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Cor-rispondenze

lunedì 28 febbraio 2011

Il Nichilismo e la perdita di fiducia nei valori



Caro professore,
Lo scorso anno mi è capitato, quasi per caso, di leggere
"L'ospite inquietante. Il nichilismo tra i giovani" di Umberto Galimberti e sono rimasta colpita dalla capacità dell'autore di far emergere la relazione tra la situazione della società giovanile moderna e questo concetto filosofico, che avevo sempre visto come qualcosa di abbastanza lontano dalla vita di tutti i giorni.
Ma ciò che mi interessa è soprattutto sapere come il nichilismo abbia avuto origine nella società di fine '800, quali sono stati i fattori che hanno portato gli uomini a perdere fiducia nella vita e nella religione tanto da permettere a Nietzsche di affermare la teoria della
"morte di Dio" ed essere così l'anticipatore di quei fenomeni che Galimberti riporta nella sua opera.
In particolare: c'è una soluzione al di fuori della "proposta" che giunge a noi dal mondo cristiano di aspettare accettando la vita per ciò che è, perché l'aldilà sarà migliore
(“Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli”)? Bisogna vivere secondo il famoso “carpe diem” di Orazio, senza pensare ad un possibile futuro o sarebbe meglio semplicemente aspettare la fine, il momento di morire?
Grazie,
Lorenza



Cara Lorenza,
Per iniziare questa riflessione sul nichilismo faccio riferimento al bellissimo libro del grande studioso Franco Volpi (1952-2009), “Il nichilismo” [Laterza 2005]). Volpi scrive: “L'uomo contemporaneo versa in una situazione di incertezza e di precarietà. La sua condizione è simile a quella di un viandante che per lungo tempo ha camminato su una superficie ghiacciata, ma che con il disgelo avverte che la banchisa si mette in movimento e va spezzandosi in mille lastroni. La superficie dei valori e dei concetti tradizionali è in frantumi e la prosecuzione del cammino risulta difficile”.
E’ Nietzsche stesso a definire il nichilismo “il più inquietante di tutti gli ospiti” (Frammenti postumi, 1885-1887) e il filosofo Umberto Galimberti riprende questo concetto in una penetrante riflessione sui mali della società contemporanea. Sì, perché Galimberti, filosofo, psichiatra e attento osservatore del nostro tempo, è consapevole che le sofferenze dei giovani prima di essere un problema psicologico sono un problema culturale, perché nel corso degli ultimi due secoli ha avuto inizio una sorta di congedo dalla credenza nei valori assoluti - da cui non si può tornare indietro – che influenza ancora oggi la cultura dominante. Egli scrive: “perché i giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui”. E che cosa avrebbe prodotto profondo disagio, mancanza di prospettive e di progettualità nei giovani di oggi? La causa viene attribuita al nichilismo. Ma che cosa significa nichilismo? Nietzsche scrive: “Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al "perché?". Che cosa significa nichilismo? — che i valori supremi perdono ogni valore” (Frammenti postumi, 1887-1888). Molti filosofi hanno ribadito che l'uomo è un essere che per poter sopravvivere deve continuamente attribuire senso alla propria vita e alle cose che fa; ma l'atmosfera culturale contemporanea purtroppo attenua le speranze, mitiga la fiducia nella vita, spegne i desideri, e produce insicurezze e paure. La mancanza di un senso condiviso dell’esistenza e dei valori produce sofferenza psichica e disorientamento nelle vite degli adolescenti e dei giovani. Galimberti cita spesso il filosofo tedesco Gunther Anders e riferisce che un tempo gli uomini trovavano l’esistenza priva di senso perché dominata dalla sofferenza, mentre oggi, al contrario, ritengono “l’esistenza insopportabile perché priva di senso”. La mancanza di senso provoca dolore, affanni e tristezza. - Pensa che un filosofo argentino (Miguel Benasayag) e uno psichiatra francese (Gérard Schmit) hanno intitolato un libro - in cui riportano i dati di una ricerca sui giovani -: “L’epoca delle passioni tristi” (Feltrinelli 2004).
Sul fatto che nella società contemporanea si sia diffuso un clima nichilistico era d’accordo anche papa Giovanni Paolo II. In Fides et ratio (Edizioni paoline 1998) egli esprimeva la sua preoccupazione sulla diffusione del nichilismo e scriveva: “Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità. Nell'interpretazione nichilista, l'esistenza è solo un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio”. Il papa era preoccupato della perdita di fiducia dell’uomo nella ragione e nella verità, tanto che, alcune pagine più avanti, scriveva che il nichilismo porta l’uomo: “a rinchiudersi ancora di più in se stesso, entro i limiti della propria immanenza, senza alcun riferimento al trascendente”. Secondo Giovanni Paolo II il nichilismo ha una valenza fortemente negativa in quanto condurrebbe l’uomo “progressivamente o a una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine”.
Un filosofo laico e un papa concordano sul fatto che il nichilismo produca sofferenze e possa portare alla disperazione in cui apatia, droga e violenza non vengono più avvertiti nel loro potenziale autodistruttivo, ma cercati per sfuggire dalla monotonia e dall’assenza di un senso comune della vita. L’individuazione delle cause del nichilismo e degli espedienti per uscire dalla crisi è però – ovviamente - profondamente diversa.
Il problema vero, secondo Galimberti, non è tanto il fatto che la storia dell’uomo sia stata attraversata dal nichilismo inteso come “ospite inquietante” (se alcuni valori si svalorizzano, d’altra parte l’uomo ne può creare altri – così è sempre accaduto nella storia), ma che esso permanga e sia così pervasivo da essere più forte delle prospettive di realizzazione della vita individuale o della ricerca stessa di una “vita buona” (come dicevano gli antichi). Se il papa ritiene che il rimedio dalla “distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine” sia dato da una nuova fiducia nella ragione, nella verità e nella religione, Galimberti individua invece proprio nel “desiderio” eccessivo della tradizione giudaico-cristiana (dato dalla credenza nell’immortalità) la causa del dolore prodotto dalla disillusione o dal disincantamento dell’uomo contemporaneo.
Ma perché “sfilare” via il senso dalla vita – come sfilare via il filo che tiene insieme le perle di una collana - provoca dolori così laceranti, tali da gettare l’uomo nella disperazione?
Secondo Galimberti gli uomini hanno creduto nelle descrizioni del mondo prodotte dai miti, dalle religioni, dalle filosofie e dalla scienza. Si sono pertanto sempre orientati nei loro valori facendo riferimento alla tradizione offerta da certe visioni del mondo. Una “visione del mondo” non è altro che una “descrizione del mondo”, che consente comunque di orientarsi, di stabilire che cosa è vero e che cosa è falso, che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. Il Cristianesimo promette agli uomini persino la salvezza e l’immortalità. Il nichilismo rappresenta invece quella forma di spaesamento in cui gli uomini si trovano quando vengono meno i valori tradizionali, messi in discussione nell'epoca della scienza e della tecnica. Il nichilismo, dunque, è il risultato di un processo storico che ha portato l'Occidente a prendere atto del fatto che l'uomo ha creato dei valori assoluti per sopravvivere all’irrazionalità della vita. La cultura del disincanto, del relativismo e dello scetticismo è pertanto cresciuta di pari passo con lo sviluppo della tecnica e della razionalità e, piano piano, ha spazzato via molte credenze e immagini che l'uomo si era costruito in passato per orientarsi nel mondo. Secondo Galimberti vi sono profonde ricadute sui giovani che derivano dal crollo di queste certezze metafisiche. Per questo ritiene che il disagio sia esistenziale e culturale prima che psicologico.
Sono crollati non solo i valori religiosi – le certezze metafisiche – ma anche le ideologie a cui l’uomo aveva affidato le proprie speranze. Pensa che il grande storico Eric Hobsbaum inizia un libro straordinario: “Il secolo breve” (Rizzoli 2007) con un capitolo intitolato: l’Età della frana.
Come potrai leggere nel libro che hai citato, Galimberti individua delle forme per uscire da questa condizione. Parla infatti di un’etica del finito e fa riferimento alla “filosofia del viandante” che non è molto lontana da quello che scrive Franco Volpi: “Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all'altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro. Dopo la caduta delle trascendenze e l'entrata nel mondo moderno della tecnica e delle masse, dopo la corruzione del regno della legittimità e il passaggio a quello della convenzione, la sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo, il solo atteggiamento non ingenuo è la rinuncia a una sovradeterminazione ideologica e morale dei nostri comportamenti. La nostra è una filosofia di Penelope che disfa (analyei) incessantemente la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà”.
Un caro saluto,
alberto


Ti consiglio la lettura di questi libri:
Franco Volpi, “Il nichilismo” [2005] (Edizione economica Laterza 2009)
Martin Heidegger, “Il nichilismo europeo”, (Adelphi 2003) – Si tratta di una corso che Heidegger ha tenuto nel 1940 e fa riferimento a Nietzsche.

lunedì 21 febbraio 2011

La spiritualità degli atei



Caro professore,
E' possibile l'esistenza di una spiritualità per gli atei? E' possibile che essi recuperino i valori appartenenti alla tradizione giudaico-cristiana? E' quindi possibile una forma di ateismo diversa dal materialismo e che non sfoci nel nichilismo?
Paola


Cara Paola,
Che esista una spiritualità (qualunque cosa per ora intendiamo con il termine spiritualità) separata dalla religione o dalla fede nella rivelazione è un dato di fatto. Il problema non è stabilire se esista, ma delimitarne il campo. Cosa davvero non facile. Basta fare un viaggio in internet per scoprire che molte librerie on-line hanno una sezione dedicata alla spiritualità. Ad esempio, il sito Macrolibrarsi.it propone addirittura una articolata sottosezione della voce spiritualità che comprende: Angeli, Ascensione, Baba Bedi, Channelling, Creare la propria realtà, Crescita spirituale, Il mondo interiore, Immortalità, Karma e reincarnazione, Mantra, Meditazione, Metafisica, Nuove rivelazioni, Percorsi di consapevolezza, Rapporto corpo-mente, Scoprire l'aura, Visualizzazione Creativa, Vita e morte, Wesak.
Declinata in questo modo, la voce spiritualità ricorda molto la classificazione degli animali di Jorge Luís Borges. Nel testo “L’idioma analitico di John Wilkins (1951) egli parla dell’“Emporio celeste di conoscimenti benevoli”, ovvero della “Enciclopedia Cinese”. Scrive Borges: «Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche.»Come dire che da queste classificazioni non si esce. Sono classificazioni arbitrarie e inservibili.
Per inciso, nel caso (come il sottoscritto) non conoscessi chi è Baba Bedi (1909-1993), sappi che è il fondatore della Filosofia Acquariana. E se non avessi ancora letto nulla sul Channelling, sappi che è il “settore” che si occupa di coloro che farebbero da tramite con l’aldilà. Poiché do per scontato che tu abbia maggiore familiarità con argomenti del tipo: “Creare la propria realtà”, o “Nuove rivelazioni”, o “Scoprire l'aura”, mi permetto solo di ricordarti che il Wesak è una festività celebrata nel periodo del plenilunio della Costellazione del Toro. In quei giorni alcuni “iniziati” di movimenti religiosi si ritrovano in una valle ai piedi di una montagna sacra (il sacro monte Kailash) in Tibet.
Per brevità, non riporto i titoli contenuti nelle varie sezioni, ma diciamo che se non ci fossero particolari “esperti classificatori” a me sarebbe difficile distribuire i libri in base alla suddivisione proposta dal sito. Ma probabilmente io soffro di un disturbo ontologico e quindi fatico a classificare la realtà in modo coerente.
Non seguo pertanto questa strada, ma preferisco far riferimento ad un paio di autori contemporanei (occidentali): ad esempio, al filosofo francese André Comte-Sponville e al teologo italiano Vito Mancuso. Un ateo e un cattolico. Così, per par-condicio.
Comte-Sponville ha pubblicato qualche anno fa un testo che ha un titolo eloquente: "Lo spirito dell'ateismo. Introduzione a una spiritualità senza Dio" (Ponte alle Grazie 2007). Facendo riferimento al ritorno alla religione, ma soprattutto preoccupato dal diffondersi di alcune forme di fanatismo religioso egli si interroga se sia possibile una spiritualità non ingabbiata, repressa o sovrastata da una specifica religione. E pertanto si mette alla ricerca di questa eventuale spiritualità, sostenendo un’opinione condivisibile che: “Lo spirito non è proprietà di nessuno.” […] e che pertanto “Gli atei non hanno meno spirito degli altri. Perché dovrebbero interessarsi della vita spirituale meno di loro?”. Facendo riferimento a sant’Agostino il quale scriveva che: "Le tre virtù di fede, speranza e carità sono tutte necessarie in questa vita; ma dopo questa vita, sarà sufficiente la carità", Comte-Sponville ritiene che anche gli atei possano far riferimento alla virtù più importante per il cristianesimo: la carità. Senza allusioni alla trascendenza, ma declinata nell’ambito del finito. Se si considerano sacri alcuni valori, doveri e responsabilità della specie umana nei confronti degli altri esseri viventi, della natura e delle generazioni future, e si ritiene che valga la pena sacrificare la vita per tali valori, allora si può coltivare una vita spirituale che si allontana – come dici tu – sia dal materialismo sia dal nichilismo. Una spiritualità che convive con le religioni, ma invece di “religere" l’uomo a Dio, unisce l’uomo al tutto che lo circonda. In questo senso la spiritualità è una forma di tragitto dal proprio io e dal proprio egoismo, all’interesse verso altri esseri viventi e verso la natura che ci ospita. Ma che cos’è la spiritualità? È “la vita dello spirito”, scrive Comte-Sponville. E che cos’è lo spirito? Comte-Sponville scrive: “Noi siamo degli esseri finiti aperti sull'infinito […]. Posso aggiungere: degli esseri effimeri aperti all'eternità; degli esseri relativi aperti all'assoluto. Quest'apertura è, appunto, lo spirito”.
E allora in che cosa consiste la differenza tra religione e spiritualità? Il filosofo risponde che l’apertura all’eternità è intesa in modo differente: “La metafisica consiste nel pensarla; la spiritualità nello sperimentarla, nell'esercitarla, nel viverla”. La metafisica, che si è fissata e talvolta irrigidita nelle religioni, tenta di pensare l'eternità e di poterla conoscere, la spiritualità si accontenta di sperimentarla nella vita.
Anche sul versante cattolico, il teologo contemporaneo Vito Mancuso in un dialogo intenso e intelligente con Corrado Augias dal titolo “Disputa su Dio e dintorni” (Mondadori 2009), invita a maturare una riflessione più profonda sulla spiritualità all’interno dell’ambito cattolico. Mancuso scrive: “Io sono alla ricerca di una spiritualità universale, in grado di far sì che tutti gli uomini, a prescindere dalle appartenenze religiose, si possano aprire alla realtà del bene e della giustizia quale valore supremo per cui vivere”. E più avanti ribadisce che, pur nelle differenze, le religioni devono valorizzare maggiormente la spiritualità propria degli uomini, e devono lavorare al servizio della loro pacifica convivenza. Scrive Mancuso: “C'è bisogno di una spiritualità nuova. Non di una religione nuova nel senso di una superreligione, perché ogni religione deve rimanere se stessa, il cristianesimo cristianesimo, il buddhismo buddhismo, e così via. Ma si tratta di capire che la spiritualità è maggiore della religione e che ogni religione deve interpretare se stessa come un servizio disinteressato a questa più grande spiritualità e porsi al servizio della pace e dell'armonia fra gli uomini”.
Come vedi c’è spazio per una spiritualità rinnovata, non monopolio esclusivo delle religioni, ma in grado, al di là dell’eterogeneità delle credenze, di porsi complessivamente al servizio della vita. La spiritualità diventa pertanto un terreno più profondo, lo sfondo comune in cui atei e credenti posso incontrarsi per difendere i valori della vita, aperti entrambi al mistero che essa rappresenta per tutti.
Un caro saluto,
alberto

lunedì 14 febbraio 2011

Il senso della vita



Caro professore,
La vita ha un senso? Tutti se lo chiedono prima o poi. Perché siamo qui? Io non lo so. Secondo me nessuno lo sa. Forse lei professore cercherà di rispondermi con qualche frase, magari detta da qualche personaggio importante, ma in fondo io so che quel personaggio importante sarà soltanto un uomo come noi, come tutti noi che ci poniamo questa domanda. Ognuno di noi trova la risposta in qualcosa come l’AMORE, come l’AMICIZIA… Io la risposta non la trovo… anche se sono credente e a volte trovo la risposta in una vita ultraterrena, quella tanto promessa da Dio ai buoni… Credo che la maggior parte delle volte la risposta sia che la vita non ha senso… Ma se ci fosse qualcuno che è disposto a dirmi il senso di questa VITA, allora me lo dica, proverò ad ascoltare anche se credo che un uomo non possa darmi una risposta. Cercherò lo stesso di ascoltare e apprezzare la risposta, per una volta.
Enrica



Cara Enrica,
Quando sorge l'interrogativo sul senso della vita? Potremmo dire che si può presentare in ogni momento dell'esistenza. Certo. Ma l’interrogativo affiora in modo particolare quando accade qualche evento drammatico, di solito la perdita di una persona cara. Il dolore attenua la fiducia nella vita e magari provoca un mutamento improvviso del paradigma con cui attribuiamo ad essa dei significati. Talvolta, però, è proprio a partire da un momento di smarrimento che possiamo accogliere nuove valutazioni dell’esistenza. Chissà che il senso della vita non cambi con l’età o con la vecchiaia o con la malattia. Che ci siano pertanto più sensi che gli uomini attribuiscono alla vita in periodi diversi. Innanzitutto dobbiamo chiederci se gli uomini si sono sempre posti questo interrogativo nella storia. Probabilmente sì, diremo noi, perché ogni uomo prima o poi cerca di comprendere il motivo per cui è “al mondo”. Ma pare che storicamente non sia andata esattamente così.
Come fa notare il teologo e filosofo svizzero Hans Kung (1928) nel libro “Ciò che credo” [2009], Rizzoli 2010, "Per secoli gli uomini non si sono assolutamente posti l'interrogativo sul senso della vita". […] "Per gli uomini della Bibbia ebraica, così come per quelli del Nuovo Testamento, e anche nel Medioevo, interrogarsi sul senso della vita era irrilevante. Perché? Perché partivano dal presupposto che questa domanda aveva già una risposta. Da sempre. Il senso della vita era certo: era Dio e l'osservanza dei suoi comandamenti. E questa fede del singolo era condivisa dall'intera comunità dei credenti. Perché preoccuparsi allora di indagare se la vita del singolo in quanto individuo avesse un senso particolare? ". Pare dunque che questo interrogativo sia tipico dell’età moderna. Hans Kung - che è molto preciso -, individua anche il primo che formulò (per iscritto) tale domanda. A noi può suonare strano, ma fu Giovanni Calvino. Scrive infatti Kung: “Calvino fa iniziare il suo Catechismo del 1542 con la domanda: «Qual è il principale fine della vita umana – la principale fin de la vie humaine?» La risposta è lapidaria: «C'est de connaitre Dieu – è conoscere Dio». E continua: perché? «Perché ci ha creati e fatti nascere affinché Egli sia glorificato in noi.» Senso e fine della vita umana è dunque la gloria di Dio, la gloria Dei. I catechismi cattolici introdussero la domanda soltanto nel XVII secolo. E la risposta standard diventò quella della formula che mi ricordo anch'io da quand'ero bambino: «Perché siamo sulla terra? Per conoscere, amare e servire Dio sulla terra, per goderlo poi in cielo (o: giungere alla vita eterna)» .” Saranno i liberi pensatori inglesi del ‘600, ad esempio Anthony Collins, John Toland, Matthew Tindal, poi i filosofi illuministi e i materialisti dell’Ottocento a suggerire altri significati della vita. Nel ‘900 il sociologo Max Weber (La scienza come professione) scriveva: “è destino della nostra epoca, con la razionalizzazione e l'intellettualizzazione a essa propria, e soprattutto con il suo disincantamento del mondo, che proprio i valori ultimi e più sublimi si siano ritirati dalla sfera pubblica per rifugiarsi nel regno oltremondano di una vita mistica o nella fratellanza delle relazioni immediate tra gli individui». ” Viviamo dunque in un mondo “disincantato”, e questo disincantamento è avvenuto per opera della ragione e della tecnica. Nell’attuale società globale entriamo a contatto con filosofie, teologie e religioni diverse. Ognuna di esse è “portatrice di un senso” del mondo. Abbiamo pertanto una variegata offerta culturale, una pluralità di possibili sensi della vita. Talvolta questa offerta ci disorienta, altre volte fa nascere in noi una convinzione relativista più o meno fondata dei valori stessi.
Sappiamo che per chi vive in contesti particolari, dopo una guerra, in situazioni di povertà o in mancanza di lavoro, lo scopo della vita è dato da obiettivi immediati: trovare soluzioni efficaci ai problemi quotidiani. Forse in questi momenti le persone non soffrono crisi legate al venir meno del “senso dell’esistenza”. Ma sappiamo anche che in certi momenti si possono presentare forti dubbi sul fatto che l’esistenza abbia un senso. Ci sono uomini, infatti, che dopo crisi epocali che hanno fatto crollare il sistema di riferimento religioso o politico che orientava la loro visione del mondo, si sono sentiti smarriti, e hanno pertanto vissuto questo crollo come un fallimento generale se non proprio della loro vita, almeno delle loro convinzioni, delle loro battaglie. O hanno pensato che la vita non abbia senso.
Prendiamo ora (brevemente) in considerazione alcune attribuzioni comuni di senso alla vita.
1. Il lavoro è il senso della vita.
Il lavoro è certamente fondamentale per una persona. Dedicare energie per realizzare degli obiettivi, lavorare con grande motivazione per ottenere certi risultati offre grandi soddisfazioni. Insieme al lavoro, la famiglia e l’agire politico e sociale contribuiscono a rendere la vita piena.
2. Fare molte esperienze.
Il senso della vita potrebbe essere quello di fare molte esperienze. Conoscenze, fare esperienze piacevoli, incontri, viaggi.
3. Realizzare se stessi.
L’imperativo all’autorealizzazione suona così: crea i tuoi obiettivi e perseguili. Sarai felice. Il senso della vita lo stabilisci tu.
4. Impegnarsi nel volontariato.
Insieme al perseguimento del propri obiettivi, c’è chi sente più completa la propria vita se riesce a dedicare del tempo agli altri: all’assistenza o all’impegno politico per il bene della collettività.
Sicuramente tutti questi aspetti sono fondamentali per dare un senso alla propria vita e per vivere una vita buona. C’è chi si pone però anche un’altra questione. Quella che considera il senso della storia dell’uomo, se cioè tutta l’esistenza umana abbia un senso complessivo, un senso più grande, che comprende tutte le vite, quelle che sono vissute più a lungo e quelle che sono scomparse rapidamente. Kung scrive: “Confesso che non riesco a rassegnarmi a tutta la miseria, l'ingiustizia, l'insensatezza di questo mondo, e per questo cerco un senso ultimo nella vita, in quella degli altri e nella mia”.
C’è chi proprio a partire da queste considerazioni cerca di vivere la vita nel tempo che gli è concesso cercando di impegnarsi nei settori più diversi, nel sociale, nell’assistenza, nella politica, perché la consapevolezza delle disuguaglianze e delle ingiustizie lo motiva a mettersi in gioco in prima persona. Questo basta a dare senso alla vita? Credo di sì. Ma c’è chi chiede o cerca un senso della vita che comprenda anche la morte e che dia senso ad essa. Che spera in una giustizia definitiva e autentica. E da qui si aprono altre strade. È legittimo sperare.
Un caro saluto,
alberto lusso

lunedì 7 febbraio 2011

Il senso della vita (IV parte)



7. “Pensa ora alla vita sulla terra, agli esseri umani, agli animali, alle piante. Pensa al cosmo, ai pianeti, alle galassie”. Come spieghi la vita? E che significato dai alla vita?

L'altro giorno stavo aiutando mio padre nella stalla e tutto ad un tratto ho iniziato a fissare un vitello qualunque e a riflettere sulla sua condizione di vita. Questo vitello nasce in Francia, sta solo un mese con la madre, poi le viene portato via per essere trasferito in Italia dove viene svezzato, ingrassato e poi macellato. Passa tutta la vita, cioè fino a quando non viene macellato, chiuso in un recinto, e le uniche cose che può fare sono: mangiare, bere e dormire. Nient'altro al di fuori di queste tre cose. E qui mi viene da chiedere che senso abbia vivere per lui, e se poi penso alla fine che fa mi vengono i brividi. Eppure la vita è così, ognuno deve fare ciò che è stato deciso da Dio e soprattutto seguire il proprio destino.

Posso dire che, in generale, alcune delle idee che io ho della mia vita personale posso considerarle valide anche per la vita in generale. Tutto, secondo me, è stato creato da Dio per un motivo ben preciso, ogni cosa così come ogni essere umano, pianta o animale, è indispensabile per qualcosa, perché se sono stati creati, ci dev'essere un motivo valido e ben preciso. Il cosmo, i pianeti, le galassie, la terra hanno vissuto, vivono e vivranno per sempre; ciò che cambia siamo noi, noi esseri umani, noi piante, noi animali che abbiamo un tempo limitato da vivere, ma che vale davvero la pena vivere pienamente.

Credo che tutto quello che ci circonda (uomini, piante, animali, pianeti) sia regolato da leggi fisiche, matematiche o puramente scientifiche, che tutto sia spiegabile anche se sono consapevole che non tutto è stato spiegato a causa dei limiti umani. Questa forse è una di quelle domande a cui non ho ancora risposto completamente.

Mi sono sempre chiesta come sia possibile la vita su questa terra. E' una cosa che mi affascina da morire: pur essendo credente tengo anche in considerazione la scienza e ad essere sincera non sono in grado di spiegare la vita, forse sarei troppo superficiale o banale. Ma il significato che do alla vita è assai importante, credo che la vita sia qualcosa di speciale, e vivere ancora di più. Per me sinonimo di vivere è viaggiare.

Pochi anni fa avrei certamente risposto che la vita era stata creata da Dio, così come tutti gli esseri viventi, gli animali e le piante, e che il senso della vita era vivere nel migliore dei modi seguendo i vari comandamenti e le norme per garantirsi una buona vita dopo la morte. Ma oggi penso che la vita di per sé non ha un senso vero e proprio, ma ritengo che ognuno di noi deve vivere da subito al massimo, vivendo tutti gli attimi di felicità e tutto ciò che comprende il vivere stesso. Per fare questo secondo me è giusto o meglio necessario che ciascuno di noi trovi un senso alla propria vita. Tutti dobbiamo sapere che cosa vogliamo dalla vita, vivere il presente e trovare quello che per noi è il significato della nostra vita, perché non ci sono risposte giuste (se magari esistono), sul senso della vita in generale.

La vita di un essere umano non è che un misero granello di sabbia nel deserto. Siamo così piccoli e fragili rispetto all'infinità che ci circonda, eppure ci arrabbiamo, soffriamo, amiamo; ma qual è il vero grande motivo per cui siamo portati a fare tutto ciò? Secondo me la vita è un dono, ma a volte anche una condanna. In fondo, dipende da come viviamo noi. Sono convinta che ogni nostro gesto abbia una determinata conseguenza; eppure, pensandoci, il nostro gesto non incide minimamente nella vita di altri milioni di persone, non incide nella vita di un orso polare né per le maree. Sì, credo che la vita degli esseri umani sia paragonabile al nulla e all'insensato, che sia forse anche inutile. Però un sentimento grande come l'amore può giustificare la vita dell'uomo.

La mia impressione su ciò che ci circonda è che più tempo e impegno dedichiamo per scoprire ciò che ci circonda, in un certo senso per renderlo meno misterioso, più scopriamo che in realtà le leggi dell'universo intero ci sorpassano infinitamente. Riflettendo su questo faccio fatica a credere che sia tutto frutto del caso, dello scorrere del tempo, e penso che ci sia qualcuno che ha concepito tutto questo.

Ritengo sia errato considerare la vita e l'esistenza guardando dall'alto, come se guardassimo la terra e l'universo con una lente di ingrandimento. Non ho la più pallida idea di che cosa significhi "vita" al di fuori del nostro corpo e di noi stessi; penso che il significato più profondo e ultimo dell'esistenza sia per noi incomprensibile, per la nostra insignificanza e piccolezza. La vita è comunque qualcosa di bello, diversa l'una dall'altra e unica, e che siamo noi a decidere come vivere questo tempo. Questa decisione basta a spiegarla.

Penso che la vita sia un cerchio: tutto ciò che nasce in un punto, dopo aver percorso tutta la circonferenza, torna nello stesso punto e rinasce poi sotto una nuova forma. Nel mondo animale bisogna rispettare tanto il leone quanto l'antilope. E' vero, il leone è più forte e si nutre dell'antilope, ma quando il leone muore, il suo corpo verrà decomposto, diventerà concime e nutrirà l'erba, e l'antilope si nutrirà di quell'erba. Bisogna avere rispetto per tutto ciò che esiste intorno a noi, perché prima o poi quella cosa o quella persona ci torneranno utili, ed è proprio allora che rimpiangeremo di non averle rispettate.

Sinceramente non lo so... sono ancora abbastanza combattuta sull'argomento. Il mio dubbio di fondo nasce ovviamente dal dubbio su Dio...; in ogni caso per noi la vita sulla terra è qualcosa di straordinario, misterioso e un po' inspiegabile; credo che la sua bellezza stia proprio qua, ovvero nel non "esporsi" del tutto, e non farsi comprendere al cento per cento. E' emozionante che ci sia ancora qualcosa che nessuno può spiegare con certezza nonostante tutti i progressi della scienza. E' qualcosa di irrazionale che, ne sono sicura, nessuno, e ripeto nessuno, potrà mai dire di conoscere con certezza. Neanche tra mille anni. E' mi piace un sacco questa cosa. Comunque mi piace pensare che nei luoghi in cui abbiamo vissuto prima rimanga qualcosa di noi, anche quando andiamo a vivere da un'altra parte o nel più tragico dei casi moriamo.

Interpreto la vita come un dono divino, qualcosa dal valore inestimabile e unico. Essa è, secondo me, un esame continuo che termina soltanto con la morte, ma ricomincia immediatamente nell'aldilà. La vita dunque non va sprecata, perché in terra ce n'è una sola e deve avere come fine ultimo la felicità vera, senza danneggiare il prossimo.

Penso che la vita sia la caratteristica più elevata che un "corpo" possa avere oltre alla ragione e alle particolari abilità che ogni specie ha. Senza la vita nessuna nostra abilità potrebbe esistere.

Credo che questa sia una delle domande a cui l'uomo non troverà mai risposta. Da bambina immaginavo il mondo come una casa delle bambole e che un certo essere (molto simile a babbo Natale) ci muoveva tutti con dei fili invisibili. Beh, oggi non immagino le bambole, ma il senso è molto simile. Finiremo tutti alla stessa stazione, qualsiasi cosa facciamo; la differenza sta nel come decidiamo di arrivarci: c'è chi sceglie la strada più lunga, chi la scorciatoia, chi torna indietro. Quello che dobbiamo mettere in conto è che qualunque strada decidiamo di prendere, possiamo perderla da un momento all'altro e ritrovarci improvvisamente su un'altra via. E' qui che sta l'imprevedibilità della vita e purtroppo della vita non abbiamo la cartina.

Ho sempre pensato che il nostro universo fosse raccolto in una bolla di vetro e che qualcuno ci guardasse: una sorta di "Truman show”, come se fossimo dei piccoli tori raccolti dentro una gabbia di ferro (il nostro universo) e qualcuno ci prendesse come cavie per i suoi esperimenti e ci guardasse evolverci, farci le guerre e progredire, quando possibile.

La vita è come un palloncino legato al polso di un bambino, è come un treno perennemente in ritardo che, però, quando devi prendere, arriva in anticipo; è come l'onda che - nonostante il mare calmo - ci travolge; è come un bouchet da sposa lanciato per aria; è il famoso "codino" delle giostre; è la calza rimasta nascosta in un lenzuolo da stendere appena tirato fuori dalla lavatrice; è come l'ultimo pantalone della tua taglia trovato durante i saldi... La vita è un'occasione. E' l'occasione per dare un senso all'esistenza, perché si può semplicemente "esistere", ma per "vivere" serve ben altro.

L'universo è un immenso palcoscenico sul quale si svolge la meravigliosa tragicommedia della vita. In questo spettacolo siamo tutti primi attori, non c'è nessuno che abbia un ruolo minore; sta a noi dare il meglio di noi stessi per lasciare la nostra impronta sul palcoscenico, anche quando saremo poi usciti di scena.

Essendo una persona razionale, non riesco a vedere la natura diversamente da quella serie di coincidenze fisiche e materiali che l'hanno portata ad essere come si presenta. Non escludo totalmente l'idea di un "creatore del tutto", ma nella mia testa è molto più debole.

Considero la vita un "dono", una coincidenza fortunata che bisogna sfruttare al massimo e non sprecare, mentre qualche anno fa credevo che fosse stata creata da Dio come dice la Bibbia.

Penso che non ci sia dato sapere. Non ci è dato sapere il vero significato della vita, possiamo solo trovare un nostro senso personale e prossimo ad una verità interiore.



8. “E il significato che dai alla vita in generale, che impatto ha sulla tua vita personale? Come dirige le tue priorità, le tue scelte, i tuoi comportamenti?”.


In realtà la vita è niente, noi siamo frutto del caso, basta una minima cosa per farci sparire, però se vogliamo possiamo cambiare la nostra esistenza, la nostra condizione di vita, basta solo volerlo e di conseguenza impegnarci al massimo per raggiungere questo traguardo. Dato che io sono dell'idea che non bisogna aver paura di provare nuove emozioni, prendere nuove decisioni ecc., sempre comunque entro i limiti.

A seconda delle situazioni che si possono presentare, talvolta il senso che do alla vita in generale coincide con quello che do alla mia vita personale e talvolta no. Il mio comportamento, le mie scelte e i miei obiettivi sono, soprattutto, basati sul significato che io do alla mia vita.

Il significato della vita in generale combacia perfettamente con quello della mia vita personale, proprio perché quest'ultimo è nato dal primo e dirige completamente tutti i miei comportamenti.

Il significato che do alla vita ha diversi impatti sulla mia vita personale che dipendono dalle diverse situazioni che mi si possono presentare. I miei comportamenti spesso, ma non sempre, si adattano alle circostanze.

Le mie priorità e le mie scelte sono determinate dal momento e dalle varie situazioni che si presentano nella mia vita, e sono influenzate dal senso che do alla mia vita e non a quello che do alla vita in generale.

Ultimamente mi fa sentire impotente e a volte senza senso. Questo non vuol dire che evito di fare i miei doveri o quello che mi piace, ma continuo a vivere, solo un po' più "confusamente" di quando non pensavo tanto a queste cose.

In un certo senso tutto questo contribuisce a farmi pensare che ciò che mi circonda in realtà non mi appartiene, forse neppure il mio corpo. Di conseguenza non vale più soltanto la regola sull'agire: " fai ciò che vuoi rispettando la libertà degli altri ", ma altre più profonde che impegnano tutto me stesso.

La vita è una sola. Non è vero che i gatti hanno sette vite, perché una volta che il loro cuore ha smesso di battere non possono essere richiamati dagli inferi come in un gioco di fantascienza. Proprio per il concetto di "vita" che si è formato in me in questi anni mi comporto di conseguenza: vivo dei momenti di felicità e di gloria senza però "addormentarmi sugli allori", convinta che tutto ciò durerà in eterno, ma continuo a darmi da fare per mantenere i miei risultati. Vivo la vita con coraggio intelligente (sono temeraria e senza paura laddove so che la posta in gioco non è al di sopra delle mie possibilità) e con realismo risoluto (vedo la realtà così com'è sapendo che se davvero voglio ottenere qualcosa la otterrò).

Credo di avere, o almeno provo, un gran rispetto per ciò che ci circonda, la natura in primis. Di conseguenza prima di fare determinate azioni che potrebbero, anche per anni, compromettere (insieme a tante altre azioni) il futuro della nostra terra, ci penso. E se posso passare del tempo all'aria aperta, magari in un posto semplice come in un prato fiorito, preferisco.

Il mio modo di vedere la vita mi spinge a ricercare la felicità in ogni cosa che faccio, evitando ciò che ritengo sbagliato moralmente.

Ogni essere vivente ha secondo me lo stesso diritto di vivere.

Per ora la mia vita va avanti molto spontaneamente, nel senso che agisco seguendo l'istinto, faccio ciò che ritengo giusto per me e cerco di evitare di fare errori, cosa impossibile. Non ho ancora sentito la necessità di pormi queste domande, probabilmente perché è molto più comodo vivere in questo modo senza pensieri. D'altra parte credo che riflessioni su riflessioni facciano perdere la visione del nostro mondo e della nostra funzione in esso.

Guardando il cielo di notte ho sempre avuto il terrore di essere schiacciata dall'immensità dell'universo o dalle cose a me ignote. Stupida idea ripensandoci di giorno, ma ogni volta che è notte mi sento una piccola formica nel tutto. Questa sensazione mi ha diretto nella mia scelta di vita: cerco di dare importanza alle cose davvero importanti e non alle cose futili che non arricchiscono la voglia di vivere.

Curiosamente mi porta a buttarmi, a mettermi in gioco, a rischiare, a non "esistere" ma appunto a "vivere". La vita è un'occasione che non viene concessa due volte, bisogna assaporarla, accudirla, coccolarla, darle un senso. I miei comportamenti sono impostati sul vivere il presente, perché si vive di attimi che non ci si può lasciar scappare.

La mia vita personale è una piccola goccia nell'oceano della vita in generale. Nessuna goccia è indispensabile all'oceano, ma ognuna aiuta ad arricchirlo. Per questo dirigo i miei comportamenti, le mie scelte per arricchire e migliorare un pochino il piccolo mondo intorno a me.

Penso che questo modo di vedere le cose mi porti ad agire meno per etica e più per utilità, piacere, senso di giustizia personale, cercando di coniugare il volere della mente e il sentimento proveniente dal cuore.

La vita è una coincidenza, un insieme di fattori che ha funzionato da qualche milioni di anni fino ad oggi, e bisogna apprezzarla e sfruttarla al massimo. Per questo motivo mi impegno sempre al massimo in ciò che faccio e non perdo quasi mai tempo ma cerco sempre di fare qualcosa di utile.