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Cor-rispondenze

lunedì 27 dicembre 2021

Homo homini lupus

 




Nella commedia “Asinaria” di Plauto (III sec. a. C.) due servi si spacciano per amministratori di una donna e riescono a sostituirsi a lei e a portare a compimento un furto ai danni di un mercante che le doveva venti mine d’argento. Il mercante, all’inizio assai titubante, prima di essere raggirato si rivolge ad uno dei servi dicendo: «Tuttavia oggi non mi convincerai mai ad affidarti questo denaro senza conoscerti. Quando un uomo non si sa di che pasta sia, non è un uomo, ma un lupo per l’altro uomo». Tale proposizione ha avuto molto successo nella storia della filosofia ed è stata ripresa da Thomas Hobbes all’inizio dell’opera “De Cive”, “Il cittadino”, nella lettera dedicatoria al conte William Cavendish. Non è una frase a sé stante, ma è collegata ad un’altra curiosamente di segno opposto. Scrive Hobbes, citando probabilmente un detto antico: «si afferma con verità sia che l’uomo è per l’uomo un dio, sia che l’uomo è per l’uomo un lupo». Per comprendere questa espressione dobbiamo tenere presente che il filosofo distingue tra “uomo naturale” e “uomo artificiale”. Il primo è l’essere umano che vive separato dalla comunità, il secondo è invece lo Stato che è composto dalla somma di tutti gli individui e ha la forza, attraverso le leggi e i suoi organi fondamentali, di far rispettare le proprie disposizioni e la propria volontà. Se si osserva il frontespizio dell’opera principale, “Il Leviatano” (1651), si scopre che lo Stato è raffigurato come un gigante realizzato con le teste di tutti gli individui disposte come in un mosaico. Il gigante regge in una mano una spada, simbolo del potere temporale, e nell'altra il pastorale, simbolo del potere religioso, per mostrare come – nella concezione dell’autore – i due poteri non debbano essere divisi. Così, «l’uomo è per l’uomo un dio» significa che “l’uomo artificiale”, ossia lo Stato con a capo un sovrano è come un dio per tutti i sudditi; infatti, scrive il filosofo: «giunge ad assomigliare a Dio per la giustizia e la carità, le virtù della pace», mentre “l’uomo naturale” che vive al di fuori della comunità è invece una minaccia per la specie stessa, perché «a causa della protervia dei malvagi, anche i buoni devono ricorrere, se vogliono difendersi, alla forza e all’inganno, le virtù della guerra; cioè, alla ferocia delle belve». È infatti assai probabile che nelle innumerevoli contese quotidiane anche i buoni debbano talvolta trasformarsi in lupi per poter sopravvivere. Hobbes è interessato alla formazione dello Stato, perché è consapevole che fuori dallo stato civile vige sempre l’ingiustizia: la condizione naturale appare essere quella di tutti contro tutti («bellum omnium contra omnes»). Gli uomini vivono tuttavia senza sicurezza: la loro incolumità e la possibilità di sopravvivenza sono garantite, ma solo provvisoriamente, dalla forza individuale e dalle capacità inventive di sfuggire ai pericoli. In questa situazione ogni attività produttiva è incerta: si agisce nel continuo timore della morte violenta e la vita è «solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve». Già, è anche breve, perché per quanto uno si armi o sia ben difeso dai soldati ci sarà sempre qualcuno più forte che lo può aggredire e uccidere. Per quanto si chiudano a chiave le porte e si serrino i forzieri nessun uomo e nessuna ricchezza saranno mai al sicuro. Una condizione che assomiglia molto a quella dei gladiatori che stanno con le armi puntate e gli occhi guardinghi fissati uno sull’altro quasi paralizzati per non soccombere. Anche la società può cadere in una situazione di stallo: il lavoro è sospeso, le attività si interrompono, la vita si ferma. C’è bisogno di una giustizia certa, anche imposta con la forza. Ora, dobbiamo tenere conto che la giustizia e l’ingiustizia, secondo Hobbes, non sono facoltà del corpo e della mente, come i sensi e le passioni. Sono qualità relative agli uomini che vivono in società e non in solitudine. Così, grazie alla ragione gli uomini scoprono progressivamente tre “leggi di natura” che possono consentire loro l’uscita dalla condizione di anarchia: occorre vivere in pace, rinunciare al diritto di tutti su tutto, ed è necessario rispettare i patti. L’essere umano, tuttavia, è anche fragile, sottoposto a desideri, passioni, sogni e interessi che gli impediscono di attuare spontaneamente quelle raccomandazioni naturali e razionali. Gli uomini devono allora fare un patto tra di loro e si devono sottomettere ad una forza più ampia: il gran “Leviatano”  una “Comunità Politica” o “Stato” (in latino “Civitas”) «il quale non è altro che un uomo artificiale di statura e di forza maggiore di quello naturale creato a protezione e a difesa dell’uomo naturale». Questo per consentire a tutti di vivere in concordia e di perseguire i propri obiettivi. Se spostiamo questa riflessione su un piano di politica internazionale, possiamo considerare ogni singolo Stato come un «grande individuo in mezzo a una pluralità di grandi individui». Come fa notare il filosofo Sossio Giametta tra gli Stati «intercorrono […] gli stessi rapporti meramente naturali (selvaggi) che intercorrerebbero tra gli individui se questi non fossero collegati in uno Stato». Come gli individui, anche gli Stati si ritroverebbero nella condizione dell’«homo homini lupus», perché se decidessero di non accettare dei vincoli internazionali la loro coesistenza dipenderebbe esclusivamente dalla potenza. Questa situazione avrebbe preoccupato Hobbes, ma oggi assilla anche ognuno di noi.

lunedì 20 dicembre 2021

Cogito, ergo sum 3/3

 



 

Se abbandoniamo la strada del «cogito» tracciata da Cartesio –, che procede prima a mostrare l’esistenza di una «cosa pensante», poi si inerpica fino alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, e una volta dimostrata tale esistenza scopre che Dio, in quanto «fonte della verità», garantisce che la realtà che si presenta ai nostri occhi non è effimera e simulata come quella di Matrix, ma è unica e attendibile –, ci rendiamo conto che molti filosofi e scrittori hanno utilizzato la locuzione inventata dal filosofo con infinite varianti. Dalla più antica: Dubito, ergo sum, di S. Agostino, fino ad arrivare ad Amo, dunque sono (1927), titolo del romanzo di Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio), la poetessa e narratrice italiana del secolo scorso che si è occupata molto della condizione femminile. Le varianti sono tante: Cogito ergo soffro, quando il pensiero amplifica il dolore: una dimensione indagata in ambito psicoterapeutico da parte di Giorgio Nardone e Giulio De Santis; Non cogito ergo digito, titolo del romanzo dello scrittore Antonio Rezza, ma che ricorda le frettolose sentenze generate sui social come reazione immediata a qualche notizia; oppure Sum, ergo cogito, del fisico Nicola Dallaporta Xydias, il quale, invertendo le parti, sottolinea come prima venga l’essere e poi il pensiero; fino a Cogito, ergo amo di Antonio Maurizio Cirigliano, ove solo la comprensione della realtà ad un livello meno egoistico e antropocentrico può disporre all’amore del prossimo e del pianeta. Al di là delle ragionevoli e intelligenti combinazioni tra verbi che vengono accostati con l’obiettivo di sollecitare nuove riflessioni, il percorso prende una piega curiosa quando viene rivisitato in chiave religiosa o semplicemente esistenziale. Il teologo svizzero Karl Barth ha riformulato il detto cartesiano alla forma passiva: non «cogito», ossia «penso», ma «cogitor», «sono pensato». L’effetto è meraviglioso: «Sono pensato, quindi esisto», oppure «sono amato, quindi esisto». Per il mondo cristiano, infatti, l’uomo è pensato e amato da Dio. Il teologo italiano Bruno Forte, in “Parola e silenzio nella riflessione teologica” scrive infatti: «Non è più possibile dire: Cogito ergo sum. Dovremmo dire piuttosto: Cogitor ergo sum; amor ergo sum. Io esisto non perché penso, non perché amo, ma perché scopro di essere pensato, di essere amato. Scopro che la mia casa non è la mia, ma è la casa dell' Altro in cui io esisto, da cui io vengo. Nell'abisso del silenzio di esistere, io scopro di essere donato a me stesso». Nel mondo cristiano l’esistenza è concepita come un dono che Dio fa all’uomo e grazie al pensiero l’uomo può scoprire l’amore che Dio ha per lui. A partire da questa fonte originaria di amore egli ricava la forza per generare altro amore nei confronti del prossimo. Accanto a questa dimensione che apre alla trascendenza se ne affianca un’altra esclusivamente umana. Sappiamo quanta energia si ricava dall’essere immaginati, pensati e amati e dall’avvertire profondamente tali sensazioni. La certezza di esistere – che consiste nell’intuire la nostra dignità e di essere importanti almeno per qualcuno – è infatti data dal riconoscimento dell’altro: ne abbiamo bisogno sia per acquisire un’identità sia per identificarci in un gruppo. L’esperienza del riconoscimento da parte dell’altro fortifica l’idea che ognuno si fa di sé, esattamente come l’esperienza del disconoscimento fa soffrire e annulla l’individuo, perché lo isola, lo emargina e lo esclude da ogni possibile condivisione. Il primo approccio compone l’identità, il secondo la nega. Una poesia di Ángel González Muñiz, poeta spagnolo del secolo scorso, tratta dalla raccolta “Aspro mondo” e intitolata “Morte nell’oblio” esprime bene questo concetto. Scrive l’autore: «So di esistere / perché tu mi immagini. / Sono alto perché tu mi pensi / alto, e sincero perché mi guardi / con occhi buoni, / con sguardo sincero. / Il tuo pensiero mi rende / intelligente e nella tua semplice / tenerezza anch’io sono semplice / e generoso. / Se tu però mi dimenticassi / io morirei senza che nessuno / se ne accorgesse. Vedranno la mia carne / vivere, ma sarà un altro uomo / – mediocre, goffo, malvagio – ad abitarla...». Ogni essere umano cresce nell’immaginazione dell’altro, se qualcuno ne avverte le potenzialità e aiuta a scoprirle. Tuttavia, la studiosa Ursula Frohne, in risposta alla diffusione delle webcam, ha teorizzato che oggi «essere è essere visti». È utile allora leggere parallelamente il libro dello psichiatra Giovanni Stanghellini, “Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro”. L’autore riflette sul fatto che oggi non è più il cogito a garantire l’esistenza; egli muta il detto cartesiano in: «Videor, ergo sum», «sono visto, dunque sono», in quanto, secondo l’autore, la «fame d’esserci» viene oggi compensata dalla «bulimia dell’immagine». Facendo riferimento a Sartre, egli ricorda che «si può sentire, fare esperienza del proprio corpo in quanto ente guardato da un’altra persona». Lo sguardo degli altri diventa allora la condizione necessaria per sentire se stessi. Non siamo dunque più in grado di avvertire la nostra esistenza senza essere attraversati dallo sguardo dell’altro. È l’ultima frontiera per avere la certezza di esistere? Secondo Wendy Chun, forse no, perché nell'era dei social media «essere è essere aggiornati». La vera esistenza si avverte se si è al passo con il mondo, se si è perfettamente inseriti nel presente: informati, ammodernati. O forse, semplicemente: integrati.   

Un caro saluto,

Alberto  

 

lunedì 13 dicembre 2021

Cogito, ergo sum 2/3

 


C’è un’unica certezza che neanche il dubbio può intaccare: l’evidenza di esistere. Ma che cosa esiste esattamente? Un uomo? Un corpo? In realtà potremmo ancora ingannarci sui risultati delle nostre percezioni e dietro l’angolo potrebbe sempre esserci il genietto maligno che si beffa di noi. Per ora possiamo solo affermare che c’è «qualcosa che pensa». Per poter dubitare, ed eventualmente essere ingannati su tutto, occorre necessariamente che qualcosa esista, anche nella sola forma del pensiero. “Io penso, dunque io esisto” non è però il frutto di un ragionamento – di un sillogismo –, ma è un’intuizione immediata della mente – come una luce che illumina l’esistenza di una realtà nel momento in cui si accende – tanto che nelle “Meditazioni metafisiche” (1641) l’autore abbrevierà ancora l’espressione in un laconico: “io sono, io esisto”. Ma per quanto tempo? Beh, abbiamo la certezza di esistere almeno per tutto il tempo in cui pensiamo. Quella cosa che pensa è tuttavia anche «una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente». Di cosa parliamo quando parliamo della coscienza «che ci abbandona alla sera quando ci addormentiamo e ricompare al mattino quando ci svegliamo»? Cartesio ha immaginato l’esistenza di una “cosa pensante” completamente separata dal corpo: «una sostanza la cui intera essenza o natura non è che pensare, e che, per essere, non ha bisogno di alcun luogo, né dipende da alcuna cosa materiale. Cosicché questo io, ovvero l’anima per la quale sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo ed è anche più facile a conoscersi di esso e, quand’anche il corpo non esistesse, l’anima non cesserebbe di essere tutto ciò che è». Nella IV parte del “Discorso sul metodo”, egli afferma che ad un certo punto della propria ricerca ha constatato il fatto che il pensiero e il corpo sono due nature completamente diverse. Le ha chiamate “sostanze”, per indicare due oggetti eterogenei: il pensiero, è denominato “res cogitans”, il corpo, “res extensa”. Cartesio ha concepito il pensiero incorporeo, e non fisico; aspaziale, a differenza della materia che ha estensione ed è riconducibile alle tre dimensioni; libero, mentre gli oggetti della fisica sono sottoposti alle leggi della natura e dunque meccanicamente determinati; consapevole, a differenza della materia che è ignara di esistere e di ciò che accade. Anche il tempo funzionerebbe in modo diverso per queste due realtà: se nella fisica scorre in un’unica direzione, il pensiero non sembra essere sottoposto ad alcun vincolo e si può muovere avanti e indietro affrancandosi ancora una volta dalla modalità a cui è sottoposta la materia. Nell’era dei computer, non si poteva certo escludere la metafora del cervello come hardware, la macchina e della mente come software, il pensiero, la coscienza. Già, ma se si segue l’esempio di Cartesio e li si considera strutturalmente eterogenei allora è difficile che possano interagire. Il filosofo britannico Gilbert Ryle in “Il concetto di mente” nel 1949 ha qualificato questo modo di considerare il rapporto mente e corpo con l’immagine dello «spettro nella macchina» e ha rigettato tale idea come un «mito». Il premio Nobel per la medicina, Gerald M. Edelman, ha invece ritenuto che le nuove ricerche sulla mente dell’inizio del secolo scorso avrebbero condotto ad una «rivoluzione scientifica di più ampia portata». E così è stato: le neuroscienze hanno mostrato che la mente è un prodotto dell’evoluzione e non è una “sostanza” in senso cartesiano. Più che due cose diverse, oggi si tende a pensare che la mente sia un processo e non una cosa o un oggetto immateriale. Il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, ha curiosamente intitolato un libro “L’errore di Cartesio”. In quest’opera egli ricorda semplicemente che prima viene il corpo (l’essere) e poi gradualmente l’attività del pensiero. Scrive pertanto: «A un certo punto dell'evoluzione, una coscienza elementare ebbe inizio. Con essa arrivò una mente, semplice; aumentando la complessità della mente, sopravvenne la possibilità di pensare e, ancora più tardi, di usare il linguaggio per comunicare e organizzare meglio il pensiero. Per noi, allora, all'inizio vi fu l'essere e solo in seguito vi fu il pensiero; e noi adesso, quando veniamo al mondo e ci sviluppiamo, ancora cominciamo con l'essere e solo in seguito pensiamo. Noi siamo, e quindi pensiamo; e pensiamo solo nella misura in cui siamo, dal momento che il pensare è causato dalle strutture e dalle attività dell'essere». Presentando i risultati dell’attività della propria ricerca, egli sottolinea il malinteso di Cartesio dicendo: «Eccolo, l’errore di Cartesio: ecco l’abissale separazione tra corpo e mente - tra la materia del corpo, dotata di dimensioni, mossa meccanicamente, infinitamente divisibile, da un lato, e la “stoffa” della mente, non misurabile, priva di dimensioni, non attivabile con un comando meccanico, non divisibile; ecco il suggerimento che il giudizio morale e il ragionamento e la sofferenza che viene dal dolore fisico o da turbamento emotivo possano esistere separati dal corpo. In particolare: la separazione delle più elaborate attività della mente dalla struttura e dal funzionamento di un organismo biologico». Egli ricorda che l’uomo è un’unità psico-fisica. Spinoza l’aveva capito. Ed è per questo che il neurobiologo, evidentemente appassionato di filosofia, ha continuato la propria opera di divulgazione con un secondo libro dal titolo “Alla ricerca di Spinoza”.

Un caro saluto,

Alberto