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Cor-rispondenze

lunedì 23 febbraio 2015

Controllare la rabbia

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Caro professore,
Ultimamente non riesco a controllare la mia rabbia e spesso con gli amici mi capita di alzare le mani e con i genitori mi capita di rispondere male e di non rispettarli. Ecco, vorrei sapere com’è possibile che non riesca a controllare le mie emozioni.
Andrea, II C

Caro Andrea,
Lo scrittore italiano Claudio Magris in “Alfabeti” (2008) ricorda che «alle origini e alle radici dell'occidente c'è l'ira, inscindibile dall'aurora della poesia che fonda la nostra civiltà: «Cantami, o diva, del Pelide Achille l'ira funesta», dice il primo verso dell'Iliade». Così, apparentemente, sei in buona compagnia, perché anche Achille, il furioso campione degli Achei, faticava a contenere la propria rabbia. Una delle storie più antiche della nostra civiltà, in fondo, ci racconta la potenza (devastatrice) di questa emozione. Il figlio del re Peleo (pelide) e della dea Teti, il «tremendissimo Achille» a cui le parole spesso facevano «di furore infiammar l'alma (l’anima), non era certo un uomo – o meglio un semidio – moderato e stentava a frenare i propri impulsi. L’eroe greco, durante la guerra di Troia, ha più volte “alzato le mani” e la spada, ed è stato colui che ha ucciso più uomini. Una volta, la sua rabbia urlata da un fosso ha terrorizzato così tanto i guerrieri nemici che dodici soldati Teucri si sono uccisi involontariamente con le loro armi nella confusione della fuga («Lì stando, un grido/ mise, e d'un altro da lontan gli fece/eco Minerva, ed un terror ne' Teucri immenso suscitò. [...]Tre volte Achille/ dalla fossa gridò: tre volte i Teucri/ e i collegati sgominarsi, e dodici/de' più prestanti fra i riversi cocchi/ trafitti vi perir dal proprio ferro»). Il rapimento di Elena, regina di Lacedemone (Sparta) da parte di Paride, figlio di Priamo re di Troia, sarà stata una buona ragione per far scoppiare una guerra tra Achei e Troiani; in fondo, il motivo era valido: Elena era la donna più bella del mondo. Ma, come sai, le cose sono andate un po’ per le lunghe e solo dopo dieci anni di guerra gli Achei sono riusciti a vincere. Purtroppo, anche Achille morì poi ucciso da Paride che voleva vendicare la morte del proprio fratello Ettore. Conosci certamente la storia della freccia e del tallone. Anche se l’ira è meravigliosa nella poesia e permette di creare storie memorabili, nella vita procura meno piaceri e spesso genera conseguenze negative. Non solo avvia effetti imprevedibili e smisurati (anni di guerra) e smanie di vendetta (sentimenti di rivalsa), ma causa sciagure anche ai soggetti che la assecondano e che non riescono più a domarla. Robert A.F. Thurman, un’autorità del buddhismo tibetano negli Stati Uniti, nel libro intitolato “Ira”, (Raffaello Cortina editore, 2006) scrive scherzosamente «Sono adirato con l’ira – la odio». Ma poi sottolinea che per arginarla non può essere arrabbiato, perché se si lascia impossessare da tale emozione dissiperà inutilmente le proprie energie. Odiare la propria rabbia, infatti, fa scaturire altra rabbia. Anche tu soffri, dispiaciuto per le intemperanze con gli amici e con i genitori. Tuttavia, un’idea non acquista maggior forza se battiamo un pugno sul tavolo, se colpiamo un amico o delegittimano il nostro interlocutore, ma solo se è sostenuta da buone argomentazioni. E allora, cosa dobbiamo fare?  Lasciarci «impossessare» o «rinunciare» all’ira? In fondo, a volte abbiamo bisogno di arrabbiarci per ribellarci all’oppressione o alle aggressioni. Ma a causa delle conseguenze negative dobbiamo forse imparare a rimuoverla dalla nostra esistenza? Diventare perfetti, calmi e sempre discreti? Seneca si era posto questo interrogativo in un libriccino intitolato proprio “De ira”. Il fratello maggiore, Novato, gli aveva chiesto qualche consiglio per placare il proprio furore. Seneca ricorda che alcuni saggi avevano definito l’ira «"un momento di pazzia"»; infatti, come la pazzia essa «è incapace di controllarsi, incurante delle convenienze, insensibile ai rapporti sociali, cocciuta ed ostinata nelle sue iniziative, preclusa alla ragione ed alla riflessione, pronta a scattare per motivi inconsistenti, inetta a distinguere il giusto ed il vero, quanto mai somigliante a quelle macerie che si frantumano sopra ciò che hanno travolto». L’ira produce macerie. Ma, se sfascia l’oggetto su cui si scatena, rovina (ossia “frantuma”) anche il soggetto che rimane incapace di liberarsene. Qualcuno aveva obiettato a Seneca che un’anima senza ira era fiacca. E Seneca aveva risposto: «È vero, se non dispone di nulla di più valido». E cosa abbiamo di più valido? La ragione. Che non ci chiede di essere codardi (passivi), ma neppure irosi (aggressivi). Ci chiede di essere coraggiosi e pazienti (oggi si dice assertivi). Seneca consigliava di “prendere tempo”, di “non essere sospettosi”, di “essere longanimi”, ossia saper comprendere e tollerare, di “essere pazienti”, e soprattutto di non adirarsi con gli esseri irragionevoli. Diceva che «il miglior rimedio dell'ira è il saper rinviare». A volte ci adiriamo perché non abbiamo compreso bene o perché riteniamo che alcune critiche siano così destabilizzanti da non poterle sopportare. Ma ad una nuova valutazione della ragione capiamo che le persone forti non cadono facilmente nelle trappole dell’ira. Usano l’energia per costruire se stessi e non per distruggere gli altri; per affermare ciò in cui credono perché sanno che le reazioni non dipendono tanto dai fatti che accadono, ma dalle nostre scelte. Ed è su queste che possiamo agire. Magari la nostra vita non diventerà epica, ma sarà certamente buona.
Un caro saluto,
Alberto

 

 

lunedì 9 febbraio 2015

Saggezza e bicchieri



Caro professore,
stavo pensando al consiglio che mia madre mi ha sempre ripetuto fin dall’infanzia: «cerca sempre di vedere il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto»… finora ho seguito questo suggerimento e sono sempre stata molto ottimista, ma ultimamente ho realizzato che forse non è un bene essere ottimisti. Infatti, pensare che le cose andranno bene non ci protegge dalle delusioni, come invece, per certi versi, fa il pessimismo, che, sotto questo punto di vista, parrebbe la scelta più saggia: in questo modo, se le cose andassero male, sarei già preparata ad affrontare la situazione, mentre, nel migliore dei casi, rimarrei piacevolmente sorpresa dal modo il cui tutto si è concluso, quindi sarei più felice. In definitiva: ha ancora un senso essere ottimisti?
Deborah, IVA


Cara Deborah,
Hai giustamente notato che il pessimista, nel peggiore dei casi, può sempre affermare: «io l’avevo detto» e nel migliore dei casi può temporaneamente stemperare il proprio sguardo cupo sulla vita, mentre l’ottimista sembra soffrire maggiormente le delusioni. La logica, tuttavia, ci insegna che, date due alternative, le possibilità sono quattro. Ossia possono essere felici o delusi sia gli ottimisti sia i pessimisti. Se consideriamo solo l’aspetto logico non emergono particolari vantaggi o svantaggi, ma se consideriamo la componente psicologica, allora il pessimista sembra subire meno frustrazioni, perché già predisposto per eventuali esiti negativi. In verità, entrambi descrivono uno stato di cose – il bicchiere è infatti sia mezzo pieno sia mezzo vuoto – e le loro posizioni seguono una sorta di lettura “realistica” del mondo. Allora, se tutti e due hanno parzialmente ragione, perché percepiamo delle differenze? E chi è più felice? Nella storia della filosofia ci sono stati incorreggibili ottimisti come Leibniz, secondo cui questo mondo «è il migliore dei mondi possibili» o Rousseau, secondo cui «l’uomo è buono per natura», oppure Hegel che vedeva il mondo retto da una struttura razionale e che nelle “Lezioni sulla filosofia della storia” ribadiva costantemente la coincidenza tra Realtà e Ragione. Ma ci sono stati filosofi pessimisti, come Schopenhauer, il quale scriveva: «Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo nostro mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono». Capita spesso che si consideri l’ottimista un uomo ingenuo e il pessimista un uomo profondo. Il filosofo milanese Remo Cantoni (1914-1978), analizzando l’opera sulla bomba atomica e il futuro dell’uomo di Karl Jaspers, ricordava che «Non è facile nel mondo contemporaneo essere ottimisti senza essere su­perficiali». Scriveva infatti che «Chi non è stato turbato nella sua limpida fede nel progresso, nella tecnica e nella scienza, nell'uomo in genere, da tutti gli eventi tragici che si sono verificati nel secolo ventesimo, è un uomo che non ha messo la sua fede a cimento, che non ha assimilato e sofferto la negatività del proprio tempo e rischia di parlare in astratto di umanità, di scienza, di verità, di progresso, col tono falso e retorico in cui ne parlano i filistei». C’è dunque un “ottimismo ingenuo”, quello criticato ad esempio anche da Voltaire nel suo “Candide” (1759), quando Cacambo chiede all’amico Candido: «Che cos’è quest’ottimismo? Ah, risponde Candido, è la maniera di sostenere che tutto va bene quando si sta male», che consiste in una visione eccessivamente rosea della vita, spesso indice di un animo ingenuo o di incapacità di analisi appropriate. È un ottimismo privo di fondamento, che può esporre maggiormente all’insuccesso e far precipitare le persone nella disperazione se i risultati attesi, che spesso sono semplicemente fantasticati, non si avverano. Tuttavia, c’è anche l’ottimismo di coloro che, dopo aver «assimilato e sofferto la negatività del proprio tempo», preferiscono serbare uno sguardo fiducioso e mettere in risalto maggiormente gli elementi positivi rispetto a quelli negativi. Li potremmo chiamare gli “ottimisti realisti”. Se alla coppia ottimismo/pessimismo sostituiamo la coppia ragione/azione, manteniamo le quattro alternative della logica. Ci sono stati ottimisti della ragione che hanno agito per il bene comune e ottimisti indifferenti alle sorti dell’umanità. All’opposto, il pessimismo della ragione ha condotto molti uomini sia all’apatia sia alla perseveranza dell’agire. Molti grandi pensatori, pur avendo una visione tragica della realtà, si sono impegnati per costruire un mondo migliore. Direi pertanto che c’è un “ottimista ingenuo” che attende invano che vengano soddisfatte le proprie fantasticherie e c’è un “ottimista realista” che si impegna nel lavoro e nella vita e trae fiducia dagli aspetti positivi della propria attività; così come c’è un “pessimista ingenuo”, che si può deprimere fino a rinunciare alla vita, e c'è un “pessimista tragico”, che può vivere con maggiore intensità il tempo che gli è concesso. Non è detto, pertanto, che rinunciare all’ottimismo ti permetterà di essere più felice. Il giudizio pessimistico o ottimistico sulla realtà non illumina infatti la realtà stessa, ma rivela la disposizione cognitiva e affettiva di colui che giudica. È sul versante psicologico allora che dobbiamo cercare una soluzione. Oggi conosciamo i benefici dell’ottimismo: offre una sensazione di maggiore autocontrollo sulla propria vita e vantaggi addirittura sul sistema immunitario. Se il pessimismo sembra proteggerci, l’ottimismo realistico ci aiuta ad affrontare con fiducia la vita. Nonostante le difficoltà.
Un caro saluto,
Alberto