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Cor-rispondenze

lunedì 28 dicembre 2009

Libertà assoluta?



Caro professore,
Esiste la libertà assoluta? E se non esiste, come si fa a parlare di libertà?
Simona

Cara Simona,
Una famosa frase di Kant (una colomba che vola e sbattendo le ali sente la resistenza dell’aria potrebbe pensare che nel vuoto volerebbe meglio - mentre tutti sanno che non volerebbe affatto) ci fa pensare che spesso noi intendiamo la libertà come libertà assoluta, illimitata, incondizionata. Pensiamo che se non esiste una libertà illimitata, allora non vi è vera libertà. Io sono convinto che la libertà sia sempre all’interno di un contesto e che ad ogni livello di sviluppo si aprano delle libertà, e che c’è una relazione stretta e di integrazione tra libertà e ostacoli. Come nell’esempio citato, è grazie all’ostacolo dell’aria che la colomba trova la propria libertà di volare; cioè, uscendo dalla metafora, è grazie al rapporto con un ostacolo che le persone possono trovare la loro libertà. Per una serie di ragioni: penso che la libertà derivi dall’attività e non dalla passività. Consideriamo il caso di un pianista. Dopo un paio di anni di studio del pianoforte una persona ha acquisito alcune conoscenze elementari e ha cominciato a costruire la propria tecnica. La sua libertà di ideare e di suonare è strettamente legata alle sue competenze. Dopo cinque o sei anni e migliaia di ore di studio, la sua capacità tecnica gli consente una maggiore libertà sulla tastiera. Dopo dieci anni, altre migliaia di ore a superare difficoltà molto elevate le sue capacità si sono affinate ancora e la sua libertà creativa è certamente maggiore. Così per una ballerina o per un artigiano. Il rapporto con l’ostacolo crea gradualmente nuove condizioni che consentono una maggiore libertà. Pensare che è più libero chi non affronta difficoltà e ostacoli è illusione. Ad ogni gradino raggiunto si aprono possibilità nuove e dunque nuovi spazi di libertà. Ma ad ogni grado di sviluppo ognuno mantiene una libertà di decisione che gli è propria: non la libertà di suonare qualunque cosa, ma la libertà di suonare o no, di premere o no alcuni tasti e altro. Se ci spostiamo in ambito morale, penso che ogni persona, indipendentemente dalle condizioni in cui si trova, di maggiore o minore capacità di influire sugli eventi, abbia comunque la possibilità di decidere se fare o non fare qualcosa.
Ora facciamo un salto nella storia. Rousseau riteneva che gli uomini nello stato di natura fossero liberi (stato di natura = condizione dell’uomo prima dalla nascita dello Stato e delle leggi). E che gli uomini poi, entrando nella società, perdessero la loro libertà. Al contrario alcuni utopisti scrivevano che gli uomini nascono in catene e che solo gradualmente riescono a liberarsi completamente. Forse è illusorio credere che l’uomo nello stato di natura sia completamente libero (se è maggiormente sottoposto all’istinto, allora non è affatto libero) ed è anche illusorio credere che prima o poi gli uomini possano raggiungere la libertà completa e massima. Ritengo invece importante la riflessione del filosofo del diritto (e senatore a vita) Norberto Bobbio (1909-1994) che in un libretto di 96 pp. dal titolo “Eguaglianza e Libertà” (Torino, Einaudi [1995], 2009) scrive: “Non c'è né una libertà perduta per sempre né una libertà per sempre conquistata: la storia è un intreccio drammatico di libertà e oppressione, di nuove libertà cui fanno riscontro nuove oppressioni, di vecchie oppressioni abbattute, di nuove libertà ritrovate, di nuove oppressioni imposte e di vecchie libertà perdute. Ogni epoca è contraddistinta dalle sue forme di oppressione e dalle sue lotte per la libertà.”
Nella società ogni tentativo di aumentare la libertà di un qualche gruppo consente un aumento della potenza di quel gruppo, ma se c’è un aumento della potenza nascono altre condizioni di ostacolo per la libertà di altri. La potenza implica la non libertà di altri: e allora la libertà si ottiene sempre in un rapporto con la nuova potenza che si è creata e che deve essere riconsiderata per consentire continuamente l’espansione di altre libertà. “La libertà di oggi - scrive Bobbio - è la potenza di domani. E la potenza di domani sarà una nuova fonte di illibertà per coloro che a questa potenza sono soggetti”. Per non essere legati ad una concezione metafisica della libertà, forse vale pena di considerare questa via: che considera libertà e illibertà in rapporto dialettico.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 21 dicembre 2009

Rapporti difficili


Da molto tempo ormai ho una domanda che mi tormenta e, anche se non so se voi potrete darmi una risposta, vorrei esporvela...la mia gioventù è stata caratterizzata da un pessimo rapporto con mia madre.
Credo che non ci sia stato un giorno in cui non abbiamo litigato e abbiamo avuto una discussione serena. Infatti, ogni giorno, quando lei tornava a casa stressata dal lavoro, ogni occasione era buona per attaccare briga e sfociare come al solito in una discussione in cui mi rinfacciava fatti di cui io non avevo colpa, e molte volte arrivavo anche a essere malmenato senza motivo. Molti sono stati anche gli episodi in cui mi sono trovato sbattuto fuori di casa e, essendo i miei genitori separati, andavo a passare del tempo insieme a mio padre fino a quando poi mia madre, scusandosi, mi chiedeva di tornare a casa. Io ho sopportato finché ho potuto con tutte le mie forze, ma non è servito a niente perché la situazione non è cambiata e alla fine poco più di un anno fa sono riuscito a trasferirmi a vivere con mio padre e la mia custodia è passata finalmente sotto la sua potestà. Dopo il trasferimento da mio padre io non ho più sentito mia madre per molto tempo fino a quando quasi un anno dopo si è rifatta viva e allora abbiamo provato a riallacciare i rapporti solo che io non riesco.
Infatti ogni volta che la vedo o che la sento al telefono non so il perché ma cambio: la mia voce diventa rabbiosa e inizio a sentirmi strano dentro, sento che c'è qualcosa che mi blocca dal riallacciare i rapporti con lei… La mia domanda è questa: "Cosa posso fare per evitare questo blocco? ho paura di avere talmente tanta rabbia repressa da non riuscire neanche più a ragionare a mente lucida e per questo vorrei una risposta da una persona estranea alla vicenda. Grazie.

Salve, vorrei chiedervi se poteste rispondere a questa mia domanda sul blog a due voci per 2 motivi;
1) perché io ogni giorno mi trovo ad essere criticato dalle persone che conosco per il comportamento che sto tenendo con mia madre, solo che non riesco proprio a ignorare questo mio blocco e quindi mi sento male;
2) perché se mai qualcuno si trovasse nella mia stessa situazione, almeno leggendo la risposta anche lui saprebbe come fare o almeno a capire perché gli capita;
Alessandro


Caro Alessandro,
Ti voglio raccontare una storia, così, per iniziare. È il punto di partenza di un bel racconto di Torey L. Hayden intitolato “La foresta dei girasoli”, appena pubblicato dall’editore Corbaccio (2009).
Lesley e Megan sono due sorelle. Una ha 17 anni, l’altra è più piccola. Un giorno mentre la mamma sta lavando i piatti, voltata verso il muro, le due sorelle hanno un banale litigio. Lesley si lamenta perché, mentre mangiano il pane integrale, la sorella più piccola fa le briciole sul tavolo e poi le tira su con la punta della lingua. Allora chiede l’intervento della madre. La madre si volta, e dice qualcosa. Le due bambine, poi, nel contendersi alcuni oggetti, fanno cadere rumorosamente una sedia a terra. La mamma, allora, sospende il suo lavoro e si volta. Entrambe rimangono in silenzio.
Ecco il breve dialogo:
“Stancamente, la mamma si passò una mano tra i capelli. « Che cosa avete, voi due? Siete sorelle. Perché litigate sempre? »
Non rispondemmo. Non c'era niente da rispondere.
«Io non vi capisco », continuò la mamma.
«Perché non siete contente? Fate una bella vita. O'Malley e io vi vogliamo bene. Non vi facciamo mancare niente. Eppure non siete contente. »
«Noi siamo contente », ribatté Megan.
«Era solo per ridere, mamma », aggiunsi io.
«Non volevamo litigare sul serio. Vero, Megs? Stavamo solo scherzando. »
«Io non vi capisco. »
«Noi siamo contente, mamma », ripeté Megan, e c'era una disperazione sottile nella sua voce. «Vedi? Vedi? Sto sorridendo. Sono contenta. Io e Lesley siamo contente, sul serio. Non piangere, d'accordo? »
Ma era troppo tardi. La mamma si prese il volto tra le mani.

Mio padre li chiamava “momenti”. Quei momenti della mamma.”


Questo, per dire che a volte non è facile capire le reazioni delle persone. Vorremmo che gli adulti fossero esemplari o almeno prevedibili, ma non sempre le cose accadono secondo le nostre aspettative. Così dobbiamo cominciare a pensare che dietro le figure dei genitori, anche dietro le parole talvolta idealizzate di mamma e papà ci sono delle persone e che, dietro alle persone, ci sono delle storie. Personali e talvolta misteriose. Ed è solo la storia della vita di ciascuno che può orientarci per tentare di comprendere alcune reazioni.
A tue spese, e molto presto, hai cominciato a conoscere che non ci sono solo le sofferenze del corpo, visibili ed esibite a tutti, come la frattura di un arto, ma anche altri patimenti: mali che nel corso del tempo sono stati definiti i mali dell’anima; spesso invisibili, ma profondi e reali, sono sofferenze che emergono in certi momenti, in certi gesti, in certe parole. Ferite talvolta immense e che nessuno conosce, abissi di sofferenza che non consentono all’umore di risalire alla superficie e che, come vortici di una corrente, trascinano pensieri, inclinazioni e comportamenti verso un fondo buio da cui a volte emergono gesti scomposti, comportamenti inadeguati, parole sconvenienti. E molto spesso violenti. Come la violenza che hai subito tu. Incomprensibile perché immotivata, indecifrabile perché spropositata, ingiusta perché sempre eccessiva e sbagliata. In ogni caso enigmatica perché proveniente proprio dalla mamma. Una violenza dunque che fa doppiamente male, proprio perché all’interno di una relazione necessaria. Per molto tempo questa sofferenza è stata per te talmente grande da essere subita e probabilmente difficile da tradurre in parole. Certamente hai sofferto e, da quello che scrivi, ancora oggi, sia pure in modo diverso, questa relazione difficile ti tormenta.
Però, caro Alessandro, dalla sofferenza bisogna uscire. Se sono stati feriti i tuoi pensieri e le tue emozioni, allora dovrai prenderti cura sia dei pensieri sia delle emozioni.
E per compiere questo passaggio abbiamo bisogno della ragione.
Vorrei allora dirti alcune cose sulle emozioni che provi e sul sentiero razionale da percorrere.
Innanzitutto: Non ti sentire in colpa. Se in questo momento non riesci ancora a stabilire una relazione accettabile, questo non dipende da una tua inadeguatezza. Meno che mai da una tua inadeguatezza morale. So che sei una persona buona e corretta nell’agire. Anche tu però hai bisogno di una difesa da ciò che potrebbe ancora farti male. Quando uno ha un livido da qualche parte, basta anche una leggera pressione di un dito a scatenare un forte dolore. Uno cerca di proteggere la parte dolente. A volte possono apparire misure eccessive, ma sapendo che il dolore è forte uno preferisce proteggersi. In questo momento ti stai semplicemente difendendo da quel dito che potrebbe farti più male. Gradualmente, il tempo e una valutazione della vicenda in grado di tener conto di altri particolari ti consentiranno di accogliere una nuova prospettiva meno dolorosa nella valutazione della tua vita. Come nella storia iniziale, i “momenti” che sembrano irrazionali e non avere spiegazione, con il tempo ti riveleranno un vissuto complesso e non sempre felice anche di tua madre. Pensa a ciò che ci accade quando andiamo al cinema. A volte vediamo certi personaggi che ad una prima sensazione sono antipatici, insopportabili o hanno modi indisponenti. Ma poi, accompagnati dal racconto, riusciamo poco per volta a comprendere quali sono i problemi o i vissuti che li attraversano. E sentiamo che il nostro giudizio fortemente negativo viene mitigato dalla conoscenza della loro storia. Una maggiore conoscenza anche dei vissuti di tua madre ti aiuterà a giudicarla meno negativamente.
Il Tempo: il tempo è prospettiva. Man mano passa il tempo è come se ci si sollevasse con lo sguardo da una eccessiva vicinanza che non permette di vedere ad una posizione che permette di cogliere forme e trame. Una prospettiva che tiene conto di più elementi consente una visione d’insieme più realistica. Forse il tempo riuscirà a farti considerare in modo diverso quello che oggi, per l’estrema vicinanza, è ancora troppo scomodo e doloroso da accettare. Quando insieme a una maggiore distanza temporale aumenterà la tua conoscenza di alcuni problemi, allora riuscirai a dipanare meglio quello che oggi è complicato e oscuro.
Gli amici: chi non è stato attraversato dalla violenza e da rapporti che hanno guastato la relazione, da legami infelici e strazianti, non può capire completamente quello che ti succede. Alle emozioni ferite bisogna dare occasioni per rimarginarsi, ai pensieri tormentati il tempo calmo della riflessione e della comprensione, perché il vissuto d’angoscia necessita di una lenta fase di decompressione. Come avviene ai sub che devono risalire: vorrebbero uscire rapidamente, ma perché l’uscita non comprometta la salute hanno bisogno di una lenta risalita e di un momento di sosta per permettere all’organismo di riadattarsi alla nuova condizione. Ma anche le parole dei tuoi amici sono importanti: ci ricordano che è essenziale essere positivi e che la comprensione è più potente della rabbia.
Tua madre. Non devi pensare che la sofferenza sia stata prodotta intenzionalmente, consapevolmente. Caro Alessandro, ci sono vite che si smarriscono, dispiaceri che abbattono oltre misura, affanni che logorano, pene intime che conducono in strade a senso unico. Tutte le sofferenze, però, chiedono comprensione. Purtroppo, anche nel mondo degli adulti ci si smarrisce e, a volte, da certi labirinti si fatica ad uscire.
Tu. Abbi fiducia in te stesso e nelle tue forze. Lo so che ci vuole una grandissima robustezza per reagire e può darsi che in questo momento a te venga richiesto troppo. Ma io mi rivolgo a te, non per dirti cosa fare adesso, ma perché tu dovrai lavorare su queste riflessioni e sulle tue emozioni. Punta sulla tua capacità di essere positivo e ti accorgerai che la capacità di comprendere è un’ energia potente e sviluppa una resistenza anche al dolore. Spesso è un medicamento efficace. Anche se non ora, ma quando ti sentirai, non chiudere la porta con chi soffre. La ragione ti aiuterà a capire che certe parole appartengono ad un linguaggio malato, che certe frasi abbozzate non definiscono te, ma sono espressioni di sofferenza e manifestazioni della pena di chi le pronuncia. Un po’ come è accaduto nella pittura. Per un certo tempo si è pensato che sulla tela fossero riprodotti semplicemente diversi oggetti, poi si è cominciato a pensare che, indipendentemente da tutto ciò che viene raffigurato, quello che vediamo sulla tela altro non è che il soggetto che si rivela. Quando riuscirai a creare una distanza tra le parole deformanti pronunciate da chi soffre e la tua persona a cui non si addicono, quando riuscirai ad accettare che certe frasi invece di essere etichette “vere” o descrittive siano invece i colori con cui si esprime il dolore, forse riuscirai ad accettare anche la sofferenza di tua madre e a sciogliere un po’ di quella rabbia giusta che porti ancora dentro. A una persona che ha una gamba rotta non chiediamo di correre, a chi è lacerato dentro non poniamo obiettivi troppo alti.
Un grandissimo augurio per una buona vita e un caro saluto,
Alberto

lunedì 14 dicembre 2009

Sono sensitiva?



Scrivendo di questa mia esperienza, potrei passare per "strana" o per "matta", però ho notato che è una cosa che mi caratterizza. Ogni tanto penso a qualcosa o a qualche persona, in un momento di silenzio, di tranquillità, e subito dopo o qualche giorno dopo, avviene o vedo quella cosa o quella persona che avevo pensato precedentemente. È una cosa strana che mi capita da diverso tempo, però cerco di dirlo a persone di cui mi fido, cioè a persone che mi credono e che non annuiscono solo per farmi contenta, mentre in realtà pensano che io sia una “pazza”.
Loredana


Cara Loredana,
La tua domanda richiama una questione antica che più recentemente è stata riformulata in questo modo: è possibile una corrispondenza reciproca tra stati interiori della mente ed eventi esteriori? Nel corso dell’esistenza, infatti, accadono eventi che sembrano non essere casuali. Coincidenze particolari che a volte lasciano interdetti. “Coincidenze significative”, potremmo dire. Infatti è proprio con questa locuzione “coincidenze significative” (ma guarda che coincidenza!, scherzo) che Carl Gustav Jung (1875 - 1961), il grande psichiatra e psicoanalista svizzero, denota tutta una serie di casi particolari. Jung considera con serietà la questione e per questo vi dedica ben due studi: La sincronicità (1951) e La sincronicità come principio di nessi acausali (1952). (Entrambi i saggi sono contenuti nell’ottavo volume delle opere di Jung, nell’edizione Bollati Boringhieri – il primo, più breve e più semplice, è nell’appendice del testo).
Tutto parte dall’analisi dell’applicazione del principio di causa nella spiegazione dei fenomeni. Il principio di causa, come sai, è un principio fondamentale, naturalmente, per la spiegazione scientifica. Jung, però, che aveva già studiato in precedenza il nesso di “causalità”, ha sollevato dubbi sull’applicazione senza riserve di tale principio in psicologia (ad es. nei sogni questo principio salta: da un effetto si genera immediatamente la causa e non viceversa, lo diceva già Freud). Egli pensa infatti che sia necessario dedicarsi allo studio di una serie di fenomeni che non sembrano interpretabili con le normali categorie di causa, spazio e tempo e che non sembrano essere riducibili alle categorie scientifiche classiche. Per affrontare la spiegazione di questi problemi, introduce il concetto di “coordinamento acausale”.
Così, nel 1951, Jung definisce come “fenomeni sincronistici” i fenomeni che coincidono con il contenuto psichico dell’osservatore e che accadono simultaneamente; oppure in uno spazio diverso o in un tempo diverso, un po’ come è accaduto a te. Scrive Jung questi tre casi: "1) la coincidenza di uno stato psichico dell'osservatore con un evento contemporaneo e obiettivo che corrisponde allo stato o al contenuto psichico (...) 2) la coincidenza di uno stato psichico con un evento esterno (più o meno contemporaneo) corrispondente, il quale però si svolge al di fuori della sfera di percezione dell'osservatore, e quindi distanziato nello spazio, e può essere verificato soltanto successivamente (...) 3) la coincidenza di uno stato psichico con un evento corrispondente, non ancora esistente, futuro, quindi distante nel tempo, il quale può essere verificato solo a posteriori" (1951, p. 545). Lo studioso Paolo Francesco Pieri nel Dizionario junghiano (Bollati Boringhieri, 1998) ricorda che queste diverse tipologie di eventi sarebbero “un aspetto particolare del cosiddetto ‘coordinamento acausale’ che sovrintenderebbe alla creatività, e cioè quegli ‘atti creativi’ che vengono a svolgersi attraverso le immagini, il pensiero e il linguaggio”.
Jung pensa dunque ad una corrispondenza precisa tra contenuto psichico e realtà: ovviamente l’evento esterno e quello interno devono avere lo stesso significato; e prima di poter interpretare tali fenomeni in base a nuove teorie, ovviamente si devono innanzitutto escludere sia possibili relazioni causali dirette tra gli episodi sia l’applicabilità di leggi statistiche nella loro spiegazione. Ma fatte salve queste condizioni, rimangono però da spiegare i fatti che, come disse Withehead sono spesso “irriducibili e ostinati”.
Come è possibile, infatti, che si manifesti qualcosa che così anticipatamente non può esserlo? La spiegazione di Jung è questa: esistono fenomeni che non hanno ancora ricevuto una spiegazione causale deterministica o statistica. Egli è consapevole però che la scienza non può spiegarli per due motivi di fondo.
Il primo è il fatto che la scienza utilizza come metodo di spiegazione il “principio di causa” e ciò che non manifesta una causa diretta riconoscibile non viene preso in considerazione; il secondo, è il fatto che la scienza esclude il fattore psichico nello studio della realtà. Per poter considerare i fenomeni che tu hai riportato, secondo Jung, la scienza dovrebbe “allargare” il proprio punto di osservazione e accogliere nel proprio metodo anche i due elementi sopra citati: ossia “il fattore acausale” e “il fattore psichico”.
Egli suggerisce pertanto di considerare tali fenomeni non tanto “irrazionali”, ma “extrarazionali”, ossia diversi dal paradigma della scienza condivisa.
Per spiegare questi fenomeni, egli fa riferimento al ruolo della “conoscenza inconscia”. Da una parte introduce il fattore affettività: sarebbero infatti particolari condizioni psichiche prodotte proprio attraverso l’affettività, in parte legata a qualche aspettativa, a consentire l’attivazione di queste forme di conoscenza. Ma soprattutto Jung fa riferimento all’attività di un particolare strato della psiche in cui percezioni, osservazioni e conoscenze inconsce pervengono poi alla coscienza. Ma questo era il pensiero dello psichiatra fino alla metà del secolo scorso. La ricerca scientifica contemporanea ha però fatto altri passi avanti. Se vuoi continuare i tuoi approfondimenti, pertanto ti invito a leggere le altre citazioni indicate da Alessandra nella lettera precedente.

Un caro saluto,
alberto

lunedì 7 dicembre 2009

Universi paralleli



Anni fa mi è capitato tra le mani un libro, un vecchio Urania, che mi ha regalato un appassionato di fantascienza. Si intitolava “Assurdo Universo”. Non mi sono mai piaciuti molto i racconti di fantascienza, però ho trovato in questo una visione della realtà molto particolare: la teoria degli infiniti universi. Praticamente, secondo questa teoria, la realtà non è composta da un solo universo, il nostro, ma da infiniti universi paralleli. Esiste, ad esempio, un universo totalmente identico a questo, ma nel quale io ho i capelli biondi anziché castani, oppure gli occhi azzurri o verdi. Alcuni universi sono simili al nostro, altri sono talmente diversi che l'intelletto umano non li può comprendere. Questa teoria, per quanto mi sia sembrata assolutamente assurda, mi ha dato molto su cui riflettere. Ammettendo che questa teoria sia vera, tutto ciò che in questo universo non esiste, può esistere in un altro universo; e tutto ciò che in questo universo è falso in un altro può essere vero. In pratica “tutto è possibile se si considerano tutti gli universi”. Ogni volta che ci penso mi vengono le vertigini. Se così fosse, allora tutte le nostre domande esistenziali potrebbero tradursi nelle domande: in quale universo siamo? Siamo in un universo in cui esiste un ente supremo che controlla le nostre vite oppure no? Siamo in un universo in cui l'anima è immortale oppure no? Ma, soprattutto, se tutti gli universi esistono realmente, i concetti di vero o falso valgono ancora? Qualsiasi cosa io dica, per quanto assurda, può essere vera in un altro universo. E tutti i personaggi inventati nei libri, tutte le storie inventate, diventano reali al pari di noi. Una volta sono arrivata ad un'altra conclusione. Se esistono infiniti universi, forse il compito della nostra anima non è altro che uno sperimentare vite diverse in realtà diverse, alla ricerca della perfezione. La mia vita potrebbe quindi essere un esperimento, un tentativo. La mia anima forse comincerà una nuova vita dopo la mia morte, magari in un universo totalmente diverso da questo. Non so se ciò sia vero, ma la prospettiva mi piace.
Giulia



Cara Giulia,
Possiamo incominciare con una storiella divertente. Giovanni di Salisbury (XII sec.) nel Policraticus, racconta che Alessandro Magno era talmente avido di gloria che, quando il suo compagno Anassarco gli riferì che il suo maestro Democrito parlava di un numero infinito dei mondi, abbia esclamato: “Ahimé!, me sventurato, dato che non sono ancora riuscito a impadronirmi di neanche uno di questi mondi!”. Pensa che, secondo altri ancora, si sarebbe persino messo a piangere. Ma, ovviamente, non ci fermiamo qui e cerchiamo di percorrere un sentiero tra le opere dei filosofi. Soprattutto dei filosofi antichi, perché già in Grecia alcuni autori ebbero l’idea di una pluralità di mondi. In uno dei frammenti ordinati da Diels-Kranz si legge: “Anassimandro, Anassimene, Archelao, Senofane, Diogene, Leucippo, Democrito ed Epicuro (ammettono) mondi innumerevoli, (dispersi) in varie direzioni dell’infinito”. (Cfr. Democrito. Raccolta dei frammenti, Milano, Bompiani, 2007).
Ippolito di Roma (III sec. d.C.) ad es. fa riferimento proprio al grande filosofo atomista Democrito (IV sec. a.C.) e scrive che Democrito (come Leucippo) “sosteneva […] che i mondi sono infiniti di numero e differenti per grandezza, per cui in alcuni non esistono né Sole né Luna, in altri ve ne sono di più grandi che nel nostro cosmo, e in altri ancora di più. Gli intervalli tra i mondi sono diseguali, e così da un parte vi sono più mondi e da un’altra meno, e taluni si accrescono, mentre altri sono al culmine dell’accrescimento; altri, poi, si assottigliano, cosicché da una parte nascono nuovi mondi e dall’altra spariscono. I mondi si corrompono collassando uno con l’altro. Alcuni mondi sono privi di animali, di piante e persino di umidità.”(Ippolito, Refutatio omnium haeresium, 1986).
Ma è Lucrezio (I sec. a. C.) che nel De rerum natura ci fornisce bellissime immagini dell’infinità dei mondi e parla di un nuovo volto della natura che si deve rendere pubblico (v. il secondo libro de La natura delle cose, Mondadori, 1992, pp. 155 e sgg.). “Certo, una cosa di assoluta novità si appresta a giungere alle tue orecchie, un nuovo volto della natura a manifestarsi. Ma nessuna cosa esiste tanto facile, che all’inizio risulti difficile a credersi, e ugualmente nulla esiste di così grande né di così stupefacente che, poco per volta, non smettano tutti di guardarlo ammirati”.
D’altra parte nessun uomo può credere che: “mentre in ogni direzione s’estende, sconfinato, lo spazio […] solo qui la terra e il cielo siano stati creati”. Per Lucrezio i mondi si formano per aggregazione casuale di atomi, dunque senza uno scopo, senza intenzionalità alcuna; però per lui è “necessario [ammettere] che esistono altrove tali aggregati della materia quale è questo, che l’etere racchiude in avido abbraccio”. C’è talmente tanta materia nell’universo e “di atomi la quantità è così grande, quanta non potrebbe contarla tutta una vita di un essere vivo” che è necessario ammettere che “esistono altri mondi in altre parti dello spazio, e diverse razze di uomini e stirpi di animali”.
Tra i vari esempi, Lucrezio è convinto che nell’universo nessuna cosa sia unica “che nasca isolata e sola s’accresca”, e così bisogna anche concepire l’universo stesso: “Pertanto il cielo, in simile modo, occorre ammettere – e la terra e sole luna mare, le altre cose che esistono – che non sono isolati, ma in numero, invece, che non puoi contare”.
Si esce dunque già con questi autori dal sistema aristotelico-tolemaico, anche se la cosmologia che è prevalsa dalla Grecia classica al Medioevo ha concepito l’universo come unico, chiuso e finito. In passato si pensava prevalentemente ad un solo universo esistente, limitato dal cielo delle stelle fisse a cui vennero poi aggiunti il nono cielo e il primo mobile. Fuori da questo non c’era nulla, neppure il vuoto, perché tutti gli oggetti sono nell’universo mentre l’universo non è in nessun luogo, avrebbe detto Aristotele. In qualche modo, diverso e separato dall’universo, vi era solo Dio per i cristiani. Il mondo era concepito dunque anche come finito, perché Aristotele ammetteva l’infinito solo come idea e non come realtà concreta. Era dunque un universo composto di sfere concentriche, non intese in modo ideale, ma come qualcosa di solido su cui erano fissati stelle e pianeti. Oltre alla sfera delle stelle fisse vi erano i diversi cieli: di Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna. Sotto la Luna vi era la zona con i quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) e la Terra immobile al centro di tutto. Il mondo degli antichi era inoltre qualitativamente differenziato in due zone. Così racconta il filosofo Giovanni Fornero: “una perfetta e l’altra imperfetta. La prima era quella dei cieli o del cosiddetto “mondo sopralunare”, formato di un elemento divino, “l’etere, incorruttibile e perenne, il cui unico movimento era di tipo circolare e uniforme, senza principio e senza fine, eternamente ritornate su se stesso. La seconda zona era quella del cosiddetto “mondo sublunare”, formato dai quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco), aventi ognuno un suo “luogo naturale” e dotati di moto rettilineo (dal basso verso l’alto o viceversa), che avendo un inizio e una fine dava origine ai processi di generazione e corruzione” (Cfr. Itinerari di Filosofia v. II, 2003). E più avanti scrive: “Questa visione astronomica appariva conforme non solo al senso comune, e alla sua quotidiana constatazione dell’immobilità della Terra e del moto dei cieli, ma anche alla mentalità “metafisica” prevalente, portata a concepire il mondo come un organismo gerarchico e finalisticamente ordinato e disposto”.
Lo sconvolgimento di questo modo di pensare avvenne prima con la pubblicazione dell’astronomo polacco Niccolò Copernico, De revolutionibus orbium coelestium (La rivoluzione dei corpi celesti) nel 1543 (anno in cui poi morì). Copernico riteneva la dottrina tolemaica “antieconomica”, ed errata anche perché troppo complicata e macchinosa. Pensa che si narra che Alfonso X di Castiglia (XIII sec.) abbia affermato che lui al posto di Dio avrebbe fatto girare i pianeti in modo più semplice. Per dire. Ma un altro grande autore che ha dato un enorme impulso al superamento della visione degli antichi è, nel Rinascimento, Giordano Bruno (1548-1600). Con il suo entusiasmo e il suo coraggio intellettuale ha superato anche l’idea dell’universo centrato sul sistema solare, per riproporre con determinazione l’idea della pluralità dei mondi dell’infinità dell’universo. Nell’opera De l’infinito, universo e mondi, fornisce un’importante speculazione sull’infinità dei mondi (porgo la mia contemplazione circa l’infinito universo e mondi innumerabili). Egli pensa ad una pluralità di sistemi solari con altri abitanti e pianeti come il nostro: “sono terre infinite, son soli infiniti, è etere infinito”. E quando Burchio chiede a Fracastorio se gli altri mondi sono abitati come questo, Fracastorio risponde: “Se non cossì e se non migliori, niente meno e niente peggio: perché è impossibile ch’un razionale e alquanto svegliato ingegno possa immaginarsi che sieno privi di simili e migliori abitanti”. (De l’infinito, universo e mondi, Utet, 2002, dialogo III, p. 111).
Dopo le ulteriori scoperte della scienza contemporanea e pensando a queste tematiche mi viene da ripetere quello che scrisse Pascal: « Le silence éternel de ces espaces infinis m'effraie » (il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa), ma anche da dire, con Kant, che il cielo stellato sopra di me continua a riempire il mio animo di meraviglia.

Un caro saluto,
Alberto


Cfr. anche: Alex Vilenkin, Un solo mondo o infiniti? Alla ricerca di altri universi, Cortina Raffaello, 2007.