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Cor-rispondenze

lunedì 26 aprile 2021

La trama nascosta 1/2



In un famoso frammento dell’opera “Sulla natura”, Eraclito afferma che «la trama nascosta è più forte di quella manifesta». Al di là di ciò che si rende visibile all’occhio umano c’è infatti una struttura profonda del reale che non si coglie immediatamente. Ammiriamo l’armonia del corpo, ma ne ignoriamo la complessità; scorgiamo le stelle nel cielo, ma siamo all’oscuro dei loro moti complessi; esaminiamo i fenomeni della fisica, ma ad un primo sguardo non comprendiamo le leggi che li governano. Forse è per questo che, pur essendo convinto della trama razionale del mondo, Eraclito diceva che «la natura ama occultarsi». Possiamo chiederci: c’è una sola trama nascosta o le trame sono molte? Potremmo dire che ci sono molti fili che si intrecciano a gradi diversi nella complessità del mondo. Prendiamo in considerazione alcuni livelli: c’è la trama nascosta della natura (livello ontologico), quella del pensiero e del linguaggio (livello logico), quella del corpo (livello biologico-genetico), quella dell’interiorità dell’uomo (livello psicologico), quella che motiva il comportamento individuale (livello etico), quella che orienta l’agire collettivo (livello politico). In che senso la trama nascosta è più forte di quella manifesta? Ammiriamo l’ordine naturale, il ciclo dei giorni, dei mesi e degli anni. Siamo affascinati dall’alternarsi regolare delle stagioni e dalla sequenza incessante della riproduzione degli esseri viventi. C’è una legge che regola il divenire e i vari cicli che per gli antichi si succedono eternamente. Il mondo non è dominato dal caos né da un assurdo e oscuro destino, ma è governato da una legge razionale. Eraclito chiamava questa ragione il “Lògos”. La Ragione stessa è dunque l’origine di tutti i cambiamenti che noi contempliamo. È la trama delle trame: la matrice costitutiva di tutta la realtà in ogni sua manifestazione: reale, logica, biologica, psicologica, etica e politica; la fonte da cui si avviano tutti i rivoli – ossia le dimensioni – di ciò che esiste. Grazie alla consistenza della struttura nascosta, nel VI sec. a.C. Talete è riuscito a prevedere un’eclissi di Sole e Pitagora ha compreso che i suoni hanno un preciso rapporto con la lunghezza della corda che vibrando li produce. C’è una struttura matematica del cosmo e Pitagora ha detto che tutto può essere tradotto in numero. Molti secoli dopo Galileo Galilei ha formulato questa idea in una bellissima espressione contenuta ne “Il Saggiatore” (1623): «La filosofia [della natura] è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». Consideriamo ora un altro aspetto della realtà. Prendiamo dei semi: di lattuga, ravanello, pomodoro, peperone, zucca, sesamo, grano; ma anche di ciliegia, pesca, noce, avocado, papaya, mela e anguria. Mettiamoli sul tavolo. Alcuni sono davvero piccoli, altri sembrano minuscoli sassi. Li possiamo conservare in un contenitore di vetro, come una sorta di ghiaia colorata dalle varie dimensioni. Ma se creiamo le condizioni di umidità e nutrimento necessari, ogni seme si sviluppa. Aristotele direbbe che si espande dentro la propria “forma”, ossia dentro la propria “specie”. Ogni seme potrà produrre o meno la pianta di cui all’interno porta le informazioni. Allora dobbiamo considerare ogni seme come un software che contiene il programma di sviluppo della pianta, le regole del suo divenire e le ragioni della sua configurazione. Ogni pianta potrà crescere, portare frutto e riprodursi, oppure potrà morire in ogni momento del processo. Però, per quanto minuscolo, ogni granello contiene le informazioni per l’accrescimento della verdura o dell’albero. C’è dunque una ragione che regge il cosmo e c’è una ragione intrinseca ad ogni specie vivente che accompagna la sua crescita. Oltre alla razionalità costitutiva anche della più piccola realtà, c’è una struttura razionale del pensiero: è la logica che pervade tutti gli esseri umani. Da Aristotele agli stoici, da Kant a Hegel, da Gottlob Frege fino a Kurt Gödel, gli uomini si sforzano di esplicitare l’articolazione mentale che consente loro di conoscere: indagano pertanto il funzionamento di quella “applicazione naturale” che permette di pensare e spiegare il mondo. Oltre alla logica, occorre tenere in considerazione il linguaggio. Sappiamo infatti che le parole si combinano in strutture complesse. Andrea Moro, in “Breve storia del verbo essere”, ricorda che le lingue naturali sono strutture biologicamente determinate e invarianti. Queste conclusioni confermano un’intuizione del filosofo inglese Ruggero Bacone del XIII sec., il quale aveva detto che «Grammatica una et eadem est secundum substantiam in omnibus linguis, licet accidentaliter varietur» («la grammatica nella sua sostanza è una e una sola in tutte le lingue, anche se ci possono essere differenze accidentali»). Questa idea di una «grammatica universale» è alla base dei lavori di molti autori contemporanei e ricorda che la possibilità di trasferire un contenuto da una lingua ad un’altra significa che anche nel linguaggio c’è una “trama nascosta” che permette agli uomini di comprendersi. 

Un caro saluto,

Alberto


lunedì 12 aprile 2021

Involontariamente

 


C’è qualcosa di ingegnoso e allo stesso tempo di nobile nella sentenza di Socrate: «nessun uomo pecca volontariamente». Geniale, per la riflessione razionale con cui il filosofo argomenta la tesi; e nobile, perché vorremmo fidarci di questa intuizione, anche se spesso dubitiamo di tale verità. Sappiamo fin troppo bene dalla storia –  e anche Socrate lo sapeva – che esistono uomini intrinsecamente malvagi. In “Tito Andronico”, la più cruenta tragedia di Shakespeare, Lucio chiede ad Aronne: «Non sei pentito di questi infami delitti?» E Aronne risponde: «Mi pento, sì, di non averne fatti altri mille. Ancor oggi maledico i giorni […] nei quali non ho commesso qualche famigerata malvagità». Se lasciamo da parte alcune degenerazioni della natura: persone accecate dal male che con sadica esattezza vogliono la distruzione del genere umano e ci concentriamo sulla maggior parte della specie, senza naturalmente idealizzarla, possiamo affermare con Socrate che “di solito” ogni uomo agisce per ottenere il bene. Quindi, secondo il filosofo ateniese, nessuno compie il male volontariamente, talvolta – purtroppo – scambia il male per il bene e pertanto non si comporta in modo virtuoso solo perché ignora ciò che era davvero giusto fare. Secondo Socrate, l’uomo non agisce con la volontà di fare il male: scarso sapere e inadeguata educazione di sé non consentirebbero di rendersi conto del momentaneo abbaglio: aver confuso il piacere temporaneo con il bene durevole. Il tema è ripreso nell’ “Ippia minore”: perché l’uomo dovrebbe compiere il male volontariamente? Socrate dice che per volere il male, l’uomo deve conoscerlo e quindi saperlo distinguere dal bene. Se è in grado di distinguerlo dal bene  è in grado di conoscere il bene. Ma un uomo che conosce il bene, perché dovrebbe scegliere il male? Chi agisce, infatti, vuole sempre conseguire il proprio bene. Socrate pone sullo stesso piano due grandi temi: la verità e il bene. Ed ecco la sua genialità: come la verità si disvela gradualmente e orienta le menti razionali, così il bene si manifesta progressivamente alla ragione. In greco “verità” si dice “aletheia”, e si compone di un “a” (privativo) e “Lete” che significa “oblio”, in quanto Lete era la fonte dell’oblio. Letteralmente la parola verità significa “togliere il nascondimento”, ossia “svelare”, che anche qui vuol dire “togliere il velo”. Avviene qualcosa di simile quando si apre un sipario e piano piano si intravvede la scena che sta dietro o, in modo più prosaico, quando si tirano via le lenzuola dal letto e si scoprono calzini, piedi, pigiama e il resto del corpo. La verità e il bene sono portati alla luce dalla ragione che dirada la nebbia che impedisce di distinguere adeguatamente la realtà vera. Se conosciamo che la somma degli angoli interni di un triangolo è di 180°, non accetteremo mai di affermare che è 75° o 125° né ammetteremo un numero diverso da 180°. Sosteniamo un numero differente solo se ignoriamo la verità. Appresa la verità, ogni tentennamento è escluso per la potenza della verità stessa. Secondo Socrate funziona così anche con il bene: se conosciamo il bene, siamo spinti verso di esso, perché la nostra natura razionale ci esorta a realizzarlo. Siamo dunque attratti dal bene e siamo in grado di distinguerlo dai suoi surrogati. Conoscere adeguatamente il bene è un po’ come conoscere le proprietà del triangolo: quando le padroneggiamo cessano ambiguità e dubbi; così, sul piano etico, avendo chiaro il bene ci sforziamo di conseguirlo. Secondo Socrate il bene ha la stessa potenza della verità, è della stessa natura. Una volta conosciuto non può essere confuso con altro. Ecco un esempio: fumare fa male. Lo sappiamo, ma molti continuano a fumare e ad ignorare questa verità. Socrate è convinto che se uno conoscesse veramente i danni e avesse compreso a fondo il deterioramento dei polmoni e della salute provocati dal fumo, smetterebbe di fumare. Se non abbandona tale pratica non è perché è cattivo, ma perché non ha veramente compreso il danno. Socrate è stato accusato di intellettualismo etico: gli è stato rimproverato che non è sufficiente sapere cos’è il bene per compierlo. La nobiltà della sua intenzione è tutta qui: il comportamento dell’uomo discende dalla conoscenza, e il bene ha la stessa chiarezza razionale della verità. Purtroppo non tutti la pensano come lui. Consideriamo due importanti critiche alla sua visione. Nel “Gorgia” di Platone, Callicle deride Socrate perché ritiene che il bene non abbia la stessa natura della verità e non sia affatto oggettivo; egli ritiene che la giustizia sia semplicemente una convenzione umana. Mentre le leggi della matematica sono universali, gli uomini non seguono un’unica legge di giustizia. Poiché spesso domina il più forte, è pertanto la forza ad imporsi e a regolare i rapporti, non la giustizia. Un’altra critica arriva da Platone. Egli ritiene che l’uomo non soddisfi solo la ragione: nella sua visione dell’anima l’uomo non è caratterizzato solo dalla ragione, ma da impulsi e desideri che spesso ostacolano il percorso più sensato. Se per Socrate la presunta oggettività del bene è sufficiente a indirizzare il comportamento, Platone ricorda che l’uomo può anche assecondare gli impulsi irrazionali. Pertanto, se pecca, è perché appaga l’istinto. Il male allora non è più “involontario” e le scelte non sono più “innocenti”.

Un caro saluto,

Alberto


lunedì 5 aprile 2021

La malvagità

 



Biante, uno dei sette savi del mondo greco, ha affermato che «i più sono malvagi». È una sentenza sconsolante, ma esprime una verità: gli uomini sono in grado di operare il male con un certa soddisfazione, appagati dall’esito sfavorevole delle azioni altrui; sono in grado di danneggiare il prossimo per invidia, rivalità o per semplice malevolenza, e – per scegliere un esempio letterario, come il “Riccardo III” di Shakespeare –, sono persino compiaciuti delle conseguenze fatali delle loro azioni. Chiunque abbia subito atti di prepotenza, sia stato oggetto di soprusi, svalutazione, vittima di aggressività diretta o indiretta, è disposto a sottoscrivere questa affermazione. Per carità, gli uomini non sono perfetti e non cerchiamo pertanto di idealizzarli, perché ad una minima delusione delle aspettative si possono generare giudizi dicotomici: gli uomini passano dall’essere considerati tutti buoni all’essere ritenuti tutti cattivi. Cerchiamo pertanto di evitare i due eccessi: di bontà e di malvagità. Come diceva un conciliante filosofo napoletano della seconda metà dell’Ottocento «Gli interamente buoni sono rari come gli interamente malvagi, i più stando di mezzo tra gli uni e gli altri, né tutto buoni né tutto malvagi». Già, ma dentro questo insieme così grande di persone non del tutto buone né del tutto malvagie, i più sarebbero comunque malvagi. Perché? Di solito giungiamo a proiettare tale caratteristica sulla specie intera, quando siamo stati delusi da una o più persone; la diffidenza si estende allora al prossimo e ci lasciamo andare a giudizi irrazionali e a risposte perlopiù inadeguate alla momentanea disperazione. Biante avrà emesso tale sentenza con mente lucida o in preda a frustrazione? Pare che lo abbia fatto a ragion veduta e non sull’onda di un’emozione negativa o di eventi sfavorevoli. Nel corso della storia molti filosofi si sono pronunciati sulla bontà o sulla malvagità della natura umana, ma non è necessario impegnarsi in una riflessione così radicale sull’essenza dell’uomo. La maggior parte dei nostri incontri e delle nostre relazioni non avviene con uomini di altissima statura morale, ma nemmeno di infima dignità. Incontriamo di solito uomini medi, che producono danni medi, bugie medie, dichiarazioni medie. Ma i giusti pare che siano pochi. D’altra parte lo dice anche il “Qoèlet nella Bibbia che si può trovare un giusto forse «fra mille», ma poi anche la Bibbia mitiga il giudizio, tenendo conto di quanto sia difficile anche per l’uomo giusto agire sempre in modo virtuoso: «Non c’è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai». Il poeta Giovenale non aveva probabilmente particolare fiducia nell’uomo, perché nelle “Satire” afferma che: «I buoni sono rari: sono appena tanti quante sono le porte di Tebe o le bocche del fertile Nilo». Davvero non molti, perché le porte di Tebe erano sette e altrettante erano le «bocche» del Nilo, i paesi attraversati e fecondati dal fiume (Berundi, Rwanda, Tanzania, Uganda, Sud Sudan, Sudan, Egitto). Così la pensavano, senza produrre quantificazioni così riduttive, anche Platone, Aristotele, Montaigne, Spinoza e tanti altri. La riflessione di Platone è particolarmente importante, perché il grande filosofo, dopo la condanna a morte del proprio maestro e amico Socrate, dedica gran parte delle proprie energie per immaginare uno Stato che non mandi a morte uomini retti e giusti. Nella “Repubblica” le sue preoccupazioni diventano tema di un importante dibattito: «ci troviamo ora a chiederci perché mai la maggioranza sia cattiva». La conclusione è che si può diventare malvagi se si assecondano il  piacere immediato, l’inclinazione all’imperfezione, la brama di possedimenti o la sete di potere, se si agisce in modo impulsivo e non filtrato dalla riflessione. Poiché sono poche le persone che riescono ad amministrare la propria vita con saggezza e a vivere secondo virtù, egli ritiene che debbano essere i filosofi a guidare lo Stato, perché essi hanno già dato prova di non cercare vantaggi personali, ma la verità. Anche Aristotele ritiene che i buoni sono rari e afferma che «uomini di tal sorta non sono frequenti». Egli non si esprime sull’essenza specifica dell’uomo, ma afferma che è la nostra condotta a determinare chi siamo: come ogni azione buona può aiutarci a migliorare, così «ogni azione malvagia rende l’uomo più ingiusto». Così, invece di pronunciarsi su un’improbabile essenza della natura umana o individuale, Aristotele lascia aperta la porta alla responsabilità: sono dunque le scelte quotidiane a connotare con precisione gli esseri umani. Anche oggi, se si osservano le reazioni di alcuni ospiti nelle trasmissioni televisive o i messaggi di commento sui social, ci si rende conto che, come affermava un antico proverbio, «la malvagità non ha bisogno che di un pretesto». Di fronte a questo pessimismo più o meno giustificato ci sono soluzioni? Secondo Aristotele l’educazione può avere una certa efficacia. Lo scrittore greco Diogene Laerzio racconta infatti che Aristotele: «diceva che dell’educazione le radici sono amare, il frutto è dolce». Egli racconta un episodio accaduto al filosofo che è stato variamente interpretato. «A chi gli rimproverò di aver soccorso un uomo malvagio […] “Non l’uomo soccorsi – replicò – ma l’umanità”». Conoscendo quanto l’uomo è abile ad autoassolversi, Aristotele ritiene che solo il comportamento virtuoso e l’esempio possono, forse, alla lunga persuadere anche i più. 

Un caro saluto,

Alberto