Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 22 febbraio 2021

Conosci te stesso 2/3

 


Se la tradizione culturale e la storia famigliare contribuiscono alla formazione di ciò che siamo, per conoscere noi stessi dovremmo – seguendo il suggerimento di Aristotele – avere un’idea della materia di cui siamo composti, ma soprattutto stabilire l’essenza che ci definisce, ossia individuare ciò che ci contraddistingue e ci rende unici. A dire il vero, la partenza è difficoltosa, perché già della materia sappiamo poco. Per carità: tessuti, ossa, sangue, fluidi corporei. Le radiografie talvolta svelano anche qualche anomalia della parte interna del corpo: un rene a ferro di cavallo, la maggiore o minore salute dei polmoni, l’inquietante ispessimento di qualche vena. Anche se siamo sinceramente interessati a questa conoscenza, e affascinati soprattutto dalla complessità dell’assetto biologico che ci compone, tuttavia, quando vogliamo sapere chi siamo, non ci riferiamo solo alla natura organica, ma ci chiediamo o in termini generali: «che cos’è l’uomo?» (la sua essenza), o in termini particolari: «chi sono io veramente?», «chi è questo soggetto che parla, pensa, sente e vuole?» (la mia essenza). La prima domanda arriva da lontano: è quella che pone l’autore del Salmo 8 della Bibbia rivolgendosi a Dio. «Che cos’è l’uomo perché ti ricordi di lui? Che cos’è il figlio d’uomo, perché di lui ti prenda cura?». Essa tiene aperto un rapporto con l’infinito o con Dio. I Greci concepivano l’essenza dell’uomo in modo diverso, perché consideravano l’uomo una creatura caduca. E il motto «Conosci te stesso» non indicava ovviamente la padronanza di nozioni anatomiche, ma neppure una conoscenza introspettiva di sé, come oggi, spesso, si tende a credere. Jean-Pierre Vernant, uno dei grandi studiosi del mondo antico, ne “L’uomo greco” ricorda che «Conosci te stesso» non raccomandava il ripiegamento dell'uomo su se stesso per scoprire un presunto “vero” io, una sorta di identità profonda del soggetto. Egli spiega che il motto dell’oracolo voleva dire: «impara a conoscere i tuoi limiti, sappi che sei un uomo mortale, non cercare di metterti sullo stesso piano degli dei». Gli uomini sono dunque chiamati ad avere ben presente che la loro esistenza è effimera e che il tempo della loro progettazione e del loro agire è circoscritto. Questo concetto verrà ripreso qualche secolo dopo anche da Lucio Anneo Seneca. Nella “Consolazione a Marcia”, nel tentativo di lenire alla donna il dolore per la morte del figlio, il filosofo scrive: «E che cosa è questo dimenticare la condizione tua e di tutti? Sei nata mortale ed hai partorito dei mortali; sei un corpo infermo e caduco, pieno di disturbi, e ti sei illusa di portare, in un materiale tanto debole, degli esseri robusti ed immortali?». Più avanti le sue parole diventano memorabili: «Che cos'è l'uomo? Un vaso che può andare in frantumi ad ogni scossa e ad ogni mossa. Non occorre una grande bufera per disperderti: al primo cozzo, ti sfascerai. […] E ci stupiamo che codesto essere subisca la morte, conseguenza di un solo rantolo? Per farlo cadere, ci vuole forse un grande sforzo? Un odore, un sapore, la stanchezza, la veglia, una bevanda, un cibo, una di quelle cose senza le quali non può vivere, possono dargli la morte». Nel nostro tempo, Elie Wiesel, nel libro “Le porte della foresta”, ha usato parole meravigliose per accennare all’ambivalenza della natura umana che oscilla tra dramma e bellezza. Egli scrive che l’uomo, da una parte, è «speranza divenuta polvere», ma poi afferma che è vero anche il contrario, ossia che esso è «polvere divenuta speranza». A questo punto, se è difficile stabilire l’essenza generale dell’uomo, cosa possiamo dire su quella specifica di ogni individuo? Che cosa significa «Conoscere se stessi?». Il problema della conoscenza di sé ci espone subito ad alcune difficoltà. Mentre gli oggetti, in genere, non mutano la loro essenza: una biro continua ad essere una biro nel corso degli anni; può funzionare o meno, ma non può decidere di sé e alterare la propria struttura. Così un albero di albicocco. Può portare frutti o seccare, ma non cambiare la propria natura. L’uomo, invece, non ha un’essenza predefinita e non si determina una volta per tutte. Ogni essere umano ha persino una diversa comprensione di sé a dieci, a trenta o a cinquanta anni. È un fatto che dipende dalla crescita fisica, dalle relazioni interpersonali, dalle letture, dalla formazione, dalla cultura, dai successi e dagli insuccessi nella professione e nella vita di relazione, dalle scelte e da infiniti altri aspetti. Ogni elemento modifica l’essenza dell’uomo e ostacola una comprensione definitiva. Conoscere se stessi è più problematico che conoscere un oggetto finito e immutabile nel tempo. La prescrizione dell’oracolo sollecita allora una sorta di «conoscenza itinerante» che accompagna ogni momento della vita. In fondo, non finiremo mai di conoscere veramente chi siamo. Ci sono situazioni in cui scopriamo le nostre debolezze o il nostro coraggio: di fronte ad una malattia o a situazioni logoranti. Come ci saremmo comportati in guerra o in un campo di concentramento? In genere la narrazione che ognuno dà di sé è positiva. Blaise Pascal diceva che «lavoriamo incessantemente ad abbellire e conservare il nostro essere immaginario»: siamo buoni lavoratori, buoni genitori, buoni amici, buoni mariti o compagni. Ma quando cambia il contesto, scopriamo altri aspetti di noi. Possiamo fidarci del nostro sguardo per comprendere chi siamo?

Un caro saluto,

Alberto

lunedì 15 febbraio 2021

Conosci te stesso 1/3

 




È probabilmente il più famoso dei motti antichi. Era scritto sul tempio di Delfi, ed è considerata la più saggia prescrizione per avere una buona vita: da Talete – uno dei Sette Savi a cui Diogene Laerzio attribuisce la citazione – a Socrate, a cui risale la nostra prima conoscenza scolastica. Nel corso della storia è stato variamente interpretato. Aristotele diceva che per conoscere qualcosa dobbiamo partire dalle cause. Se voglio conoscere la statua di Apollo è necessario che individui la materia di cui è composta (causa materiale), la sua essenza – Apollo –, ossia ciò che la distingue da altri protagonisti (causa formale); ma diceva che può essere utile anche sapere chi l’ha fatta (causa efficiente) e per quale motivo (causa finale). Ora, oggi sappiamo che la scienza ha fatto un passo in avanti per spiegare i fenomeni naturali, concentrandosi solo sulla causa efficiente. È il modo corretto per acquisire nuove nozioni nell’ambito della fisica: ci si chiede come viene prodotto un fenomeno e non per quale scopo si verifica o quale sia la sua essenza. Ma nel tentativo di comprendere se stessi può essere utile ripercorrere il sentiero tracciato da Aristotele e considerare le molteplici dimensioni che concorrono a formare un individuo. Ho pensato di dividere questa riflessione in tre parti: una legata alla causa efficiente, l’altra legata all’essenza dell’uomo (e alla materia) e l’ultima alla finalità che gli uomini si danno per vivere. Va da sé che è difficile conoscere se stessi, per la semplice ragione che ogni essere umano cambia nel corso del tempo e si conosce a partire dalla cultura collettiva e famigliare, dalla genetica e dal temperamento, ma anche dagli scopi che attribuisce alla proprio percorso nel mondo. Per conoscere se stessi è importante il passato? In un certo senso sì, certamente; perché consente una sorta di epifania sull’origine e dunque contribuisce in modo rilevante alla comprensione di sé. C’è un passato collettivo e c’è un passato individuale. Ognuno di noi vive in una cultura e in una tradizione: Italiani, Cinesi, Egiziani non hanno lo stesso retroterra culturale. Dobbiamo pertanto tenere conto della formazione collettiva, perché di solito gli uomini si descrivono e si orientano all’interno di grandi tradizioni. I filosofi le chiamano grandi narrazioni del mondo («metanarrazioni»). Il filosofo Umberto Galimberti ha tradotto questo concetto in questo modo: «Quando il mondo era descritto religiosamente eravamo "religiosi", quando era descritto razionalmente eravamo "illuministi", ora che è descritto in modo multimediale siamo perennemente "esposti" e al tempo stesso avvolti da quel volume di immagini e parole in cui ciascuno può reperire una sua provvisoria identità, un proprio nome per un giorno». La tradizione in cui ci troviamo ci fornisce il quadro entro cui comprendiamo chi siamo e il senso del mondo. È pertanto molto importante conoscere il passato che ci ha formati. Ma c’è anche una storia individuale da cui si origina un’ulteriore acquisizione. Il latinista Ivano Dionigi, in “Eredi. Ripensare i padri” (Bur 2012), ha offerto un bellissimo esempio tratto dall’ “Odissea”. Nel primo libro dell’opera, al suo arrivo in Itaca la dea Atena – sotto le sembianze dell’eroe Mentes – si imbatte in Telemaco, il giovane figlio di Odisseo. Mentes pronuncia queste parole: «Ma tu dimmi questo, e parlami senza menzogne, / se tu, così grande, sei figlio suo, sei il figlio di Odisseo. / È straordinario quanto nel volto, negli occhi belli sei simile / a lui». E Telemaco risponde: «mia madre mi dice nato da lui; ma io, per me, / non lo so: nessuno da solo conosce il suo seme». Nessuno da solo conosce il suo seme, ma quando la discendenza viene rivelata, ogni persona instaura una relazione con il proprio padre e con la propria vicenda famigliare. Questo permette di intuire anche una parte della propria vita: quella che si riceve dai genitori e che nello stesso tempo influenza e plasma l’individuo. Lo storico Alessandro Barbero, nell’ultimo libro dedicato a Dante (Laterza 2020), ricorda che «Quando Dante, nel X dell’Inferno, incontra un esponente di quella che a Firenze era considerata la più antica e orgogliosa nobiltà cittadina, gli Uberti, l’interlocutore, che non lo conosce, gli chiede per prima cosa da che antenati discende: “Chi fuor li maggior tui?” (Inf. X 42)». E più avanti spiega che: «Si può essere nobili in due modi: o perché si è virtuosi, o perché i propri maggiori sono stati virtuosi». Si appartiene dunque necessariamente ad una tradizione. Ma un uomo può aver ereditato dai propri avi sia del prestigio sia del disprezzo. Dagli antenati si eredita sempre qualcosa: non solo la genetica, dunque, ma anche una storia più o meno edificante. Anche in modo inconsapevole. Il filosofo tedesco Günther Anders, allievo di Heidegger, a partire dalla fine degli anni Sessanta inviò un paio di lettere a Klaus Eichmann, il figlio del criminale nazista Adolf Eichmann (“Noi figli di Eichmann”, Giuntina 2007). Anche questo giovane aveva ereditato una storia, purtroppo non certo edificante. Anders scrisse che «l’origine non è una colpa», ma sapeva bene che anche Klaus avrebbe dovuto fare i conti con la realtà da cui proveniva. Almeno per prenderne le distanze e per costruire la propria vita in modo libero e responsabile.

Un caro saluto,

Alberto

lunedì 8 febbraio 2021

So di non sapere

 


Il motto di Socrate non vale per accattivarsi i docenti durante un’interrogazione: «prof., come Socrate, so di non sapere», attendendo una valorizzazione di quanto timidamente esposto. In realtà, quando studente e docente si relazionano per indagare una tematica, entrambi sono consapevoli di non sapere. Forse lo studente è più concentrato su ciò che non ricorda della trama del libro, mentre il docente sa che ogni sintesi è una sistematizzazione più o meno sommaria della questione che si sta affrontando. Ed è ben consapevole che gran parte dell’argomento sfugge anche alla sua conoscenza, per quanto sondata e approfondita di anno in anno in tante letture. Nell’ “Apologia di Socrate”, scritta da Platone, si narra che Cherefonte un giorno chiese alla Pizia – la sacerdotessa di Apollo che dava i responsi nel tempio di Delfi – se vi fosse qualcuno più sapiente di Socrate. La Pizia rispose che nessuno era più sapiente di lui. Socrate stesso è stupito e porta a testimonianza del responso dell’oracolo persino il fratello di Cherefonte che è presente mentre egli sta narrando questa storia ai suoi interlocutori. Socrate, però, non è ingenuo e si chiede: «Che cosa mai vuole dire il dio? che cosa nasconde sotto l’enigma?». Già, perché in fondo si tratta di un enigma: tutti sanno che solo il dio è sapiente e Socrate professa apertamente di non sapere. Così inizia la sua ricerca («assai contro voglia»). Egli si reca da coloro che hanno la fama di essere sapienti con l’obiettivo di smentire l’oracolo, mostrando che vi sono persone più preparate di lui. Comincia ad interrogare un politico, «un brav’uomo» («era uno dei nostri uomini politici»). Socrate, tuttavia, si rende conto che il politico interrogato non è sapiente e prova a farglielo capire. Il risultato, ovviamente, è disastroso («venni in odio»). La conclusione di Socrate è che «quell’uomo credeva di sapere e non sapeva» […] «io invece, come non sapevo, neanche credevo sapere; e mi parve insomma che almeno per una piccola cosa io fossi più sapiente di lui». Poi si reca dai poeti, da quelli che scrivono tragedie e ditirambi, ma comprende che gli uomini che lo accompagnano ragionano meglio dei poeti stessi proprio sui temi che essi trattano con apparente abilità. Allora si reca dagli artisti, ossia dagli artigiani. Chi possiede un’arte è certamente sapiente in qualcosa. Tuttavia crede di essere sapientissimo anche su altri argomenti più complessi. Socrate deve concludere che «il difetto di misura oscurava la loro stessa sapienza». Oggi potremmo dire che anche artigiani, scienziati,  tecnici e professionisti in generale possono cadere nella presunzione di sapere. Possedere ottime competenze in un determinato settore non è garanzia di saggezza su altri aspetti della vita: la conoscenza di se stessi, del bene individuale o collettivo. Il filosofo danese Sören Kierkegaard, nella tesi di laurea intitolata “Il concetto di ironia in riferimento a Socrate” (1841), ricorda che si può fingere di non sapere sapendo che non si sa, oppure si può fingere di non sapere sapendo che si sa. L’astuzia di Socrate è dunque una forma di ironia funzionale a decostruire le tesi dell’avversario per mostrare il proprio sapere o è un’ironia quasi naturale e genuina? Uno dei fondatori del Romanticismo, Friedrich Schlegel, considera l’ironia socratica come «involontaria», perché, secondo l’autore, è propria di chi interroga sapendo davvero di non sapere. E Sören Kierkegaard ritiene che «Il sapere di non sapere niente non è cioè, come normalmente s’immagina, il nulla puro e vuoto, ma il nulla del contenuto determinato». Egli intende dire che ogni contenuto finito è mancante, e che la formula “sapere di non sapere” è una forma di sapienza che come un fuoco tiene viva la ricerca in ogni uomo. Il numero delle stelle è pari o dispari? «So di non sapere», potremmo dire. Ma c’è un numero che le può numerare. E i numeri sono pari o dispari: quindi è possibile che prima o poi questa informazione sia disponibile. Ci sono così lacune che si possono colmare, conoscenze che si possono acquisire. Ma l’intento di Socrate è mostrare che la struttura umana è fatta in modo tale che non può giungere ad una definitiva e ultima conoscenza della realtà e dell’uomo stesso. Il vero ignorante è dunque colui che si accontenta di un nozionismo di superficie: non approfondisce e non sente il bisogno di indagare ulteriormente una problematica o un’esperienza. Per Socrate non esiste un sapere definitivo: di sé, dei valori e della vita. L’uomo deve lasciare aperta la porta della ricerca. Da questo punto di vista, anche la frase «Conosci te stesso» è un «enigma» o una prescrizione impossibile da realizzare. Perché ogni pretesa di ridurre al finito quell’anima infinita di cui diceva Eraclito è impossibile. Non c’è sapere definitivo neppure di sé stessi. Ci sono accenni, tracce di lettura, ma nessuna pretesa di esaurire la conoscenza. Altri filosofi diranno che le strutture stesse della nostra mente non è detto che siano uno specchio perfetto della realtà. Allora: «Ignoramus et ignorabimus», «ignoriamo ed ignoreremo», diceva Du Bois-Reymond nella seconda metà dell’Ottocento (1872). Ma è grazie a questa ignoranza gravida di sapere che gli uomini alimentano la loro imprescindibile e dinamica tensione per la conoscenza.

Un caro saluto, 

 Alberto