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Cor-rispondenze

lunedì 23 aprile 2018

L'orrore in Siria


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Passaggi in Siria

Caro professore,
Da alcuni mesi a questa parte l'Io più profondo che vive dentro me non riesce a darsi pace riguardo alla situazione siriana e mi spiegherò meglio: le immagini e i filmati diffusi in rete ci pongono, ogni attimo della nostra giornata, di fronte a una situazione drammatica che forse, prima d'ora, non si era mai realizzata. Certamente i periodi di guerra e la conseguente miseria degli uomini hanno sempre fatto parte della storia dell'umanità, ma ciò che più mi turba è l'atteggiamento dell'uomo occidentale, il quale posto dinnanzi a uno scenario così terrificante in cui un suo simile, del tutto innocente e costretto ad arrendersi alla Morte, non ha una minima reazione o un minimo senso di colpa. Per cui mi domando, come è possibile che l'uomo sia giunto ad uno stato d'indifferenza misto a odio così forte? Dove e quando l'uomo ha smarrito il suo sentimento di fratellanza e solidarietà? È possibile auspicare un ritorno dell'Umanità?
Isabel, 17 anni


Cara Isabel,
La scrittrice e giornalista siriana Samar Yazbek, fuggita dalla Siria nel 2011 e poi tornata nei luoghi della guerra per protestare contro il regime di Assad, in un libro molto intenso e doloroso, “Passaggi in Siria” (Sellerio 2017), sostiene che «la Siria non sarà mai più la stessa: è stata impiccata, sbudellata, squartata». Non ha espresso questo giudizio sull’onda delle ultime atrocità, ma sulle efferatezze che hanno accompagnato questi anni di una guerra di cui abbiamo quasi smarrito l’origine. Cominciata sette anni fa, nel 2011, come ribellione della popolazione al governo di Assad, si è presto trasformata in un groviglio di scontri in cui sono entrati in una trama complessa Stati Uniti, Russia, Iran e Turchia, gruppi jihadisti ed estremisti di varia natura. A questo conflitto ci siamo forse assuefatti, come succede un po’ per molti scontri che risuonano come un’eco permanente nella nostra memoria. Per questo la scrittrice sprona gli uomini dell’Occidente a non ridursi a passivi consumatori di notizie. Scrive Yazbek: «Attraverso immagini efferate che fanno di noi dei mostri indifferenti alla barbarie, la macchina mediatica globale sforna aggiornamenti a getto continuo in modo che ogni vittima cancelli il ricordo di quella precedente, generando una disgustosa familiarità con l'atrocità e la vastità della morte. Consumiamo le notizie e poi le gettiamo nella spazzatura» (209-210). È l’utilizzo delle armi chimiche ad aver risvegliato in noi l’orrore. Perché il 7 aprile scorso il presidente siriano Bashar al Assad ha usato tali mezzi nei confronti della popolazione, e pochi giorni dopo Stati Uniti, Francia e Regno Unito sono intervenuti bombardando alcuni obiettivi militari collegati probabilmente a tale produzione. Circa dieci anni fa l’economista Jacques Attali, “consigliere speciale” del presidente francese François Mitterand negli anni Ottanta, aveva scritto un libro dal titolo sufficientemente inquietante “Breve storia del futuro” (Fazi 2007) in cui immaginava gli anni a venire delle relazioni mondiali. Egli sosteneva che «armi chimiche saranno in grado di uccidere dei capi di governo senza essere individuate, verranno innescate epidemie di massa a volontà, armi genetiche complesse verranno un giorno dirette contro alcuni gruppi etnici in particolare». Purtroppo tali armi sono state usate per eliminare parte della popolazione, anche se bandite dal Protocollo di Ginevra del 1925 - dopo gli orrori della Prima Guerra mondiale - e più recentemente abolite formalmente nel 1993. Gli ispettori internazionali hanno appena compiuto un sopralluogo a Douma, la città in cui si presume sia avvenuto tale attacco, per comprendere ciò che è successo. Se da una parte i tempi dei meccanismi di controllo sono lenti – i rappresentanti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu si ritroveranno in Svezia per analizzare cautamente i campioni prelevati in alcune aree della città –, dall’altra sentiamo il peso morale di quanto accade alle persone che ancora vivono in quei luoghi. Samar Yazbek scrive che «le loro sofferenze sono la prova schiacciante della bancarotta morale dell'umanità» (212). «Bancarotta morale» è una definizione ferma e mortificante che ci angoscia e ci scoraggia. Chiedi giustamente dove troviamo la nostra umanità. L’uomo dell’Occidente l’ha conosciuta nel mondo greco, nel cristianesimo, nell’umanesimo e nell’illuminismo. Rousseau e Schopenhauer hanno persino elevato la compassione a fondamento della morale, mentre un secolo dopo Hannah Arendt diceva che l’umanità veniva attivata dal pensiero («l'umanità di un individuo perde la sua vitalità in corrispondenza con il suo astenersi dal pensiero»). Non so se l’uomo abbia smarrito il suo «sentimento di fratellanza e solidarietà» o se forse debba preoccuparsi di farlo germogliare ad ogni generazione. Ogni epoca deve necessariamente rieducare e rendere umani gli individui che si presentano. Chissà che di “aiuto umanitario” non abbia bisogno proprio l’Occidente: un sostegno imprescindibile a sensibilizzare le coscienze, una sorta di assistenza permanente per generare ed educare empatia e partecipazione. L’aiuto umanitario allora non è solo il contributo materiale offerto ad un paese in guerra, ma è anche il soccorso portato alle macerie interiori dell’uomo contemporaneo che hanno prodotto un’anestesia della sua sensibilità, del suo grado di condivisione e della sua capacità di protesta contro la barbarie.
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 16 aprile 2018

Il senso del dolore


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Caro professore,
il dolore è ovunque in questo mondo, ed è da sempre che l'uomo si ingegna per non sentirlo o per evitare di arrivare al punto di percepirlo. A volte il dolore è utile in quanto ci ricorda i nostri limiti e, in un certo senso, ci tiene in vita perché ci insegna ad esempio che è meglio non buttarsi tra le fiamme. A volte però non riesco a trovare un senso ad esso: il dolore fisico di malattie, soprusi, guerre, ma anche quello mentale ed emotivo come può essere la perdita di una persona cara o quello provocato dagli insulti. Tutto questo porta a chiedermi se non vivremmo meglio senza dolore, ma a questa domanda credo di saper rispondere: vivremmo meglio senza ciò che provoca dolore. Allora, che senso ha tutto questo dolore?
Roberta, 3h


Cara Roberta,

Forse dovremmo cominciare a pensare la vita non in funzione dell’uomo e dei suoi bisogni, ma al contrario l’uomo come parte del movimento della vita. Il più radicale dei dolori è la consapevolezza che la vita svanisce. Perché contiene in sé la sua transitorietà, dicevano gli antichi filosofi; la sua “impermanenza”, ripetono le religioni, soprattutto quelle orientali che segnalano nelle varie forme di attaccamento l’origine dei tormenti. La precarietà della vita e il suo dileguare sono da sempre fonte di angoscia. E già questo è male, un male abissale in quanto non può essere rimosso. Più del dolore fisico, che secondo Epicuro se è breve è sopportabile e se è straziante non può essere illimitato, perché conduce alla morte; più della sofferenza spirituale, che trova il proprio lenimento nei pensieri che possono mostrare gli eventi sotto una luce diversa, perché la forza delle parole è in grado di mitigare i turbamenti dell’anima. È lo stesso Eschilo a considerare il dolore un «errore della mente». La natura fa il suo corso ed è estranea alle aspettative umane e ostinarsi a pensare che il male sia eliminabile è un errore di valutazione o di prospettiva. Il dolore c’è: calamità naturali, tragedie personali, ingiustizie sociali sono delle sventure evidenti. E se ci spostiamo di qualche grado di latitudine, uscendo dalla nostra società funzionale e confortevole o se osserviamo la storia non abbiamo dubbi sulla dimensione del dolore eccessivo che non solo gli uomini, ma tutte le specie hanno dovuto (e devono) patire. Non è un caso che nella bella preghiera cristiana del “Salve Regina” si qualifichi il mondo come una «valle di lacrime». François-René de Chateaubriand, all’inizio dell’Ottocento, difendendo la bellezza del Cristianesimo nell’opera “Genio del Cristianesimo”, scrive infatti che «Il cristiano si vede sempre nelle vesti di un viaggiatore che passa quaggiù in una valle di lacrime e che trova riposo soltanto nella tomba. Il mondo non è l'oggetto dei suoi desideri, perché il cristiano sa che l'uomo vive pochi giorni, e sa che quell'oggetto presto gli sfuggirebbe». Nessuno, dunque, ha dubbi sui mali di questo mondo. Ma se usiamo una categoria cara alla filosofia, potremmo dire che la natura è “al di là del bene e del male”, ossia non ha un’intenzionalità positiva o negativa nei confronti dell’uomo, non premedita gli eventi, è inconsapevole di ciò che accade, indifferente al benessere del singolo individuo come a quello di un popolo; è imperturbabile alle gioie e alle sofferenze degli uomini, estranea ai loro scopi. Per la natura è irrilevante cosa accade agli esseri senzienti, perché essa non ha possibilità di sentire né di volere. Parafrasando Kant potremmo definire il suo movimento una sorta di “estraneità senza intenzione”. Chiediamo allora il senso del dolore per pura incomprensione del meccanismo che può generare danno agli individui. La dimensione della natura rimane pertanto extramorale, in quanto le categorie della morale ad essa non possono essere applicate. Però il male esiste, come offesa per la vita delle varie specie. A partire da questa fredda estraneità del mondo fisico, che fa implodere il nostro bisogno di senso, possiamo tuttavia ricavare sia una definizione di male sia un rimedio ad esso: il male è indifferenza verso la sofferenza. Se il danno che si patisce deriva dall’imperturbabilità della natura nei confronti di tutte le specie viventi, allora si può pensare di correggere la fonte del dolore. L’uomo ha il dovere di intervenire sulla natura riducendo lo svantaggio che essa può procurare: la ricerca scientifica e la tecnologia servono soprattutto a mitigare i danni che non solo gli uomini, ma anche tutte le specie possono subire. Se la forza annientatrice dell’universo non si può certo sensibilizzare, si può tuttavia limitare e in parte arginare. Se il male è invece il prodotto dell’azione dell’uomo, allora è necessario rimuovere l’indifferenza per imparare a sentire l’altro e la sua pena. Da una parte la potenza della natura va ridimensionata, dall’altra l’apatia dell’uomo va sradicata. Il senso non sta nel dolore, ma nell’attività umana, che è in grado di contenere l’indifferenza della natura e accrescere la propria sensibilità all’altro e al sistema di relazioni in cui è inserito.
Un caro saluto,
Alberto