Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 24 ottobre 2011

La felicità eterna



Caro professore,
Esiste la felicità eterna? Perché si ricerca la felicità così a lungo e poi questa dura un brevissimo attimo? Perché quando ci sono dei miglioramenti positivi nella nostra vita l'euforia dura poco e poi svanisce? Perché questo miglioramento non ci fa essere "un po'" più felici per sempre, ma tutto si ritrasforma brevemente nella normalità di ogni giorno, come se non fosse avvenuto nulla? A questo punto viene da chiedersi per cosa lottiamo ogni giorno, ma soprattutto se esiste ciò per cui lottiamo. Oppure la vita è semplicemente un insipido passaggio? Esiste qualcuno che è completamente soddisfatto di sé ed ha trovato la felicità eterna? Dove può averla cercata e trovata? E' forse la finitezza delle cose che ci spaventa?
Ivan



Caro Ivan,
Vedo che il tema della felicità torna spesso. Con molte varianti (il raggiungimento della felicità; il rapporto felicità-dolore; e, oggi, la felicità eterna), perché è certamente un argomento che sta molto a cuore a tutti. Allora torniamo ancora su questa tematica con l’aiuto di Robert Nozick, il filosofo americano che abbiamo già citato la scorsa settimana. Facciamo però riferimento ad un’altra opera dell’autore, La vita pensata. Meditazioni filosofiche, Milano Bur, 2004; (per inciso: anche in questo testo troverai la storiella della macchina della felicità di cui abbiamo parlato nel post precedente). Nozick fa riferimento a tre tipi di sentimento legati alla felicità: 1. essere felici per una certa cosa; 2. avere la sensazione che la vita vada per il meglio; 3. essere soddisfatti della propria vita nel suo complesso.
1. Essere felici per una certa cosa.
Molto semplice: un oggetto regalato, una relazione, una passeggiata, un abbraccio ci rendono felici. È la felicità più comune e non ha bisogno di spiegazioni.
2. Avere la sensazione che la vita vada per il meglio.
È un tipo di felicità che proviamo quando ci sentiamo pervasi da un senso di «completezza». Abbiamo quello che desideriamo, non sentiamo - sia pure momentaneamente - esigenza di altro. Forse riferendoti alla felicità eterna fai riferimento proprio a questo tipo di felicità. Non desiderare nient’altro, stare bene. Ti sarà capitato di provare questo sentimento magari in una sera d’estate davanti al mare in cui hai pensato «perfetto, vorrei vivere sempre qui», «in questo momento non c’è nient’altro che vorrei»; oppure in compagnia di alcuni amici con i quali il tempo trascorso ti ha procurato una gioia profonda. Nozick dice che «quel che vogliamo [...] è sentirci dire che c’è qualcosa di così bello, così completo e soddisfacente che quando l’avremo raggiunto non saremo tormentati da nessun’altra esigenza e vogliamo che ci si dica come raggiungerlo». È quello che scrivi anche tu: «dove una persona può aver cercato e trovato la felicità»? Il filosofo dice che sono due i casi in cui ci accorgiamo che la nostra vita procede bene e che non desideriamo altro: «il primo è quando una certa esigenza è già soddisfatta; il secondo quando siamo impegnati in un processo o cammino lungo il quale le nostre altre esigenze saranno soddisfatte, e non abbiamo altra esigenza che di impegnarci in questo processo». Se uno vuole andare ad un concerto di Vasco Rossi con gli amici e tutte le tappe di questo percorso si realizzano (ci sono gli amici, si arriva in tempo, il concerto non viene rinviato) è felice; possiamo dire, pertanto, che la felicità si realizza nel «processo». Se desideriamo laurearci, abbiamo un obiettivo e un percorso: ogni passo in quella direzione ci dà la sensazione che la vita vada nella direzione giusta e dunque per il (nostro) meglio e genera in noi felicià. Se riusciamo ad impegnarci in un certo processo che desideriamo, e questo processo si realizza, siamo felici. Accettiamo anche qualche contrattempo, qualche imprevisto (qualche brutto voto), perché desideriamo essere legati in una certa attività. Essere motivati nel proprio lavoro (scolastico) per realizzare il proprio percorso culturale può essere pertanto motivo di felicità.
3. Essere soddisfatti della propria vita nel suo complesso.
L’idea che viene ripresa dal filosofo polacco Wladyslaw Tatarkiewicz (1886-1980) nel libro Analisi della felicità, Napoli, Guida, 1985, è che la felicità «significa una totale, duratura, profonda e piena soddisfazione accompagnata da una valutazione vera e giustificata». Secondo Nozick, più semplicemente, una vita felice è una vita «valutata sufficientemente buona nel suo complesso». Quindi, un altro elemento per la felicità è la valutazione complessiva della vita. Non è tanto importante il numero di istanti felici (se potesse essere quantificato), ma è importante una valutazione positiva della vita. Certo, questo dipende molto dall’umore delle persone. Sappiamo infatti che un umore, ossia una tendenza a valutare positivamente i fatti, aiuta a vivere meglio e ad esser più felici. Ma allora che cosa fa di una vita una vita buona? È sufficiente vivere una vita morale per essere felici? Kant insegna che la moralità (comportarsi secondo la legge morale) non genera necessariamente la felicità. Per essere felici occorre valutare positivamente i fatti. Già, ma come facciamo a valutare positivamente ciò che accade? Beh, occorre scegliere dei punti di riferimento da cui esaminare la vita. In base ai punti di riferimento scelti esprimiamo giudizi sulle nostre aspettative e sui nostri risultati. Se sono troppo elevati conviene riadattarli alle nostre capacità e alle nostre aspirazioni. Trovati i valori importanti possiamo valutare se la nostra vita procede nella direzione scelta. Essere felici della vita nel suo complesso è forse la forma più alta di felicità, quella che più si avvicina a qualcosa di eterno. Perché la valutazione positiva della vita getta buona luce su tutti i sui aspetti e consente di accettare anche le difficoltà. Come vedi, a volte pensiamo che la felicità dipenda dagli altri, mentre è indispensabile che ognuno lavori per “costruire” la propria felicità.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 17 ottobre 2011

L'altra faccia della felicità




Caro professore,
Mi sono sempre chiesta perché quando sono felice subito dopo sento un grande vuoto dentro di me, come se la felicità che ho provato prima si tramutasse in un motivo per diventare triste e forse anche insoddisfatta. Non capisco perché il motivo che prima mi faceva gioire, poco dopo mi dà un senso di malessere...E’ una cosa strana che non riesco a spiegarmi. Forse mi succede questo perché ho paura che i momenti per cui ho gioito non ricapitino più?
Laura



Cara Laura
Chissà, forse Arthur Schopenhauer avrebbe pensato che sei una ragazza con un carattere «nobile», perché tale carattere – secondo l’autore – porta con sé « una certa apparenza di muta tristezza ». Scrive infatti Schopenhauer nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione [Bur 2002]: «Un carattere molto nobile ce lo immaginiamo sempre con una certa apparenza di muta tristezza; la quale è tutt'altro che un permanente cattivo umore per le contrarietà quotidiane [...]; bensì è conscienza, nata da cognizione, della vanità di tutti i beni e del dolore d'ogni vita, non della propria soltanto». Dunque niente a che fare con il cattivo umore per qualche contrattempo o fastidio quotidiano, né con le variazioni dello stato d'animo caratteristiche dell’adolescenza. Sembra infatti che tu abbia colto un aspetto esistenziale della vita, ossia il fatto che tutto è vano, anche la felicità. Senti un «vuoto dentro di te», perché sperimenti che nulla è definitivo, nulla permane, neppure i momenti più lieti e spensierati. Non è una questione psicologica, ma esistenziale. Maggiore è la consapevolezza della natura effimera dell’uomo e di ogni sua attività, maggiore è il dolore (« salendo il dolore di pari passo con la chiarità della conscienza »); allora il velo di tristezza che segue un momento di gioia è dovuto all’irruzione della ragione che svela l’incanto illusorio della felicità. Ma questo è Arthur Schopenhauer. C’è però anche dell’altro. Il filosofo Robert Nozick [in Anarchia, stato e utopia (1974), il Saggiatore 2008] negli anni ’70 ha proposto questo esperimento mentale: egli suggerisce di immaginare di essere collegati ad una macchina che permette un'esperienza virtuale di felicità ininterrotta. A questo punto si chiede: che cosa sceglierebbe la maggior parte delle persone? Una vita irreale e virtuale (tipo quella che viene proposta in Matrix) che garantisce senza interruzione la felicità o una realtà senza inganni con gli alti e bassi della vita? Nonostante la seduzione di una felicità stabile (magari oggi o in futuro ottenibile anche con una “pastiglia della felicità”), sembra che la maggior parte delle persone preferisca avere una parte attiva nella vita, piuttosto che una vita in una condizione di menzogne continue anche se priva di sofferenze ed estremamente gratificante. Se esistesse una macchina della felicità in grado di dispensare un benessere ininterrotto ma artificiale, forse la maggior parte delle persone rifiuterebbe ancora l’offerta di questa condizione. La felicità implica una vita attiva, la partecipazione alla vita reale in cui ogni uomo realizza le proprie potenzialità. La nostra felicità non consiste nel provare piacere ininterrotto, ma nel vivere cercando di esplorare attivamente e perfezionare le risorse intellettuali, fisiche e relazionali di cui siamo dotati. Se a momenti di felicità seguono momenti in cui siamo meno felici, non ci dobbiamo stupire, perché sappiamo che attraverso l’impegno nelle relazioni e nel lavoro operiamo già continuamente per la felicità.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 10 ottobre 2011

Gli uomini somigliano a orologi



Arthur Schopenhauer:
1. «Gli uomini somigliano a orologi, che vengono caricati e camminano, senza sapere il perché; ed ogni volta, che un uomo viene generato e partorito, è l'orologio della vita umana di nuovo caricato, per ancora una volta ripetere, frase per frase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. Ciascun individuo, cia­scun volto umano e ciascuna vita non è che un nuovo breve sogno dell'infinito spirito natura­le, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte all'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre. Nondimeno, e in ciò è l'aspetto grave della vita, ognuna di tali immagini fugaci, ognuno di tali insipidi capricci dev'essere pagato dalla intera volontà di vivere, in tutta la sua violenza, con molti e profondi dolori, e in ultimo con un'amara morte, a lungo temuta, final­mente venuta. Per questo ci fa così subitamente malinconici la vista d'un cadavere.
La vita d'ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti signifi­canti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della com­media. Imperocché l'agitazione e il tormento della giornata, l'incessante ironia dell'attimo, il volere e il temere della settimana, gli accidenti sgradevoli d'ogni ora, per virtù del caso ognora intento a brutti tiri, sono vere scene di commedia. Ma i desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate senza pietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con accrescimento di dolore e con morte alla fine, costituiscono ognora una tragedia. Così, quasi il destino avesse voluto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra esistenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali della tragedia, mentre noi non riusciamo neppure a conservar la gravità di personaggi tragici, e siamo invece inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi da commedia.”

(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari, Laterza, 1991, vol. II, pp. 424-425).



"Davanti alla filosofia del grande Schopenhauer non si può far altro che ascoltare ammutoliti e impotenti scorrere le parole, riconoscendo la nostra condizione di inferiorità nei confronti della natura. Il filosofo tedesco si è divertito nel definire l'uomo un orologio che dalla nascita è progettato per affannarsi e correre a destra e a manca, sperando in questo modo di soddisfare i suoi desideri, che però non verranno mai saziati. Egli paragona inoltre gli uomini a goffi personaggi da commedia, immersi nello scenario quotidiano della vita che assomiglia di più, però, a una tragedia. Tra tutti i filosofi affrontati finora, penso che di Arthur Schopenhauer ricorderò perfettamente il pensiero e le massime anche una volta abbandonato lo studio della filosofia. Il suo pensiero tratta di una questione vicina all'umanità, che non parla né di logica, né di metafisica, né di Dio; l'argomento di cui si occupa e il modo in cui ne parla sarebbe comprensibile anche da un uomo poco istruito che scommetterei ne rimarrebbe fortemente affascinato. Ebbene, il suo pensiero ha colpito anche me; mi ha fatto fermare un attimo, abbandonare il pensiero della scuola, del lavoro, dei divertimenti con gli amici per chiedermi se davvero valesse la pena continuare questa corsa per cercare di essere sempre la migliore se poi alla fine tutti noi arriveremo ad uno stesso traguardo rendendoci conto che non ci sarà nessun premio peri primi, ma saremo tutti sullo stesso piano.
Madre Natura ha forse donato l'immortalità ad Alexander Fleming per aver scoperto la penicillina o ha forse dato un ringraziamento speciale a Nelson Mandela per aver combattuto l'Apartaid? No, loro, come tutti gli altri grandi del passato, sono ora sepolti sotto terra, alcuni con le spoglie ancora parzialmente intatte, altri già completamente decomposti sono ritornati a far parte della Natura sotto un’altra forma. I nostri cadaveri verranno attaccati e divorati da batteri tanto piccoli che sembra impossibile che abbiamo la forza di smembrare i nostri corpi; eppure la Natura così vuole e così nel mondo avviene. Siamo completamente impotenti di fronte a tutto ciò. Così l'uomo che avrà dato il contributo più utile e ammirevole all'umanità si troverà alla fine della sua vita nella stessa condizione di quello più pigro, più inutile, più apatico che sia esistito. Alcuni nomi dei grandi del passato rimangono oggi scritti sui libri di testo, le loro filosofie studiate a fatica da studenti troppo impegnati nelle loro occupazioni, le loro opere impolverate nelle biblioteche; di tutti gli altri uomini vissuti non resta più niente, le loro spoglie sono diventate concime della terra che noi calpestiamo quotidianamente. La Natura ha fatto il suo corso, ci ha messi al mondo e quando arriverà il momento ci toglierà la vita; non è “maligna”, è solamente programmata biologicamente per far accadere gli avvenimenti in questo modo.
Riconoscendo questa condizione a cui siamo vincolati, non riesco però ad accettare passivamente tutto ciò. Sarà che a diciotto anni niente e nessuno riesce a toglierti il sorriso dal viso, sarà che a quest'età la nostra condizione di esseri impotenti viene spesso sottovalutata in quanto si crede di riuscire a dominare il mondo, fatto sta che nonostante condivida alcuni aspetti della filosofia di Schopenhauer, continuo a pensare che nella Vita non ci siano solo dolori ma anche felicità. Probabilmente sono fortemente condizionata dal pensiero di mia nonna che, a 76 anni, continua a non temere la morte; sa che potrebbe abbandonarci da un momento all'altro, ma il fatto che ci lascerebbe con il cuore colmo di felicità le fa vivere gli anni dell'anzianità con gran serenità. La sua soddisfazione più grande è quella che - grazie a lei -, otto nuove creature si sono generate, otto nuovi cuori hanno iniziato a battere. Non le importa se ha dovuto soffrire tutti questi anni per giungere a questa conclusione, il suo consiglio da anziana saggia nei confronti dei nipotini inesperti rimane sempre lo stesso: "La vita è tanto breve per essere sciupata, le sofferenze e i dolori sono all'ordine del giorno, la felicità non è innata, bisogna crearsela, ma una volta che la si ottiene cancella tutte le pene che si sono dovute subire". Ebbene, con tutte le disgrazie che avvengono quotidianamente e di cui sentiamo parlare, riesco finalmente ad apprezzare pienamente il più grande bene che la Natura ci abbia offerto, la vita e penso che donarla un giorno ad un'altra creatura sia la felicità più grande che si possa ottenere, nonché unico rimedio per cancellare tutte le sofferenze".
Elena Giachino
V A Liceo Scientifico

La lettera di questa settimana è una citazione di Schopenhauer. Ho trovato la riflessione di Elena Giachino una bella risposta al filosofo e per questo ho deciso di riproporla qui.
un caro saluto,
alberto

lunedì 3 ottobre 2011

La felicità della mia vita





Caro professore,
E’ ormai da un po’ di tempo che mi pongo questa domanda: cos’è realmente la felicità? Spesso quando sono sola penso alla mia vita, alla mia adolescenza. In molti dicono che questo dovrebbe essere il periodo più felice della vita, ma io sinceramente non credo di essere felice... e per me felicità è sinonimo di libertà e tra la scuola e la famiglia non credo di essere libera. Per avere una buona media a scuola devo impegnare tempo dei miei pomeriggi a studiare ovviamente, e al mattino devo svegliarmi presto; non sono libera di vivere la mia giornata come vorrei, questo in fondo è anche un bene perché se ognuno volesse vivere libero il mondo non andrebbe più avanti e anche io devo impegnarmi per contribuire all’evoluzione. Io non sono molto credente in Dio, spesso mi pongo dei dubbi: ma sarà vero che la vita è solamente un passaggio per l’eternità? Io in ogni modo voglio vivere la vita al meglio, perché non sono sicura che dopo ci sarà qualcosa...qualcosa di meglio. Due settimane fa sono stata ad un campo-scuola e gli educatori ci hanno fatto riflettere sul significato del sogno; sono arrivata alla conclusione che non ho un sogno-obiettivo vero e proprio per la mia vita a parte essere felice. Ciò che mi preoccupa è che non so come raggiungere la felicità, non so come fare...lei cosa ne pensa? Cosa dovrei fare per raggiungere il mio obiettivo?
Irene


Cara Irene,
Chissà perché molti guardano all’adolescenza come al periodo più felice della vita. Seguendo questo ragionamento potremmo pensare che: 1. l’adolescenza è il periodo più felice della vita: 2. io non sono felice in questa fase; 3 dunque, la vita che segue l’adolescenza sarà ancora meno felice. Beh, se rimaniamo prigionieri di questa logica, non abbiamo molto da rallegrarci. Io non so se l’adolescenza sia il periodo più felice della vita, ma so che si può essere felici in forme diverse nei diversi momenti della vita. Potremmo dire che anche l’infanzia è il periodo più felice, perché tutto è da scoprire e non si hanno preoccupazioni (ma chi vorrebbe vivere tutta la vita nell’infanzia?); oppure la giovinezza, perché si è più consapevoli, più liberi e autonomi; oppure l’età adulta, perché si ha la massima libertà di scegliere e di agire. Non scrivo che la vecchiaia sia il periodo più felice, perché spesso il corpo presenta il conto degli anni e viene gravato da acciacchi, ma non escludo che anche una persona che abbia avuto un’esistenza più o meno travagliata possa essere felice se considera di aver avuto una vita piena e realizzata. Scriveva Marco Aurelio: «Attraversa quindi questo breve periodo di tempo in modo conforme alla natura e finisci felice il tuo viaggio, proprio come un'oliva che cade quando è matura, benedicendo la natura che l'ha prodotta e ringraziando l'albero sul quale è cresciuta». (Marco Aurelio, I ricordi). Come un’oliva si stacca dalla natura “benedicendola”, la persona che guarda alla propria vita considerando di avere ben amministrato il tempo e sapendo di aver creato buoni legami - con le persone della propria famiglia e con quelle incontrate nel proprio percorso - è persino serena di lasciare il mondo. Socrate, in fondo, invece di fuggire dal carcere, accetta la propria condizione, perché sa di aver ben vissuto; Montaigne, che ha perso cinque figli e un amico carissimo, ritiene che anche con tutte le avversità la vita sia un bene prezioso, e scrive: «amo la vita». Kant, che muore quasi a 80 anni, dopo aver bevuto un po’ di vino diluito con acqua, mormora «es ist gut», «va bene così»; era in armonia con il mondo e con gli uomini. Ma anche Wittgenstein, che ha preso parte alla I guerra mondiale, dice al proprio medico «Dite loro che ho avuto una vita felice».
Forse chi ritiene che nell’adolescenza vi sia la massima felicità, non tiene conto delle molte difficoltà a cui i ragazzi vanno incontro in quel periodo: l’accettazione del corpo che cambia, la fatica di creare legami, la difficoltà ad accettare dei rifiuti senza sentirsi insignificanti, le preoccupazioni per le scelte importanti, il timore del futuro. A me sembra che l’adolescenza, insieme al suo carico di leggerezza abbia anche un carico di preoccupazioni che possono pesare come un macigno. Il filosofo francese contemporaneo Frédéric Lenoir, nel libro Vivere è un’arte. Piccolo trattato di vita interiore, [Mondadori, 2011], risponde alla tua domanda su come conquistare la felicità. E parla dell’impegno. Credo anch’io che vivendo intensamente la vita, la felicità giunga come conseguenza. Non dobbiamo pensare che la felicità sia inaccessibile o qualcosa di raro difficile da incontrare. Spesso dipende dalla nostra attività, dalla volontà di sviluppare le nostre capacità, a livello scolastico e relazionale. Dobbiamo essere attivi e non passivi, lavorare per la felicità e non attendere che accada. Ecco qualche spunto della riflessione di Lenoir: «Accettare il dato della vita e accogliere gli imprevisti dell'esistenza ci incitano, al contrario, a lasciarci coinvolgere. Questo coinvolgimento è una combinazione sottile di abbandono e impegno, passività e azione, recettività e iniziativa. La vita richiede impegno. Se la affrontiamo con circospezione, con il timore di investire il massimo, ci prepariamo al fallimento e le nostre gioie saranno tiepide. Ciò vale a ogni livello: uno sportivo o un artista che aspirano a eccellere nella loro disciplina non hanno altra scelta che impegnarsi al massimo. Chi intraprende una relazione amorosa con qualche esitazione ha la garanzia che essa non avrà sbocco. Lo stesso accade sul piano professionale o dello studio: quando si fa il proprio lavoro a metà, senza applicarsi a fondo, non se ne trae la minima soddisfazione. Una vita riuscita è sempre frutto dell'impegno, di un sentito coinvolgimento in tutti i campi dell'esistenza. Noi siamo responsabili della nostra vita. Spetta a noi sviluppare le capacità che abbiamo ricevuto, correggere i difetti, reagire in modo appropriato agli eventi che si presentano, legarci agli altri o vivere ripiegati su noi stessi. Dobbiamo farci carico della nostra felicità e della nostra infelicità. Questo atteggiamento è agli antipodi rispetto al vittimismo fin troppo diffuso. In tanti non si sentono responsabili di niente: tutto ciò che succede loro è colpa degli altri, della sfortuna, del governo. Il male arriva sempre dall'esterno ed è sempre dall'esterno che attendono la soluzione. Si lamentano della loro sorte invece di prenderla in mano; rifiutano di vedere la loro responsabilità nelle vicende che li riguardano e attendono sistematicamente un soccorso esterno. Questa deresponsabilizzazione proviene, in gran parte, da una mancanza di vita interiore e di coscienza di sé». Siamo responsabili della nostra felicità, e se lavoriamo con questo atteggiamento scopriamo che la felicità è molto più alla nostra portata di quanto siamo soliti pensare. Hai scritto che vuoi vivere la tua vita «al meglio», quindi ritieni che la vita vada vissuta con impegno. In questo caso puoi stare certa che avrai una felicità più profonda, in grado di includere anche gli urti e gli strappi che la vita porta con sé, perché la felicità di una vita impegnata per sé e per gli altri è così forte da contenere anche i momenti di tristezza; perché una vita buona – come dicevano gli antichi - è una vita felice.
Un caro saluto,
alberto