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Cor-rispondenze

lunedì 28 settembre 2009

Ho capito chi sono


Caro professore,

Circa due anni fa ero il tipico ragazzo “a posto”; facevo sempre quello che dicevano i miei e cercavo di compiacere gli altri, tuttavia ero sempre pervaso da un senso di insoddisfazione, perciò a quel punto mi sono reso conto che non ero felice: non ero felice perché non ero me stesso, cercavo sempre di essere qualcun altro, un altro che credevo sarebbe piaciuto di più agli altri; invece non era così, e solo adesso mi rendo conto che non piacevo perché le altre persone non riuscivano a capire ciò che ero veramente. Ho iniziato dunque a smettere prima di tutto di subire, in ogni senso, e a battermi per ciò che credevo, per ciò che volevo, e mi sono reso conto che in questo mondo per sopravvivere alla vita di tutti i giorni bisogna svegliarsi e cercare prima di tutto di avere uno scopo per vivere. Cercando dunque di pensare più a me stesso sono riuscito ad essere me stesso, e ho capito che questo è nato proprio dal fatto di non cercare di compiacere gli altri, convincendomi di valere tanto quanto agli altri. Mi ci sono voluti due anni, ma anche adesso che ho 18 anni non mi sento ancora di dire che mi “capisco” completamente, perché sto ancora crescendo e la vita mi insegna ogni giorno qualcosa di nuovo. Ci sono stati periodi di questo cambiamento che mi hanno portato a commettere molti errori nei confronti degli altri; un po' come autodifesa, come vendetta di quello che avevo subito io, vedevo i miei aspetti negativi negli altri. Una cosa però credo di averla capita, ho imparato ad agire non in conseguenza degli altri, ma seguendo il mio cuore, le mie passioni, e ho smesso di sperare che ogni giorno fosse felice, e a volte ringrazio in qualche modo di essere infelice perché so già che dopo troverò le felicità che è, secondo me, la cosa più importante della vita, il sogno più grande, la cosa per eccellenza per cui vale la pena lottare e non rinunciare mai, perché rinunciare alla possibilità di essere felici equivale a rinunciare alla nostra vita. Per ora, il mio desiderio più grande è realizzarmi pienamente, non passare inosservato, lasciare qualcosa di me, fare qualcosa (non so cosa) di bene, perlomeno alle persone che mi amano. Riuscirò, se ci crederò fino in fondo, a realizzarmi? Grazie.

Marco

Caro Marco,
Il grande psicoanalista austriaco di origini ebraiche, Bruno Bettelheim (1903-1990), ha pubblicato un libro (bellissimo) sull’interpretazione psicoanalitica delle fiabe: Il mondo incantato [Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, 1982, 2003]. Partirò dunque da una storia – tratta dai fratelli Grimm e interpretata tanto tempo fa dall’autore - che ha come titolo «La Guardiana delle oche», perché fa riferimento alla conquista dell’autonomia.
La storia è questa.
Una vecchia regina ha una figlia bellissima. Quando arriva il momento di spo­sarsi la madre le consegna gioielli e tesori preziosi perché la ragazza deve recarsi in un paese straniero. Incarica anche una cameriera di accompagnarla. Entrambe hanno un cavallo, ma quello della principessa (Falada) è in grado di parlare. Prima di partire, la mamma prende un coltellino e si fa un taglietto su un dito fino a sanguinare; lascia cadere tre gocce di sangue su un fazzoletto bianco, poi lo consegna alla figlia e le dice di conservarlo con cura perché le servirà nel viaggio. Durante il tragitto la principessa, assetata, chiede alla cameriera di portarle dell'acqua da un ruscello nel suo boccale d'oro. La cameriera si rifiuta, afferra il boccale e le dice di scendere da cavallo e di andare a bere da sola, perché lei non farà più la sua serva. La scena si ripete, ma questa volta chinandosi per bere, la principessa perde il fazzoletto nella corrente del ruscello. La cameriera vedendo la sua debolezza la costringe a cambiare cavalli e vestiti, e le fa giurare di non rivelare a nessuno lo scambio. Quando arrivano a corte, la cameriera viene pertanto scambiata per la principessa e alla vera principessa viene affidato l’incarico di guardiana delle oche. La falsa promessa sposa chiede al re (il suo fidanzato) di decapitare Falada, perché teme che possa rivelare la sua malvagità. Il cavallo viene decapitato, e la testa viene inchiodata su un portone dal quale la vera principessa passa ogni giorno per portare al pascolo le oche. Tutte le volte che la principessa, insieme ad un garzone con cui bada alle oche, passa dal portone e saluta il suo vecchio Falada, il cavallo le risponde che se la madre sapesse cosa sta accadendo morirebbe dal dolore. Giunta al pascolo, la principessa si scioglie i capelli che hanno il color dell’oro, e il ragazzo cerca di strappargliene qualcuno. La principessa glielo impedisce e chiama in soccorso il vento che soffia via il cappello del ragazzo, che pertanto deve rincorrerlo. La scena si ripete per qualche giorno e il ragazzo si lamenta con il re. Il vecchio re os­serva la scena e alla sera chiede una spiegazione alla ragazza, che si rifiuta per via del giuramento. Il re insiste, ma niente da fare. Poi però accetta il consiglio del re di raccontare la storia non ad un uomo, ma al focolare. Il re, così, la ascolta di nascosto. Il giorno dopo alla ragazza vengono date vesti regali e tutti vengono invitati a una grande festa. La vera principessa e la traditrice siedono accanto al sovrano. Alla fine del banchetto il vecchio re chiede alla donna ingannatrice di indicare una giusta punizione per una persona che avesse compiuto certe azioni (e le descrive proprio quello che lei ha fatto). La donna che non sa di essere stata scoperta, risponde che la pena adeguata consiste nel denudare la ragazza, metterla in un barile pieno di chiodi e far trascinare il barile da due cavalli bianchi fino a far morire la persona. Il re le dice che ha individuato la giusta punizione per se stessa. E dopo l'esecu­zione, il re giovane e la vera principessa si sposano e … vivono felici e contenti.
Vediamo ora alcuni significati e poi il collegamento con la tua storia.
Il tema è quello della conquista dell’autonomia. La ragazza si deve fare una vita indipendente dai genitori (sposare il principe). Ma nessun genitore anche se importante, ricco o potente come la regina, può assicurare lo sviluppo e la maturità del proprio figlio; anche la figlia della regina deve affrontare da sola le prove della vita, non può aspettarsi che qualcuno la preservi dalle conseguenze della propria debolezza; tesori e gioielli, ossia le ricchezze materiali, non servono a nulla se non si è in grado di prendersene cura (per inciso: il fazzoletto con le tre gocce di sangue indica la maturità sessuale; la perdita significa che nel suo intimo non era abbastanza matura per diventare donna). Insomma: nulla ci assicura contro i danni dell’immaturità e della dipendenza dell’infanzia: il rispetto diventa subordinazione, il legame obbedienza e sottomissione, la stima soggezione, ma la maturità implica una conquista individuale della propria autonomia, e ognuno deve affrontare i pericoli della propria lenta (e faticosa) evoluzione. La fiaba insegna che chi rimane aggrappato all'immaturità, provoca una tragedia per se stesso e per chi gli sta vicino (Falada), e che gli eventi negativi che accadono alla ragazza dipendono dal fatto che non riesce mai a farsi valere. Fino a quando siamo bambini non vogliamo rinunciare alla dipendenza, abbiamo paura a prendere distacco dai genitori, sentiamo di muoverci con passi incerti; ma se uno rimane dipendente (dalla mamma o dalla cameriera) non matura. Bettelheim dice però che se si rimane fedeli a sé, per quanto le cose possano sembrare disperate per un certo tempo, vi sarà un lieto fine. Ora voglio dirti una cosa che a me sembra importante: l'indipendenza e il superamento dell'infanzia richiedono lo sviluppo della personalità, non abilità nello svolgere i compiti. La maturità non è data da un insieme di competenze acquisite, ma da una graduale evoluzione della propria personalità.. Si conquista gradualmente e non dipende dalle “cose” che si sanno fare. L’evoluzione interiore sta su un altro piano. Chi è molto abile in una certa attività non per questo è maturo e sicuro di sé. Il boccale d’oro e i capelli indicano due comportamenti diversi in situazioni analoghe: il primo passivo e il secondo attivo, autonomo, indipendente. La conquista dell’indipendenza fa sì che la ragazza non sia più turbata dalla reazione infastidita del ragazzino. La guardiana delle oche ha imparato che è difficile essere se stessi, ma che solo grazie all’autonomia si può trasformare il proprio destino ed essere liberi e felici; e anche tu stai sperimentando qualcosa di analogo. Compiacere gli altri per essere accettato, infatti, a lungo andare produce insoddisfazione e insofferenza e, come dici tu, mancanza di felicità. Ma se ti batti per ciò in cui credi e desideri, anche se in certi momenti ti sembrerà di percorrere un sentiero intricato (talvolta incomprensibile), riuscirai invece a conquistare il tuo spazio, l’indipendenza e la capacità di rispondere delle tue azioni. La capacità che hai sviluppato di tollerare le frustrazioni, di contenere le delusioni o i piccoli, ma inevitabili insuccessi - perché poi sai che la vita ti proporrà momenti migliori -, è un grande segno di maturità, un tratto importante di equilibrio e di saggezza. Concludo con una citazione di un grande sociologo contemporaneo, Zigmunt Bauman, che nell’Arte della vita [Laterza, 2009] scrive: “E quando ti chiedi se si possa raggiungere la piena felicità, probabilmente credi di poter conquistare, individualmente e autonomamente, un modo di vivere più gradevole, degno e soddisfacente; e sei disponibile a fare quel tipo di sforzo e a sopportare forse quel tipo di sacrificio che qualsiasi causa degna richiede e a fare ciò che di scomodo essa impone a chi la sostiene. In altri termini, ponendoti tale domanda hai indicato che, anziché accettare placidamente e docilmente lo stato di cose esistente, sei propenso a misurare la tua forza e la tua capacità secondo gli standard, i compiti e gli obiettivi che hai definito per la tua vita, e non viceversa: a misurare le tue ambizioni e finalità con le forze che ritieni di avere o di poter mobilitare in questo momento”. La vita è un’opera d’arte di cui tu sei l’artista. Per essere riconoscibile, devi lavorare per renderla unica, giorno dopo giorno, pennellata dopo pennellata. Non solo la realizzazione è possibile, ma è anche il senso della vita.


Un caro saluto,

Alberto

lunedì 21 settembre 2009

La morale e gli altri


Caro professore,

come dividere i problemi scolastici da quelli personali? Vedo i professori più dei miei genitori, i miei compagni sono come fratelli e faccio parte di questa micro-comunità come cittadina a tutti gli effetti. Sono qui: e rispetto le regole che la buona convivenza impone, cerco di non fare torti ma, quando mi riesce, tendo il braccio per afferrare quello di qualcuno in difficoltà. Credo nel rispetto reciproco, nell'importanza del rispetto di un impegno preso; vedo nel professore la guida dantesca che ci accompagna per un percorso che spesso appare infernale; credo nella correttezza nei confronti degli altri, per quanto mi possa costare, ed accetto le conseguenze delle mie scelte. Ma questa barca affonda, c'è chi le regole non le rispetta e di interessi conosce solo i suoi, e io, povera sognatrice, ci rimetto e perdo, perché per rispettare ciò che credo e pensare al bene comune a volte faccio delle rinunce. Sono comunque orgogliosa di quel che sono, ma molto disillusa ed amareggiata; con un po' di fiducia spero di non essere io ad aver sbagliato tutto, solo perché ogni tanto penso un po' più in là.

Carlotta

Cara Carlotta,
Già, come isolare i problemi scolastici da quelli personali? La scuola è una seconda casa, ma poiché spesso è il luogo in cui incontriamo contemporaneamente coetanei e adulti, la scuola diventa il nostro primo vero mondo, il grande teatro dove siamo maggiormente chiamati alla condivisione e all’interazione con gli altri. La classe è una micro-comunità e tu ne fai parte come “una cittadina a tutti gli effetti”. Proprio così. Nella scuola facciamo esperienza della piacevolezza delle relazioni, ma sperimentiamo anche la fatica e le delusioni dell’agire collettivo. Nella classe prendiamo decisioni, ci animiamo, diamo spazio a noi stessi e sentiamo gli altri che agiscono con noi e accanto a noi; impariamo a sentire le loro emozioni, ma anche a riconoscere le nostre; avvertiamo gli umori, le gioie e le frustrazioni di compagni e insegnanti; maturiamo la capacità di identificarci con le emozioni o con i problemi degli altri; impariamo a prenderci cura non solo di noi stessi ma anche dei compagni; osserviamo lentamente le nostre metamorfosi, e vediamo dischiudersi senza fretta le personalità dei coetanei che da semplici com-presenze si trasformano in amici o confidenti. Incominciamo a conoscere la complessità delle persone, sentiamo che ogni tentativo di definirli è provvisorio e riduttivo, che le personalità sono complesse, talvolta enigmatiche; conosciamo il riserbo, la sfacciataggine, le debolezze e l’audacia, ma impariamo anche a capire che la riservatezza e la misura sono punti di forza e che l’audacia talvolta nasconde insicurezza; il protagonismo, incertezza. Per questo a volte il percorso ti appare “infernale”. Però in tutto questo stai facendo anche una importante esperienza di democrazia. E nelle relazioni che hai instaurato hai imparato anche a distinguere che cosa è personalmente conveniente da ciò che è giusto, ciò che è individualmente vantaggioso da ciò che è retto, ciò che è comodo da ciò che è vero; in questo lungo periodo che è il percorso scolastico stai dunque modellando e consolidando il tuo senso morale. Hai imparato che il contesto in cui viviamo richiede delle soluzioni a volte di compromesso tra le esigenze dei nostri istinti e la realtà del vivere insieme.
Se guardiamo al mondo della nostra infanzia a volte ci assale la nostalgia di un mondo meno problematico, più bello. Uno psichiatra contemporaneo, Aldo Carotenuto, in un bel libro dal titolo Attraversare la vita, [Bompiani, 2001], scrive: “Ma cos'è che rende l'infanzia così appetibile? A meno che non ci si sia dovuti confrontare con esperienze di grave deprivazione affettiva, i primi anni della nostra vita sono segnati dalla risoluzione 'magica' dei conflitti e delle tensioni. Bastava un grido o una lacrima, per richiamare su noi le attenzioni di un adulto, pronto a dissipare qualunque malessere. Si tratta di un'esperienza che, agli occhi di un bambino, ha del magico, giacché egli non sa definire con precisione da cosa nasca il suo bisogno e come venga esaudito, ma sa che il suo grido d'aiuto è come una bacchetta magica. L’esaudimento dei suoi desideri alimenta la sua onnipotenza primaria, ossia la fiducia nel fatto che non è in balìa degli eventi, ma che può in un certo modo influenzarli con la sua voce. Questo è il primo nucleo psicologico stabile nella personalità del bambino, da cui poi dipenderanno i suoi futuri intenti esplorativi del mondo circostante e la fiducia che sente di poter avere negli altri”. I malesseri nell’infanzia spariscono presto, qualcuno si prende cura di noi, ci viene subito incontro e i nostri bisogni vengono quasi immediatamente esauditi. Nella classe incontriamo gli altri e, negli altri, il mondo; ci rendiamo conto che c’è chi non rispetta le regole, non ha riguardo per le convenzioni e non si uniforma alle disposizioni della convivenza civile. Ha ancora bisogno di regole esterne. Vedo che stai interiorizzando i principi e ti preoccupi per la vita in comune, anzi hai sviluppato, attraverso la capacità di sentire empaticamente, il desiderio di aiutare chi momentaneamente si perde o rimane un po’ più indietro. Stai uscendo dalla fase dell’infanzia e la tua attenzione non è concentrata solo su di te, sui tuoi bisogni: a differenza di altri rispetti “le regole che la buona convivenza impone” e ti sforzi di “non fare torti”. Ti sai assumere le responsabilità delle conseguenze delle tue azioni, e stai maturando la fiducia nella figura dell’insegnante che consideri come la guida dantesca che ci accompagna per un percorso che spesso appare infernale. Per fare tutto questo e per pensare anche al bene dei tuoi compagni sei costretta a fare delle rinunce, magari a frenare la tua energia e la tua vitalità. Però non stai più subendo le regole passivamente, in modo apatico e stanco, ma sei attiva, vitale. Questi comportamenti sono i comportamenti di una persona matura. La disillusione vuol dire che ti stai rendendo conto della realtà, ma i tuoi tempi di sviluppo non sono anche i tempi degli altri; ciò che per noi è diventato indispensabile talvolta non riesce ancora a raggiungere il cuore di alcuni compagni. Saper guardare un po’ più in là rispetto al proprio ego, significa però aver imparato a guardare nella direzione giusta. Che cosa si ottiene? Seneca nei Benefici dice: “«Che cosa otterrò», chiedi, «se farò ciò coraggiosamente e con riconoscenza?». Di averlo fatto: non ti si promette nulla oltre a ciò. Se per caso ne conseguirai qualche vantaggio, dovrai considerarlo un sovrappiù. La ricompensa delle buone azioni consiste nelle azioni stesse”.

Un caro saluto,
Alberto

lunedì 14 settembre 2009

Affezionarsi troppo


Caro professore,

Quando ci ha proposto di scriverle per la sua rubrica sinceramente non mi sono sentita in grado di farlo, soprattutto perché non avevo idea di quale tematica proporle.
Ci ho riflettuto un po' e alla fine ho deciso di fare una domanda, alla quale nessuno riesce a rispondermi in modo convincente, ovvero: è giusto o sbagliato affezionarsi troppo alle persone? O meglio, se incontriamo una persona speciale, che ci fa star bene, ma in fondo la conosciamo da poco tempo, è giusto affezionarsi subito?
Quando conosciamo qualcuno che crediamo il ragazzo, o la ragazza, ideale, quello con cui potrebbe esserci qualche cosa di più di una semplice amicizia... magari non ancora l’amore ma un affetto particolare, un certo feeling… E’ difficile non cominciare a volergli bene, a non smettere di pensare a lui, a non vedere l'ora che ci chiami..., insomma tutte quelle piccole cose che ci rendono felici e ci fanno sorridere. Ma per una serie di circostanze tutto finisce male. Se la persona che credevamo perfetta in realtà non lo era, tutti i nostri castelli crollano con un soffio, stiamo male, piangiamo e malediciamo quella persona che pure era speciale... era o è?

Morgana


Cara Morgana,

Il problema non è capire se sia giusto o sbagliato, ma perché emotivamente avviene così. Perché tendiamo ad affezionarci subito, e anche molto, a certe persone?
Spesso trascuriamo il fatto che noi siamo corpo e che siamo agiti da una serie di istinti. L’istinto è volontà di vita (Schopenhauer), pulsione sessuale (Freud), bisogno inconscio e involontario che ci porta verso gli altri. In questo senso non lo possiamo controllare molto, è una forza troppo potente che viene prima della nostra soggettività. Pensiamo spesso di poter governare i nostri pensieri, ma non dobbiamo trascurare che la soggettività del corpo ci abita profondamente e che l’istinto ha le sue ragioni. L’istinto sessuale ci spinge ad andare verso gli altri e la strategia che mette in atto per ottenere questo risultato è l’idealizzazione dell’altro. Ma dietro tutto questo è la specie che agisce. Quello che ti dico, so che non è molto romantico, ma bisogna pensare che anche il romanticismo è uno strumento che agevola la riproduzione e i rituali di corteggiamento sono le norme che facilitano la scelta del partner. Allora il tentativo di tradurre quello che proviene dall’inconscio in razionalità produce rappresentazioni inadeguate, manchevoli, equivoche, perché il vero soggetto della decisione è il corpo. Questa è la grande lezione di Schopenhauer, ripresa da Nietzsche, da Freud, e dalla biologia contemporanea (Dawkins). La vita vuole la vita, non bisogna dimenticarlo.
Ma, da un punto di vista esistenziale, che cosa rappresenta questo bisogno di affezionarsi agli altri? Credo che l’altro indichi un’apertura verso il futuro e verso la realizzazione di se stessi. In ogni persona che ci interessa intravediamo un ponte verso il futuro e magari un pezzo del nostro futuro. Si apre un nuovo orizzonte di vita da esplorare. Se poi la persona è carina e abbiamo degli interessi in comune, ci sembra di aver trovato un compagno di strada. Spesso ci muoviamo chiusi nel perimetro dell’abitudine, nell’ambito di cose relativamente conosciute, con le quali siamo in equilibrio. Ma l’equilibrio della persona è dinamico e ognuno di noi, soddisfatti alcuni bisogni primari importanti, punta verso la propria autorealizzazione. E la realizzazione di sé passa attraverso le possibilità che possiamo intravedere e gli spazi in cui possiamo sperimentare la nostra forza.
Credo sostanzialmente che l’altro sia così importante perché ci libera. Ci consente di uscire dall’abitudine, dalla routine, magari da una certa catena di pensieri a cui inconsapevolmente ci sentiamo legati. L’altro sta lì a dirci che le cose possono accadere diversamente, che tutto ciò che ci sembrava una regolarità basata su meccanismi di causa-effetto può essere spezzata. L’altro allora è per noi la possibilità di un nuovo inizio. È per questo che proiettiamo sull’altra persona tutte le cose belle: perché intravediamo un futuro. E là dove si apre lo spazio del futuro si intuiscono nuove possibilità e si attiva l’immaginazione, e l’immaginazione attiva il comportamento.
Che cosa accade con l’altra persona? L’allegria ci dà forza, la spontaneità ci fa sentire accettati, il sorriso ci rassicura, la premura ci fa sentire importanti e ci aiuta a costruire un’immagine positiva di noi stessi; otteniamo dunque continue conferme sulla nostra identità. Se poi ha anche una visione del mondo simile alla nostra, allora ci sentiamo più sicuri di poter andare incontro alla felicità che consiste nella realizzazione della nostra vita, nel compimento del progetto di noi stessi.
L’ansia di sollevarci da una condizione di stabilità, di evadere dalla prigione della quotidianità, viene annullata dal desiderio che, come un ponte verso il futuro, ci permette di rompere l’inerzia che ci trattiene nel presente. Ci consente di andare oltre l’abitudine senza farci sentire la preoccupazione e le conseguenze negative di un possibile fallimento. Il desiderio è un’energia talmente forte che supera le resistenze delle nostre opposizioni. È giusto? Non lo so, ma è importante. Perché senza energia non c’è amore, e non scatta neppure l’innamoramento. È l’energia di una persona (il fascino) ad attirarci, ed è la nostra energia che può scuotere l’altra persona e attirarla a noi.
L’altro ci libera dalle nostre presunte certezze, dall’inclinazione alla ripetizione, da ciò che credevamo immutabile o subivamo come immutabile, da ciò che circoscrive il nostro mondo. Dalla prigionia della solitudine, dal distacco dal mondo, dall’esclusione, da una schiavitù più o meno autoimposta, dalla dipendenza, dalla monotonia.
Il filosofo italiano Salvatore Natoli in un saggio contenuto nel volume A proposito di libertà, [Editrice San Raffaele, 2009 a cura di Michele Di Francesco], ci aiuta però a pensare più in profondità. Egli dice, infatti, che la libertà è “libertà dal dolore della nostra condizione e dalla mancanza di amore, ossia dal non poter esprimere l’amore”.
Trovo bellissima questa riflessione: l’altro ci libera dalla mancanza di amore che ci toglie il respiro e ci spegne. Nell’altro vediamo infatti la possibilità di poter esprimere l’amore. Nell’altro sperimentiamo la vertigine della libertà e che il significato delle cose può essere diverso. Natoli spiega allora che l’investimento emotivo è forte perché abbiamo bisogno di creare un legame forte che ci porti lontano. Abbiamo bisogno di un forte investimento affettivo per creare energia sufficiente ad uscire dalla nostra attuale condizione. Più c’è energia più la liberazione è forte e significativa. Infatti, i legami senza grande investimento di energia non ci portano lontano, al massimo ci distraggono per un po’, ma non innescano la speranza che è una molla potente per la trasformazione e per il cambiamento. Il legame debole, dice Natoli, è incapace di legare, e non ci consente di compiere quel salto in grado di trascinarci fuori dall’ordinario. Mi viene in mente una frase famosa di Kant: la colomba che sbattendo le ali sente la resistenza dell’aria, potrebbe pensare che nel vuoto volerebbe meglio [Kant, Critica della ragion pura]. Ma sappiamo che nel vuoto non volerebbe affatto. Quindi, senza legame, senza vincolo, senza resistenza non c’è movimento, non c’è cambiamento. Il mutamento delle abitudini e dei pensieri avviene grazie a dei legami. Se ci pensi, si parla di vincolo sentimentale, ma il vincolo viene ricercato proprio perché libera e consente la propria trasformazione. Allora: la persona è speciale? Se riesce a farci compiere il salto che ci libera, sì, sempre.

Un caro saluto,

Alberto

lunedì 7 settembre 2009

I gruppi e l'infelicità

Caro professore,

Perché l’uomo cerca a tutti i costi di fare parte di un determinato gruppo? Girando per le strade è impossibile non notare che la società è divisa in gruppi, che si differenziano tra di loro per modo di vestire, di parlare e di comportarsi. Gli appartenenti ad un determinato gruppo tendono a escludere o a disprezzare i membri di altri gruppi, vantando la loro appartenenza al gruppo. Esistono inoltre gruppi definiti “superori” o “inferiori”, come le classi sociali in cui gli “inferiori” vorrebbero essere “superiori” e i “superiori” disprezzano chi sta sotto di loro.
Quindi mi sorge un’altra domanda: perché questa divisione persiste, nonostante provochi l’infelicità nelle persone?
Alberto


Caro Alberto,
A volte i gruppi nascono dalla semplice vicinanza: nel territorio conosciamo gli amici, nella classe i compagni; ma i gruppi si formano nei modi più diversi: per le scelte lavorative, per lo status sociale, per valori condivisi, per passioni, per credenze religiose, per interessi comuni. I sociologi parlano anche di “gruppi di riferimento”, ossia di quei gruppi di persone con le quali abbiamo un rapporto e che teniamo presenti quando pensiamo o dobbiamo prendere decisioni. Però, come ben sai, la vita di gruppo è fondamentale e non solo nell’adolescenza.
Nel gruppo creiamo infatti legami affettivi intensi, amicizie uniche, viviamo esperienze profonde e condividiamo molti sentimenti; sperimentiamo la fiducia, la lealtà, la collaborazione, l’intimità, la sicurezza, il coinvolgimento. Ci sentiamo protetti, e proviamo la sensazione rassicurante di appartenere a qualcuno, di essere riconosciuti e accettati. I gruppi ci accompagno per tutta la vita, ed è attraverso il gruppo che spesso ci avviciniamo alle altre persone e socializziamo con loro. Spesso diventiamo riconoscibili a qualcuno se diciamo a quale gruppo apparteniamo o a quale gruppo facciamo riferimento. In qualche modo l’altro si avvicina a noi se riesce a riconoscere i vari gruppi di cui facciamo parte: rispetto alle amicizie, alle compagnie, alle passioni, ai desideri (…alle scelte musicali, politiche e religiose, ovviamente). Il gruppo è importante perché nel gruppo abbiamo un rapporto paritario con gli altri, mentre con i genitori il rapporto è di tipo verticale. Il gruppo è il luogo in cui diventiamo liberi nelle nostre decisioni, autonomi nelle nostre relazioni e indipendenti dai genitori. Nel gruppo scegliamo delle persone che hanno affinità con la nostra visione del mondo o con il nostro modo di vivere; che hanno affinità caratteriali, di sensibilità o interessi comuni. Stiamo in un gruppo fino a quando ci troviamo bene e poi capita, a volte, che decidiamo di passare in un altro gruppo quando i nostri bisogni e i nostri interessi sono cambiati; ma capita anche che ci siano dei gruppi a cui facciamo riferimento per tutta la vita, nonostante i nostri cambiamenti. Il gruppo è importante, ma – come dici tu – a volte i gruppi che nascono casualmente possono far soffrire le persone. Penso allora ai gruppi delle minoranze emarginate e al fatto che si fa sempre valere una distinzione tra un “noi” e un “loro”, che non serve solo a descrivere certe analogie e certe differenze, ma purtroppo ad escludere.
Tu dici giustamente che “Gli appartenenti ad un determinato gruppo tendono a escludere o a disprezzare i membri di altri gruppi”. Il filosofo statunitense Charles Taylor (Montreal 1931) dice che tutti gli uomini hanno bisogno di riconoscimento. “Hanno bisogno” o “fanno domanda” di riconoscimento. Il bisogno di riconoscimento è alla base dei movimenti nazionalistici, mentre la semplice domanda è tipica di alcuni gruppi minoritari che vivono in una società multiculturale come la nostra. Entra dunque in gioco un problema importante che è quello dell’identità (che cos’è questo “noi” che fa pesare così tanto le differenze?).
L’identità deriva da un lungo processo di riconoscimento, ossia dopo una lunga fase di socializzazione. Esiste dunque un profondo legame tra riconoscimento e identità. (Per inciso, l’identità è - secondo Taylor - “più o meno, la visione che una persona ha di quello che è, delle proprie caratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano”). Infatti non solo - come dici tu - si creano gruppi “superiori e inferiori”, ma i gruppi dominanti cercano di far prevalere la propria forza e in più inculcano anche nei soggiogati un’immagine di inferiorità (tolgono cioè riconoscimento), ed è per questo, dice l’autore, che la lotta per la libertà e l’uguaglianza deve preoccuparsi di modificare anche questa immagine.
La tesi del filosofo è che l’identità di una persona “è plasmata, in parte, dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento o, spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società che lo circondano gli rimandano, come uno specchio, un'immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia. Il non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare, può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito”. [Jürgen Habermas e Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli 2008].
Uno stato deve consentire pari opportunità sociali a tutti e ovviamente deve fare in modo che i diritti fondamentali siano universali, ossia accessibili a tutti. Ogni persona deve poter vivere con aspettative di sicurezza, giustizia sociale, benessere, assistenza sanitaria e con i diritti politici di partecipazione. Molti sono i gruppi che necessitano di uscire dalla condizione di inferiorità o di anonimato (quando non di totale privazione dei diritti elementari): minoranze culturali, persone che lottano per l’indipendenza dal colonialismo, per la conquista dei diritti fondamentali, per il riconoscimento delle loro culture; oppure gruppi di persone oggi svantaggiate: a volte le donne, gli omosessuali, i disabili, gli asiatici, gli africani o gli stranieri più in generale. Garantire l’integrità delle tradizioni in cui si riconoscono e tutelare i loro progetti di vita deve diventare il compito di uno stato democratico, perché la distinzione non crei esclusione, rifiuto o allontanamento.
Secondo il filosofo tedesco Jürgen Habermas (Düsseldorf 1929) per evitare di far soffrire le persone, occorre creare una “comunità inclusiva” che non escluda in linea di principio nessun soggetto, perché ogni soggetto è in grado di fornire contributi importanti alla collettività; pertanto, per includere bisogna tenere conto anche degli orientamenti e dei valori delle altre persone.
Habermas parla di un’inclusione “sensibile alle differenze”. Scrive l’autore: “E la responsabilità solidale per un altro visto come uno di noi si riferisce in realtà al "noi" flessibile di una comunità che - riluttante verso ogni forma di sostanzialità - estende sempre "più in là" i suoi porosi confini. Questa comunità morale può fondarsi soltanto sull'idea negativa di eliminare discriminazione o sofferenza e di includere gli emarginati (ogni emarginato) nell'ambito del reciproco rispetto. Questa comunità - concepita in termini costruttivi - non rappresenta affatto un collettivo in cui appartenenti in uniforme debbano esaltare quanto è loro specificamente proprio. Inclusione qui non significa accaparramento assimilatorio né chiusura contro il diverso. Inclusione dell'altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche - e soprattutto - a coloro che sono reciprocamente estranei e che estranei vogliono rimanere” [Jürgen Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli 2008].


Un caro saluto,
Alberto

mercoledì 2 settembre 2009

Lo stesso profondo sentimento


Caro professore,

Come è possibile che una persona susciti in un’altra sempre lo stesso profondo sentimento? E come è possibile che bastino poche parole o azioni sbagliate a cambiarlo del tutto?

Ilaria

Cara Ilaria,
Mi incuriosisce la tua domanda: stessa persona = stesso sentimento (a volte profondo), credo che tu intenda sia in positivo sia in negativo. Come può una persona suscitare lo stesso sentimento a distanza di tempo in un’altra?
Proverò a risponderti seguendo questo percorso: a) lo stesso sentimento non nasce per la natura dei soggetti; b) per mantenere un sentimento profondo bisogna essere attivi e non passivi.
a) lo stesso sentimento non nasce per la natura dei soggetti;
Allora che cosa accade quando due persone provano lo stesso sentimento? Avviene come tra due magneti? È perché la parte positiva attrae sempre quella negativa o perché le parti con lo stesso segno si respingono continuamente? Ossia avviene per la loro intrinseca natura? Credo di no. È allora come è possibile che due persone, che vivono incessanti cambiamenti interiori ed esteriori, possano provare lo stesso “profondo sentimento” quando si incontrano?
Io penso perché continuano ad alimentare nuovi pensieri positivi (o negativi) sulla stessa persona. La presenza dell’altra persona attiva dentro la nostra mente mappe neurali (della felicità o della repulsione) che in passato avevamo creato. Vengono richiamate alla memoria queste emozioni di piacere o di dolore. La consapevolezza di queste emozioni produce sentimenti positivi o negativi e da questi nascono nuovi pensieri che già ci dispongono positivamente o negativamente verso di lei. L’altro, d’altra parte, reagisce allo stesso modo e, se la comunicazione era stata positiva, ossia aveva prodotto piacere, ognuno dei due si dispone già in una modalità di apertura, di ascolto, di fiducia e di comprensione. Questa modalità di relazionarsi influenza nuovamente i sentimenti e le emozioni.
Il fatto che si provi continuamente un profondo sentimento non indica che le parti sono invariate come nella calamita, indica all’opposto che questo è possibile proprio perché nelle due persone avvengono microscopici adattamenti, continue rielaborazioni, e che viene alimentato un flusso costante di pensieri e di sentimenti, anche a distanza. È grazie al continuo rinnovamento dell’immagine e della rappresentazione dell’altro che si possono mantenere affetti così profondi e duraturi. I pensieri sono certamente responsabili di questo continuo rinnovamento. Grazie al rinnovamento, si consolida la nostra affettività.
b) per mantenere un sentimento profondo bisogna essere attivi e non passivi.
Penso che potremo riassumere questa idea con questa espressione: nella ripetizione si conquista l’(ir)ripetibile. Cioè la profondità della relazione. Vediamo.
Di solito ci viene ricordato cha la nostra vita è irripetibile, ma noi sappiamo che nella nostra vita avvengono però moltissime ripetizioni: persone, eventi, comportamenti. Quello che spesso dimentichiamo è che proprio nelle ripetizioni si crea l’unicità e la specificità dell’esistenza. Mi spiego. Facciamo l’esempio del ripetersi del movimento di una lancetta dell’orologio. Dopo qualche tempo la lancetta ripercorre lo stesso movimento sul quadrante, ma è indifferente agli infiniti passaggi precedenti. Tutto è nuovo, anche se inaugura lo stesso giro.
Oppure consideriamo la ruota di una bicicletta: ogni rotazione generata dai pedali sembra identica a quella precedente. C’è dunque una ripetizione invariata nel movimento delle lancette dell’orologio e nel movimento della ruota. Per le persone è diverso: ogni volta che incontri un’amica, una compagna di scuola, una persona a cui sei affezionata avviene qualcosa di particolare. Tutte le mattine entri in classe e dici ciao ai tuoi compagni. Come un rito. Tutte le mattine, come il giro della ruota. Ma dopo qualche tempo ti rendi conto che quel ciao è più affettuoso o più distaccato, che a volte può essere premuroso, tenero, caldo o più indifferente e disinteressato. Pensa solo alla differenza tra il ciao d’inizio anno e il ciao che vi congederà alla fine dei cinque anni di liceo. Stessa parola, stessa persona, risultati completamente diversi: quella parola è dunque in grado di produrre una iniziale curiosità, un timido interesse, una profonda gioia, un grandissimo sorriso e anche una nostalgia da nodo alla gola che ti farà sciogliere anche molte lacrime. Questo è per dirti che la ripetizione anche di frasi simili produce un cambiamento dentro di noi. Crea un legame e genera la nostra storia. Ora torniamo al punto 1: l’esperienza origina pensieri che influenzano i sentimenti che a loro volta condizionano le emozioni. In quell’apparente ripetizione si creano infinite variazioni che producono davvero l’unicità della vita.
Allora la ripetizione non è noiosa piattezza, invariabile monotonia, ma è come il movimento del cavatappi: ogni giro consente di scendere in profondità. Oppure, se preferisci pensare alla puntina di un giradischi (anche se non se ne vedono più), ogni giro non scorre nello stesso solco, ma in solchi sempre diversi, e questo movimento invece di produrre uniformità genera invece la melodia unica della vita.
Quello che apparentemente è lo stesso incontro con la stessa persona, in realtà ha subito moltissime variazioni. Sono queste microscopiche variazioni che, giro dopo giro, generano la profondità dell’emozione e del sentimento. La profondità dell’affetto si ottiene cioè con il cambiamento, e il cambiamento avviene proprio là dove noi pensiamo che ci sia semplice consuetudine (Il filosofo danese Kierkegaard ha scritto pagine molto belle sulla “ripetizione”, facendola diventare l’emblema della vita matrimoniale: non monotonia, ma graduale conquista di sé nella relazione con l’altro).
La ripetizione di una bella esperienza, d’altra parte non necessariamente è bella. La bellezza si ottiene non dalla semplice reiterazione di un momento o di un’avventura, ma dall’impegno a creare situazioni nuove in un’esperienza simile. Cioè, dipende dall’attività della persona. Ed è per questo che due persone continuano ad amarsi profondamente, non solo per l’attrazione, ma perché si impegnano a generare nuovi pensieri che interpretano continuamente l’altro; l’attrazione rimane alta perché c’è un’attività creativa e ingegnosa incessante fatta di continua immaginazione e rappresentazione dell’altra persona. Da questo potremmo spingerci oltre e dire che l’amore non è (solo) sentimento, ma è un’attività. Ma per questo, facciamo un’altra volta.
È però vero che, a volte, bastano “poche parole o azioni sbagliate” a cambiare i sentimenti. Seneca ricorda che:“Basta un solo giorno a disperdere e a distruggere quanto ha costruito un lungo periodo di tempo con molte fatiche e col favore degli dèi. Chi parlò di un giorno ha assegnato un tempo troppo lungo ai mali che incalzano: basta un'ora, un attimo per rovesciare degli imperi. Ci sarebbe un po' più di conforto per la debolezza nostra e delle nostre cose, se tutte le cose andassero in rovina con la stessa lentezza con cui si formano: invece, gli accrescimenti avvengono lentamente, la rovina rapidamente” [Lettere a Lucilio]. La costruzione dell’amicizia o dell’amore avviene lentamente, ma la distruzione talvolta può essere fulminea. Perché il linguaggio ha il potere di modificare il nostro sentire. Modificando in modo negativo i nostri sentimenti e la modalità di cogliere i segnali che provengono dall’altra persona, ci dispone in modo diverso nei suoi confronti. Se non ci sentiamo più stimati o amati e sentiamo venire meno il rispetto e la considerazione ottenuti in precedenza, ci convinciamo che la relazione si è danneggiata e di conseguenza il nostro corpo attiva emozioni di tristezza e di sfiducia che condizionano i nostri sentimenti e i nostri pensieri. A loro volta, i pensieri intervengono a ritoccare le emozioni. Quello che apparentemente è immobile è invece ciò che si ottiene da un lungo lavoro, in parte conscio in parte inconscio, per mantenere un delicato e fragile equilibrio.

Un caro saluto,

Alberto