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Cor-rispondenze

lunedì 27 aprile 2020

Scrivo, dunque penso


Biografia di René Descartes


Caro professore,
Scrivo, quindi penso... non saprei con quali altre parole descrivere il mio attuale stato d'animo e mi dispiace non poterle inviarle il cartaceo di questa mia lettera, perché sto scrivendo di getto con una biro su un foglio. Mi sembra quasi che lo scrivere, anziché digitare sulla tastiera di un PC, sia esattamente il modo giusto per comunicare ciò che provo, ciò che penso. In questi giorni, in cui la mia routine quotidiana è stata stravolta, in cui le relazioni con le persone che conosco e a cui voglio bene sono cambiate, in cui non posso annullarmi nel gesto sportivo, in cui la fatica ti è amica e ti protegge, insomma in una condizione di vita così destabilizzare, il fatto di essermi fermato a scrivere mi dà sollievo e mi dà il tempo di pensare. Pensare che tutto è cambiato e che continuerà a cambiare anche nei prossimi mesi, ormai è inevitabile. Ed io? Anche io sono cambiato? Tolto un accenno di barba e i capelli un po’ più lunghi, chi mi guarda vede sempre il solito Guglielmo? Perché invece io mi sento diverso. Più deciso, propositivo, riflessivo. Sembra quasi che il fatto di essere circondato da dolore, smarrimento ed incertezza mi abbia spronato a crescere più velocemente. Sono consapevole che potrebbero arrivare momenti di pessimismo e sconforto, perché il futuro è sempre una sfida, e magari ora sarà una sfida un po’ più impegnativa. Ma mi piace pensare che ora mi limito a scrivere, nella speranza, domani, di agire. Mi dica professore: questa è solo un’utopia di un adolescente?
Guglielmo, 3C


Caro Guglielmo,
Chissà che bella chiacchierata sarebbe nata tra te e il buon Cartesio. Così bella che io avrei anche pagato il biglietto per essere presente. Seduto su una sedia in un angolo del tavolo, vi avrei ascoltato con attenzione e ammirazione. Da una parte Cartesio che dice: «Cogito ergo sum», «Penso, dunque esisto», e dall’altra tu che sostieni «Scrivo, quindi penso». Al lume della candela, vi sareste guardati negli occhi come i protagonisti del film “Il buono, il brutto e il cattivo” (roba del West) o come Kasparov e Karpov (roba di scacchi). Magari avreste proseguito con la massima «Scrivo, quindi penso, quindi esisto». E il più rapido di voi, con una mossa sillogistica risolutiva, avrebbe potuto battere un pugno sul tavolo e affermare: «Scrivo, quindi esisto». E così la storia della filosofia dell’Occidente si sarebbe arricchita in un solo colpo di tre profonde verità: il pensiero garantisce la consapevolezza dell’esistenza («Penso, dunque esisto»), la scrittura apre alla dimensione del pensiero («Scrivo, quindi penso») e la scrittura genera una nuova cognizione di sé («Scrivo, quindi esisto»). Che serata. Va detto, però, a onore di Cartesio, che egli era un uomo mite e non ti avrebbe guardato come ci si guarda nel West, tutt’al più avrebbe preso la tua obiezione e l’avrebbe messa nelle Meditazioni metafisiche con una sua risposta a seguire. Un signore d’altri tempi. Comunque, lasciando la frase del filosofo, che ha già ricevuto autorevoli commenti, mi soffermerò sulla tua. È vero: la scrittura ci aiuta a pensare, per una semplice ragione: genera il pensiero. Di solito, il nostro sguardo scorre come la luce di un faro sulle pareti del mondo, ma non afferra e non si porta via nulla. Illumina provvisoriamente senza trattenere. Forse è per questo che è nata la fotografia: per conservare ciò che la luce illuminava, ma non riuscivamo a fissare. Seneca conosceva la necessità dell’isolamento, infatti scriveva: «Certi argomenti sono tali che su di essi potresti scrivere anche andando in calesse, altri richiedono un divano, tranquillità e solitudine». Noi non andiamo più in calesse, ma scriviamo su dispositivi digitali e un po’ dappertutto: in auto, ma anche a piedi, quando passeggiamo per fare ginnastica. In questo caso ci preoccupiamo semplicemente di assestare la nostra posizione nella scacchiera delle relazioni, ma poi abbiamo bisogno anche di ri-orientare lo sguardo per bilanciare il nostro rapporto autentico con la vita. Così ci affidiamo ad un’altra modalità della scrittura. Quella che, rallentando la corsa quotidiana, è in grado di arginare i fastidi, annullare le distrazioni, fino a sospendere il tempo. Quella che consente di dare forma a nuovi pensieri e di cesellarli. La filosofa spagnola Maria Zambrano (detto tra noi, avrei pagato il biglietto per ascoltare anche lei) scriveva queste belle parole: «C’è nello scrivere un trattenere le parole, come nel parlare c'è un lasciarle libere, un lasciarle distaccarsi, che potrebbe essere un loro distaccarsi da noi. Scrivendo si trattengono le parole, le si fanno proprie, soggette a ritmo, contrassegnate dal dominio umano di chi in tal modo le maneggia». Trattenere e rilasciare, nel duplice gesto del respiro: della scrittura (meditazione e rivelazione) e della parola pronunciata (annuncio e divulgazione). Pensi che gli altri vedano solo i tuoi cambiamenti esteriori e quelli interiori siano invisibili all’esterno? In realtà non è così. Quando le tue parole torneranno ad «essere libere», sveleranno in modo inequivocabile se scaturiscono da nuovi concetti. E i tuoi amici, allora, potranno riconoscere se in te è avvenuta qualche metamorfosi. Pensare però costa fatica. A proposito di costi: due biglietti in un solo giorno per la filosofia. Forse in questo periodo dovrei adottare misure più restrittive ed essere più parsimonioso. E non uscire. Neanche con l’immaginazione.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 20 aprile 2020

Tempi duri


"Incidenze del vuoto": la mostra di Giuseppe Penone nell'ex chiesa di San Francesco a Cuneo - Le foto

Caro professore,
sono tempi duri. Certo, forse non è proprio come essere in guerra (almeno per noi), ma rimanere chiusi in casa tutti i giorni per tre o quattro settimane si è rivelata una sfida non semplice, non scontata. Perché gli uomini sono esseri socievoli di natura, e senza il contatto non riescono a vivere bene. D’un tratto tutto è diventato strano: le famiglie si sono riunite, semplicemente trascorrendo del tempo insieme che forse prima non avrebbero considerato; si sono riscoperti aspetti della vita che si erano completamente rimossi, gettati nel cassetto della memoria dalle nostre vite piene di altre attività: fare una passeggiata, leggere un buon libro, suonare uno strumento musicale (o imparare a farlo). Io, personalmente, ho riscoperto i sentieri dei miei boschi, che da anni non percorrevo più. Insomma, le vite di tutti improvvisamente si sono trasformate radicalmente. E in molti casi si sono tremendamente complicate: per esempio infermieri, medici, ricercatori, che mettono la propria salute a repentaglio e si sacrificano per il bene altrui. E in questa situazione l’economia rischia di sprofondare. E cosa ha generato tutto questo? Una malattia. Sono secoli che l’uomo affronta epidemie e ancora oggi queste riescono ad avere la meglio sul nostro sistema di vivere: com’è possibile? Come mai l’uomo non è ancora riuscito a creare delle difese per questo tipo di problema? Ormai siamo da molto tempo i “colonizzatori” di questo mondo, perché quest’ultimo è ancora in grado di metterci in grande difficoltà? Spero che non sia una questione troppo banale. Un saluto,
Giacomo, 3C


Caro Giacomo,
Non ci sono questioni banali. La banalità di solito risiede nelle risposte, quasi mai all’altezza delle domande poste: o per incapacità di immaginazione o per incomprensione della complessità delle domande stesse da parte degli interlocutori. Osa quindi sempre porre domande, perché ti aiuteranno a orientare lo sguardo, a chiarire l’oggetto della tua ricerca e l’obiettivo da tenere di mira. E soprattutto non accontentarti mai di un’unica risposta. Le risposte, quando hanno valore, servono a mettere in moto altre domande, ma soprattutto a stimolare la ricerca. La risposta è un tentativo di esplorare una tematica, un sentiero in un bosco che affianca altri sentieri sempre possibili. L’aspetto della tua riflessione che più mi ha conquistato è legato allo stupore che manifesti nell’osservare il contrasto tra la presunta onnipotenza dell’uomo e la sua vulnerabilità; in modo particolare è sull’avverbio “ancora” («ancora riuscito») che nella parte finale della lettera, piano piano, si concentra la tua meditazione. “Ancora”, in fondo, sottende le nostre aspettative e le nostre frustrazioni: è la formula dell’onnipotenza umana presente in forma inconscia dentro di noi e che affiora apertamente nella domanda: «Come è possibile che l’uomo non sia ancora riuscito a?». E si può declinare in altri interrogativi analoghi: “Come mai in un mondo così sofisticato nessuno è ancora riuscito ad elaborare una teoria scientifica che spieghi il tutto, a risolvere tutte le questioni della fisica e della matematica, a risolvere problemi etici, a mitigare la pulsione distruttiva dell’uomo, la miseria, la fame, le malattie?”. Da una parte la nostra conoscenza ci sembra portentosa, e certamente lo è. Ma dall’altra, dietro ad essa c’è una grande illusione: siamo ad un passo dall’aver decodificato la realtà e risolto tutte le difficoltà che hanno angustiato le generazioni precedenti. Anche le società passate hanno pensato – come noi – di aver allontanato le preoccupazioni antiche e si sono illuse dell’onnipotenza dell’uomo. Tra le storie curiose che mi vengono in mente, pensa che nel 1899 il capo ufficio brevetti statunitense pare si sia dimesso «perché non c’era più niente da inventare». Nel corso della storia gli uomini o si sono esaltati, considerando di essere ad un passo dalla risoluzione di tutti i problemi o si sono scoraggiati sulla possibilità di conseguire tale obiettivo. Mi ha sempre affascinato la storia del fisiologo Emil Du Bois-Reymond. Nel 1880, nel corso di una conferenza dal titolo “I sette enigmi del mondo”, egli affermò di aver individuato alcuni problemi insolubili per la scienza e – come per delimitare il perimetro delle possibilità umane – pronunciò la famosa frase: “ignoramus et ignorabimus” (“ignoriamo ed ignoreremo”). Un altro fisiologo, Ernst Haeckel (1834-1919) non accettò quelle conclusioni e, riponendo una smisurata fiducia nella scienza del proprio tempo, scrisse l’opera “Gli enigmi del mondo”, poiché ritenne di aver risolto tutti i misteri avanzati dal collega. Due atteggiamenti opposti: da una parte, la consapevolezza dei limiti dell’uomo, dall’altra le aspettative illimitate nella sua supremazia. Oggi diamo per scontata la vita, dall’infanzia alla vecchiaia, e ci stupiamo se la nostra padronanza vacilla. A volte consideriamo la potenza della specie e sottovalutiamo l’impotenza dell’individuo, altre volte contempliamo l’impotenza della specie e, come ubriachi, sopravvalutiamo la forza del singolo. La cultura greca ci ricorda che gli uomini sono effimeri (ephemeros) «creature di un sol giorno». Siamo “colonizzatori” provvisori di questo mondo. La vita continua a sorprenderci e non si lascia addomesticare definitivamente. Ogni tanto scopriamo che è fragile e avvertiamo il brivido della nostra umanità.
Un caro saluto,
Alberto