuno gli ha detto che lei era morta, ma hanno inventato scuse, perché? Ieri, incuriosita, ho chiesto a mia mamma, alla quale è successa la stessa cosa, e lei mi ha risposto che spesso è l’ignoranza a far sì che la gente non riesca a parlare ai bambini, ma secondo me c’è di più.
Chiara


Cara Chiara,
Spiegare alcune questioni ai bambini crea grandi difficoltà agli adulti. Perché i bambini chiedono ragioni e non sempre le ragioni degli adulti sono sensate. Ma come si fa a raccontare la disperazione di una mamma che si toglie la vita a un bambino? Ad un bambino si può raccontare il dolore, ma non la disperazione. Si può parlare del dolore, perché attraverso l’empatia egli si può rendere conto che anche le altre persone soffrono come lui, poiché il dolore dell’altro ha un’analogia con il proprio dolore. Il bambino può sentire che un uomo soffre, comprenderne la tristezza, perché ha sperimentato su di sé sofferenza e tristezza. Ma non può afferrare la disperazione, perché la disperazione non è assimilabile al suo sentire. È fuori misura e dunque egli non la può immaginare, afferrare, contenere. Può cogliere un dolore più o meno forte, ma non ciò che eccede quella natura: non ha termini emotivi di paragone, né riferimenti personali, né parole. Qualche giorno fa ho letto su «La Stampa» un articolo di Ferdinando Camon (1935) (puoi rileggerlo interamente sul suo sito: http://www.ferdinandocamon.it/articolo_2012_03_15_22BambiniMorti.htm) in cui il giornalista e scrittore padovano rifletteva sulla morte dei 22 bambini in pullman in Svizzera. Camon scriveva che «Non ci sono gradazioni alla disperazione, perché la disperazione è lo stadio estremo del dolore». ("La Stampa" 15 marzo 2012). Proprio così. Se ci può essere corrispondenza nel dolore tra un bambino e un adulto, non c’è nella disperazione, perché questa apre ad un altra dimensione della vita, alla sua irrazionalità e al naufragio di ogni senso. Se già da adulti è difficile vivere accettando il fatto che talvolta il senso della vita naufraga (quando si perdono persone care, quando si viene lasciati in una relazione, quando la vita dirotta improvvisamente i progetti per l’avvenire e impone con risolutezza percorsi obbligati detestabili), quando si è bambini è inaccettabile. L’adulto o accetta la tragicità della vita o trova un rimedio in qualche ideologia o in una visione onnicomprensiva di qualche religione, oppure può trasformare la consapevolezza ineluttabile dell’assenza di senso in “male di vivere”. Al bambino non è dato comprendere il tragico, perché il tragico ha che fare con la razionalità, con il pensiero dell’assenza di senso, mentre per il bambino le cose hanno sempre senso.
Allora, facendo riferimento a libro di Massimo Gramellini, Fai bei sogni (Milano, Longanesi, 2012) che tu hai appena letto, puoi vedere quante difese mette in atto chi è piccolo. Nega: «ero solo un bimbo istupidito dal dolore che continuava a negare la morte di sua madre» [...] «la morte per me non esisteva ancora»; fugge: «ombra ineluttabile di morte da cui ero scappato per tutta la vita»; sente l’ingiustizia come inammissibile: «Eppure la morte precoce di una madre rimane un’ingiustizia inconcepibile»; immagina l’egoismo di chi ha troncato prematuramente la relazione: «la mamma se n’era infischiata di me. Aveva pensato solo a se stessa», sente di non essere amato «Sveva amava un figlio più grande che aveva cresciuto dopo la morte del marito. Neanche per lei sarei mai stato il primo della lista»; sente che forse non è neppure più possibile sopravvivere a quell’abbandono: «la mia passione per le vite degli altri è sempre dipesa dal desiderio inconsapevole di scoprire come fossero riusciti a sopravvivere al primo impatto con il dolore».
Il bambino non può contenere l’angoscia, l’angoscia originata dalla disperazione che per il bambino si trasforma nell’angoscia estrema di non meritare l’amore e soprattutto l’amore della mamma. Percepisce un rifiuto di sé, il rifiuto della relazione, perché gli viene sottratto ciò che alimenta la sua vita. Forse un bambino può anche capire che un adulto non è più padrone di sé, ma solo se quell’adulto non è il suo punto di riferimento per tutto.
Certo, bisogna sempre trovare il modo per parlare con i bambini, ed è giusto cercare di contenere le loro angosce in quadri di senso comprensibili, ma forse ci sono cose che è bene non svelare, per il semplice fatto che non possono essere accettate emotivamente né comprese razionalmente. Perché quando il senso della vita di un adulto deflagra, nel corpo del bambino esplode la vita stessa che, grazie alla madre, cominciava ad acquisire un senso.
Un caro saluto,
alberto