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Cor-rispondenze

lunedì 25 febbraio 2013

Futuro e responsabilità



 
Caro professore,
Che cosa ci riserba il futuro? La mia grande paura è vivere in un mondo di soli esseri umani: perché è proprio vero che se continuiamo di questo passo la biodiversità che regna sul nostro pianeta avrà fine. Qualche giorno fa si è sentito parlare della più grande strage di elefanti mai registrata per mano di bracconieri; e non parliamo del destino cupo e terribile dei leoni, i più grandi felini terrestri che a causa delle loro presunte «capacità curative» vengono soppressi ignobilmente. Io credo che per tutta la storia dell’uomo non si è mai avuto abbastanza rispetto e amore verso gli animali. “Noi” che con tanto coraggio ci crediamo esseri superiori solo perché riusciamo a restare in piedi e a usare la mani abbiamo distrutto con tanta veemenza la loro casa ampliando i nostri centri abitati. Allora io le chiedo: perché? Perché non si riesce a capire che la natura va preservata e protetta? Un giorno, non tanto tempo fa Jurij Gagarin, partito verso la Luna si girò indietro e disse: “È incredibile, la Terra è blu”. Ebbene, finché l’uomo non riuscirà a porre fine alle oppressioni verso la natura, rimarrà ben poco di quella sfera grande e blu.
Davide, 5G

 
Caro Davide,
Non eravamo a conoscenza delle spropositate dimensioni del bracconaggio degli elefanti, uccisi sia nel parco nazionale di Tsavo East, a sud del Kenya, sia nel parco nazionale del Minkèbé e nelle foreste nel bacino del Congo, in cui viveva la più grande popolazione di elefanti africani. Abbiamo appreso negli ultimi mesi di 11 mila elefanti uccisi, ossia di una cifra che varia tra il 44 ed il 77% dell'intera popolazione degli elefanti del Gabon. Hai ragione, sono cifre impressionanti che suscitano profonda indignazione. Elefanti uccisi per prelevare le zanne addirittura nei parchi nazionali, oppure leoni e tigri abbattuti per estrarre dai loro organi sostanze con presunte capacità curative. Ci chiediamo: che rapporto hanno gli uomini con le altre specie? Si sentono, come dici tu, sfacciatamente«superiori» o si rendono conto che la loro sopravvivenza è legata ad un destino comune? Se non vogliamo che la biodiversità aumenti solo in assenza della specie umana («la biodiversità andrà aumentando»), come sostiene Jameel Ahmad (cfr. Alan Weisman, “Il mondo senza di noi” [Einaudi 2008]), occorre che nell’uomo si diffonda una maggiore consapevolezza della responsabilità che ha sull’ambiente intero e sulle specie non umane. In realtà a livello mondiale esistono già dei documenti per la tutela della biodiversità. Ad esempio la «Dichiarazione Universale sulla Bioetica ed i Diritti Umani(UDBHR)», elaborata dal «Comitato internazionale di bioetica (CIB)»dell’UNESCO (2005), all’articolo 17 parla precisamente della «protezione dell'ambiente, della biosfera e della biodiversità». Molti filosofi si sono occupati di questo tema. Nel 1973 lo psicologo Richard Ryder ha coniato, in analogia con i termini “razzismo” e “sessismo”, il termine “specismo”, per segnalare il pericolo di una nuova discriminazione che porta a svalutare gli animali non umani. Nel 1975 Peter Singer ha pubblicato “Liberazione animale”,un testo molto importante sui diritti degli animali, in cui a proposito dello“specismo” scrive: «Se il possesso di un superiore livello di intelligenza non autorizza un umano ad usarne un altro per i suoi fini, come può autorizzare gli umani a sfruttare i nonumani per lo stesso scopo?». Da Peter Singer fino a Tom Regan sempre più autori sottolineano che l’uomo ha il dovere di riconoscere i diritti degli animali e di rispettare l’ambiente. Nel 1908 Gustav Mahler componeva “Das Lied von der Erde” (il canto della Terra). Nella prima parte «Il brindisi del dolore della terra» il testo dice: «Azzurro eterno è il firmamento, e la Terra / è destinata a lungo a stare immobile, e a rifiorire in / primavera. Ma tu, uomo, ancora vivrai? / Neppure cent'anni ti puoi trastullare / con tutte le putride vanità di questa terra!».L’esibizione universale delle nefandezze compiute da alcuni uomini su altri esseri viventi aumenta fortunatamente la sensibilità collettiva e accelera il processo di riconoscimento dei diritti.
Un caro saluto,
Alberto


lunedì 18 febbraio 2013

A cuore aperto

A cuore aperto - Clicca l'immagine per chiudere



Platone diceva che filosofare è imparare a morire. Già, ma chi riesce a immaginare la propria fine? Il pensiero della propria morte è un timore che gli uomini cercano di rimuovere rapidamente o di rimandare, perché in fondo non sono mai pronti a congedarsi definitivamente dagli affetti più cari. Elie Wiesel, a 82 anni e a seguito di un’improvvisa operazione «a cuore aperto» avvenuta negli Stati Uniti nel 2011, si trova improvvisamente sospeso tra la vita e la morte. Come un naufrago in bilico sul proprio destino, egli analizza rapidamente la propria vita e si chiede se abbia compiuto accuratamente il proprio dovere di sopravvissuto; se abbia saputo usare le parole giuste per raccontare il «tempo delle tenebre»: Birkenau, Auschwitz, Buchenwald; un insieme di esperienze che – egli ribadisce vanno «oltre la comprensione». Nel tentativo di consegnare alle generazioni successive la memoria delle vittime, Wiesel ha scritto davvero molte opere (circa 50), e in tutti i suoi libri ha lottato contro le banalizzazioni televisive e cinematografiche e contro la spettacolarizzazione della tragedia, nel tentativo di restituire la complessità delle vicende storiche e dell’animo umano. Prima di entrare in sala operatoria, nella sua mente scorrono le esperienze imprescindibili della propria formazione (le pagine della Bibbia e le parole dei profeti, il Talmud e il Chassidismo, il misticismo e l’etica) e i contenuti delle sue opere principali. Egli ricorda il padre, la madre e la sorellina («figurano in tutti i miei racconti, in tutti i miei sogni. E in tutto ciò che insegno») e riferisce che la sua attività principale è stata la «lotta contro l’odio», attraverso la testimonianza della pace (Wiesel ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1986). Nonostante l’esperienza dei campi di concentramento e di sterminio, Wiesel confessa di essere rimasto fedele alla tradizione ebraica e di non aver perso la fede. Pur appartenendo ad una generazione che si è sentita spesso abbandonata da Dio e tradita dall’umanità, egli crede profondamente sia in Dio sia nell’uomo. Consapevole pertanto che i minuti che precedono l’operazione al cuore potrebbero essere gli istanti conclusivi della propria vita, egli si chiede che cosa dirà a Dio («Che dirò a Dio, lassù?» [...] «troverò l’audacia di rimproveraGli il Suo incomprensibile silenzio mentre Satana riportava le sue vittorie?»), e si ripete quello che aveva già risposto a un giornalista che gli aveva posto la medesima domanda. Pronuncerà una sola parola: «perché?». Convinto che la memoria dell’Olocausto sopravviverà al tempo, egli coltiva pertanto la speranza che la storia «sulla disperazione» si possa trasformare in una storia «contro la disperazione» dell’uomo, e si congeda con queste bellissime parole di fiducia nell’umanità intera: «credo nell’uomo malgrado gli uomini. Credo nel linguaggio benché sia stato ferito, deformato, pervertito dai nemici dell’umanità. E continuo ad aggrapparmi alle parole perché spetta a noi trasformarle in strumenti di comprensione anziché di disprezzo. A noi scegliere se vogliamo servirci di esse per maledire o guarire, per ferire o consolare» (p. 96).
Un caro saluto,
Alberto Lusso

Elie Wiesel, A cuore aperto, Milano, Bompiani, 2013, pp. 103, euro 11,00.


lunedì 11 febbraio 2013

La cultura nata dal male





Caro professore,
è da poco trascorsa la «Giornata della Memoria», in cui si celebra il ricordo delle vittime dello sterminio nazista che ha causato la scomparsa di 11 milioni di persone, 6 milioni delle quali di origine ebraica. Come «Giorno della Memoria» è stato scelto il 27 gennaio, in quanto il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche liberarono il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, una vera e propria «industria della morte», dove i nazisti eliminarono oltre 1 milione e 100 mila esseri umani. E proprio da questo inferno è riuscito a salvarsi Sami Modiano, un uomo di origine ebraica che a soli tredici anni entrò in quel maledetto mattatoio. Recentemente l'ho visto ospite di un programma serale, e devo dire che mi ha molto colpito la sua testimonianza e soprattutto una frase, pronunciata poco prima della fine della trasmissione: «6 milioni di ebrei e 5 milioni di altre persone innocenti, sono stati eliminati da chi? Da persone di grande cultura, si perché i tedeschi erano persone di grande cultura e hanno creato questo inferno che si chiama Birkenau-Auschwitz, hanno ammazzato 11 milioni di persone innocenti, dunque bisogna avere paura anche di persone di grande cultura». Ma come si può arrivare ad avere paura della cultura? Com’è possibile che la cultura si trasformi in uno strumento di oppressione dell'uomo, quando invece dovrebbe rappresentare un’occasione di liberazione dalla fragile e breve natura umana?
Riccardo, III E

Caro Riccardo,
Seguo la tua distinzione tra «aver paura della cultura» e «aver paura anche delle persone di cultura». Se per cultura si intende il patrimonio di esperienze materiali, sociali, spirituali e artistiche di un popolo, i timori sono infondati. La conoscenza delle altre civiltà diventa fonte di ricchezza, perché apre alla varietà e alla complessità delle espressioni umane, e libera le persone dai pericoli che correrebbero se credessero nell’univocità delle manifestazioni della vita e dei principi morali. Montaigne e Pascal ci hanno insegnato che certi principi che si credono universali sono invece frutto di convenzione, di abitudine, di interesse o di forza. Se per cultura intendiamo invece alcune dottrine fanatiche o settarie, in questo senso è legittimo temere la diffusione di certi contenuti: sappiamo infatti che esistono “culture belliche”, che tendono ad imporre il dominio di uno stato su un altro; “culture razziste”, che hanno difeso lo sfruttamento degli uomini o hanno progettato di rifondare l’umanità; “culture di violenza”, che tendono a risolvere i conflitti con la prevaricazione. Potremmo considerare queste ultime come pseudo-culture o semplicemente come ideologie che si inseriscono nel quadro più grande della “cultura” di un popolo. Vanno certamente osteggiate sul piano intellettuale, allora l’istruzione e la formazione diventano indispensabili o – come dici tu – «un’occasione di liberazione»: in questo senso, più si ha conoscenza (cultura) più si possono trovare nella civiltà degli anticorpi per emarginare convinzioni errate o squilibrate. C’è però un altro aspetto da considerare: Sami Modiano ha evidenziato che molte “persone di cultura” hanno generato sofferenze inaudite. Certo, ormai sappiamo che la maggior parte degli intellettuali delle SS aveva frequentato l’università. Scrive Christian Ingrao in “Credere, distruggere” [Einaudi 2012]: «Colpisce la presenza ricorrente di un certo numero di grandi università nel curriculum dei futuri intellettuali ss, in particolare di Lipsia, Monaco, Gottinga e Heidelberg. Quasi l'8o per cento dei futuri intellettuali ss le frequentano nel corso dei loro studi» (p. 23). Questo basta per giustificare la paura degli uomini di cultura? Bernard Bruneteau, nel volume Il secolo dei genocidi [Il Mulino 2006], analizza altri genocidi del secolo scorso: in Armenia (1915), in Ucraina (Holodomor, 1932-33), in Cambogia (1975-79), in Ruanda (1994) e in Bosnia (1992-95). Come vedi dobbiamo “temere” l’uomo di cultura come l’uomo senza cultura, perché certe pulsioni di morte appartengono all’uomo in generale.
Un caro saluto,
Alberto


lunedì 4 febbraio 2013

La «banalità del male»


 
 
Caro professore,
In questi giorni a scuola abbiamo parlato della Shoah e abbiamo riflettuto su un documento che mostra alcune parti del processo a Adolf Eichmann che si è svolto a Gerusalemme. Abbiamo letto un brano di Hannah Arendt in cui la filosofa tedesca usa l’espressione «banalità del male» per indicare che anche le persone che non sono spietate possono commettere azioni molto violente. Secondo lei Adolf Eichmann era solo un burocrate che eseguiva degli ordini o era una persona che condivideva fino in fondo gli ideali nazisti?
Alessandro


Caro Alessandro,
«Banalità del male» è l’espressione che Hannah Arendt ha utilizzato per descrivere Adolf Eichmann, uno degli ufficiali nazisti responsabili dell’Olocausto, per indicare che anche persone apparentemente “normali” possono compiere azioni efferate, per l’incapacità di pensare e di avere una propria coscienza. L’idea di Arendt è questa: non occorre essere intimamente malvagi per compiere il male. Questa tesi è presente in alcuni suoi lavori: dal libro più conosciuto – o semplicemente più citato – “La banalità del male” [Feltrinelli 1964] a “La vita della mente” [Il Mulino 1987]. L’espressione «banalità del male» ha fatto discutere. Anche se è sostenuta da molte buone ragioni, e per certi aspetti sembra connotare esattamente la figura di Eichmann, molti studiosi hanno messo in luce che dietro le sembianze del burocrate che espletava il proprio lavoro si celava invece un uomo che condivideva perfettamente gli ideali del nazismo e l’odio per gli ebrei. Certo, lo sguardo quasi impacciato di Eichmann che appare nel processo a Gerusalemme del 1961 è ben diverso da quello di Hermann Göring, che ostenta disprezzo e sicurezza nel processo di Norimberga. Ma il temperamento non deve trarre in inganno. Già David Cesarani nella biografia di Eichmann di (Adolf Eichmann. Anatomia di un criminale [Mondadori 2004]) scrive che Arendt ha adattato «il personaggio alla sua teoria del totalitarismo» (p. 7), ridimensionando le componenti dell’ideologia e dell’odio ben radicate nell’ufficiale tedesco. Antonio Cassese, il professore di diritto internazionale recentemente scomparso, ha nuovamente messo in luce alcuni fatti che mostrano che Eichmann non fosse un semplice burocrate. Nel libro “L’esperienza del male [Il Mulino 2011]” (pp. 135-138), egli ribadisce che Eichmann era un uomo malvagio che «con passione trucidava e uccideva quanti più ebrei possibile». E racconta due episodi (per la verità, contenuti anche nel libro di David Cesarani). Il primo fa riferimento a un telegramma che l’ambasciatore ungherese aveva inviato a Hitler nel 1944. Infatti, verso la fine della guerra, il reggente d’Ungheria Miklós Horthy si era messo d’accordo con Hitler per risparmiare circa 40 mila ebrei. Poiché gli Alleati si stavano avvicinando, egli aveva cercato di salvare la faccia e di mitigare la propria posizione filonazista. Poiché Hitler aveva bisogno dell’appoggio politico e militare degli ungheresi, aveva dato il proprio assenso. Eichmann invece «si indignò e protestò» e «fece di tutto per vanificare gli ordini di Hitler», e mise in atto una serie di procedure per spedire quelle persone nei campi di concentramento, anche se avrebbero dovuto salvarsi. Un secondo fatto si riferisce ad un’intervista che Eichmann rilasciò in Argentina nel 1956 al giornalista olandese filonazista Willem Sassen. In questo documento registrato, che doveva essere reso pubblico dopo la morte di Eichmann, l’ufficiale nazista ammette di «aver sbagliato», per non avere «ammazzato abbastanza ebrei». Antonio Cassese parla dunque di un uomo con una «tensione immorale» fortissima. Hannah Arendt non era a conoscenza di questi fatti, ed è per questo che si è concentrata soprattutto sull’immagine del burocrate. Sicuramente, come hanno mostrato gli esperimenti di Stanley Milgram e di Philip Zimbardo, il contesto può far degenerare certe inclinazioni, ma Adolf Eichmann celava dietro ad un garbo apparente un odio profondo per l’umanità.
Un caro saluto,
Alberto