Cerca nel blog

Cor-rispondenze

lunedì 20 ottobre 2014

Il destino




Caro professore,
Nell’“Eneide” come in “Edipo Re” il destino o fato è visto come un qualcosa di immenso e superiore anche agli dei a cui niente e nessuno può sottrarsi, e cercando di sfuggirgli non si fa che andargli ancora più incontro. Mentre ad esempio nel cristianesimo il destino viene completamente sostituito dalla volontà. Alcune correnti di pensiero credono che tutto ciò che facciamo, abbiamo fatto o andremo a fare sia già scritto e non possa essere cambiato in alcun modo; se così fosse a mio parere non avrebbe senso vivere, perché non saremo spinti al cambiamento e ad uscire dalle situazioni in cui ci troviamo per migliorare, visto che le nostre scelte sono già decise. Altri invece credono che il nostro avvenire sia dato dal susseguirsi delle scelte che compiamo ogni giorno, così facendo possiamo migliorare e decidere il nostro futuro. Il mio pensiero è che in ogni istante il destino ci mette di fronte a scelte e opportunità che noi possiamo cogliere o meno, e questo comporta il susseguirsi degli eventi che ne conseguono, quindi credo in un destino plasmabile dalle nostre scelte. Dunque, esiste o no il destino?
Alice, 4D

Cara Alice,
Durante una disputa tra gli dei che reclamano tutti dei favori, Giove ad un certo punto si spazientisce e dice: «Qualcuno di voi crede forse di essere così potente da poter vincere il destino?». Se il re degli dei avesse potuto intervenire sulla necessità che regola il mondo non avrebbe fatto invecchiare suo figlio Èaco. Per questo afferma: «Anche voi dipendete dal destino, e anch’io, se ciò può consolarvi» (Ovidio, Metamorfosi, cap. IX). Il destino è dunque concepito più forte degli dei. Seneca si lamenta e parla di un «destino crudele, che mai risponde al merito!» quando cerca di confortare Polibio per la morte del fratello (“Consolazione a Polibio”). Ed è certamente vero che il cristianesimo ha sostituito al destino la provvidenza. Scrive infatti Agostino ne “La città di Dio” che «il mondo non è retto da un destino cieco ma dalla provvidenza del sommo Dio» (13.2). Alla cecità asettica del fato si è sostituita la provvidenza amorevole di Dio. Oggi più prosaicamente parliamo di caso, di combinazioni propizie o infelici. Se un bambino muore per una malformazione, diciamo che è causa dei geni, se un adulto parte dall’Europa e si iscrive all’Isis, diamo causa al suo temperamento o alla sua cultura, se accade un incidente automobilistico diciamo che probabilisticamente può avvenire. Le componenti biologiche, la famiglia, la cultura, le concomitanze della vita condizionano in modo profondo ogni essere umano. Fino a determinarlo? Forse, è anche possibile, ma occorre tuttavia non confondere la sorte con il destino. Mentre la sorte è l’insieme delle condizioni che si intrecciano nella vita, il destino implica l’attività del soggetto. È costituito da scelte personali dentro una trama di relazioni e restrizioni; è la strada che scegli di percorrere, nonostante gli imprevisti fortuiti o svantaggiosi. Ci sono eventi che diventano il nostro destino o aprono la strada ad esso. Il filosofo tedesco contemporaneo Rüdiger Safranski in un testo su Heidegger ha scritto che «I poeti, i pensatori e gli statisti diventano destino per gli altri perché essi hanno quella «creatività» per mezzo della quale viene al mondo un qualcosa che crea attorno a sé una «corte» in cui ci sono nuove condizioni dell'esserci e nuove evidenze». Non parla di un destino già scritto, di leggi immutabili, ma di «condizioni» che possono orientare la vita. In certi periodi vengono al mondo «nuove condizioni» e «nuove evidenze» per l’uomo (l’esserci) che orientano le scelte individuali e collettive, grazie alla creatività dell’uomo. La nostra società offre condizioni incredibili: ci muoviamo in treno e in aereo e non con la diligenza. Dunque, treno e aereo hanno creato destino, ossia nuove possibilità entro le quali inventare la vita. La musica di Bach ha aperto una strada nuova nella musica, anch’essa ha segnato un destino, perché molte persone a partire da quelle opere d’arte hanno intravisto nuove teorie o prospettive. La scuola che stai frequentando con le sue materie e la sua variegata complessità creerà altro destino. Perché ti aprirà dei percorsi possibili. Allora, proprio grazie a queste aperture, il destino è qualcosa che può essere scelto nella trama degli avvenimenti inattesi della vita. In questo senso, le letture, le relazioni aprono aree di novità che permettono prima di essere esplorate e poi eventualmente scelte. Se fossimo completamente programmati vivremmo in un mondo senza destino, perché non potremmo stabilire la destinazione nella vita. Strutturare se stessi genera movimento, il darsi forma genera direzione e predispone ad un certo futuro. In questo senso il destino è destinazione di sé. Occorre concentrarsi non su ciò che è ineluttabile né sugli ostacoli che possono far naufragare i progetti («il destino crudele che mai risponde al merito»), ma sulle decisioni che agevolano la propria realizzazione nonostante le difficoltà. Non su ciò che ci vincola, ma su ciò che determiniamo. Allora il destino dipenderà dall’impegno e dalla passione che metti nel tuo lavoro. Sono le decisioni ripetute a crearlo. È fatale! (ossia: questo sì che è inevitabile).
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 13 ottobre 2014

La crescita


 pil-economie-mondiali-2013

Caro professore,
[...] Tutti ne parlano, dai tecnocrati ai politici di qualsiasi schieramento, dai giornali alle televisioni: la crescita, lo sviluppo economico, l’aumento della produttività sono le uniche vie per superare il periodo di austerità che inevitabilmente siamo costretti ad attraversare. Non c’è altra via d’uscita. È già stato tutto deciso. Dobbiamo farcela, dobbiamo crescere.….per forza! Ma se non fosse cosi? Non mi ritengo certo un esperto, ma credo sia inevitabile per tutti domandarsi dove ci condurrà questa crescita così lodata e perseguita fino alla paranoia. E se non servisse a nulla? Lei è convinto, come la maggioranza degli uomini, che siano sufficienti un più rigido controllo sul bilancio statale e qualche intervento per sostenere lo sviluppo per cambiare le sorti dei Paesi in difficoltà oppure comincia ad avere qualche perplessità sulle soluzioni che ci vengono proposte dai potenti della terra? Non le appare ridicolo e degradante che l’unico orizzonte che attende la mia e la sua generazione si fondi sul consumismo di massa, sul profitto per amore del profitto e sulla competizione ad oltranza di tutti contro tutti?[...]
Con affetto,
Alberto Cappello, IV

Caro Alberto,
Riporto una piccola parte di una tua lunghissima e articolata riflessione. Intanto, complimenti per l’analisi, impegnativa e responsabile. Individui una questione cruciale e sollevi giustamente il problema se vi sia davvero una corrispondenza necessaria tra Pil e qualità della vita. Credo che molte persone si siano chieste – dopo aver sentito da tutte le parti sottolineare l’ostentazione della crescita – se l’imperativo del progresso incessante e imprescindibile sia diventato più una condanna che un auspicio. La filosofa contemporanea Martha Nussbaum (insegna “Law and Ethics” all’Università di Chicago) ha intitolato un libro “Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil” (Il Mulino, 2012). Questo testo mi sembra che incoraggi le tue osservazioni. Nussbaum sostiene che, per liberarsi dalla “dittatura del Pil”, occorra creare capacità e non solo ricchezze. Sia Nussbaum sia il premio nobel per l’economia Amartya Sen sostengono che la semplice valutazione del Pil non rende infatti conto delle enormi disuguaglianze all’interno di uno Stato né del livello di vita degli abitanti. La tesi sostenuta dalla filosofa fa riferimento ad un nuovo modello noto come «approccio dello sviluppo umano» o come «approccio della capacità». In sostanza ci si chiede «cosa sono effettivamente in grado di essere e di fare le persone? Quali sono le reali opportunità a loro disposizione?». Da alcuni anni sono stati introdotti altri indicatori per la valutazione della crescita di un Paese. Uno di questi è l’ISU (l’indice di sviluppo umano). L'Indice di sviluppo umano (HDI-Human Development Index) è un indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dall'economista pakistano Mahbub ul Haq nel 1990. Questo autore ha scritto che «La vera ricchezza di una nazione è il suo popolo. E l'obiettivo dello sviluppo è creare un ambiente che consenta alla gente di godere di una vita lunga, sana e creativa. Questa verità molto semplice, ma potente, viene spesso dimenticata nell'inseguimento della ricchezza materiale e finanziaria» (cit. in Nussbaum, p. 11). È vero, l’aumento del Pil non aumenta automaticamente la qualità della vita, perché spesso i vantaggi della ricchezza non raggiungono le famiglie povere. Una buona politica dello Stato potrebbe offrire: assistenza sanitaria, cure mediche, credito e istruzione. Davvero tutte le persone possono accedere ai beni di una nazione? Spesso, come mostra Nussbaum, le ricchezze finiscono nelle tasche di alcuni gruppi privilegiati. Quindi è vero quello che scrive l’autrice che «La crescita è buona se le politiche dei governi sono in grado di adottare azioni pubbliche in grado di incidere sulla vita dei cittadini». Il Pil infatti «guarda la media e trascura la distribuzione» e, come potrai vedere, ben dimostrato nel testo, la crescita economica non migliora automaticamente la qualità della vita in settori cruciali quali sanità, istruzione o libertà politica. Riporto due osservazioni chiarificatrici della filosofa: «L'India ha reso molto peggio della Cina in termini di aumento del Pil, eppure è una democrazia estremamente stabile, con libertà di base assolutamente garantite; la Cina no. Inoltre, i dati raccolti nei rapporti sullo sviluppo umano rivelano che la classifica nazionale basata sull'Indice dello sviluppo umano (Isu), calcolata su fattori come istruzione e longevità, non è la stessa di quella ottenuta sulla base esclusiva del Pil medio: gli Stati Uniti slittano dal primo posto come Pil al dodicesimo come Isu, ed è ancora peggio su altre specifiche capacità» (Nussbaum, p. 52). Quando si riferisce ad altre specifiche capacità, Nussbaum fa riferimento, ad esempio, all’ISG (Indice di sviluppo di genere). Questo indicatore segnala se anche le donne abbiano la stessa possibilità degli uomini di accedere all’istruzione, alla sanità e alla partecipazione politica. Se leggerai il testo, scoprirai le dieci capacità fondamentali che uno Stato dovrebbe prendere in considerazione nella valutazione della crescita (vedi pp. 39-40).
Un caro saluto,
Alberto

lunedì 6 ottobre 2014

La mia madrepatria

Tour Of Croatia And Bosnia & Herzegovina
 
Caro professore,
Mi sono sempre chiesta perché tra tutti i posti al mondo io e la mia famiglia siamo venuti a vivere in Italia. È partito tutto dal fratello di mio padre il quale era qua e così siamo venuti anche noi, Ma perché? Perché anche lui doveva venire in Italia? Io preferisco vivere in Bosnia e spero di riuscire a tornarci per sempre.
Sanela, III D

Cara Sanela,
Lo scrittore austriaco Hugo von Hofmannsthal, vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, paragonava la sofferenza della lontananza al tormento che un uomo prova quando costeggia su una grande nave il proprio luogo natio e lo contempla a distanza: «E ne vede / le vie, ne sente gorgogliare le fontane, odora / il profumo dei glicini, se stesso vede / bambino, stare presso la riva, con occhi di fanciullo / che sono angosciati e vogliono piangere, vede / per la finestra aperta la luce della sua camera - / ma la grande nave lo porta / oltre, scivolando senza suono sull’acqua blu cupo / con gialle gigantesche vele di foggia straniera». Nei luoghi d’infanzia ognuno vede se stesso bambino e, data la giovane età, tu rivedi tutta la tua storia e non solo parte di essa. Tuttavia, la vita in cui siamo imbarcati a volte impone di riscrivere il nostro destino in altri luoghi. Belli, ma stranieri. Ossia estranei. Così l’allontanamento fisico si tramuta in un esilio dalla propria origine. La madrepatria è terra d’origine, ma l’origine non è solo il punto di partenza, è ciò da cui discendiamo, la fonte che alimenta la nostra vita. Per questo la lontananza genera dolore, perché ci sottrae parte di un nutrimento essenziale. Soffri perché a sedici anni vivi un allontanamento imposto dal luogo della tua formazione. A volte crediamo superficialmente che per migliorare le condizioni di vita l’abbandono di certi luoghi sia una sorta di necessaria liberazione, ma dimentichiamo che la vita di ciascuno è plasmata dagli odori e dai colori dei luoghi natii; ed è come una pianta strappata dal terreno con le radici, che ha bisogno di molto tempo per reinserirsi in un nuovo ambiente e radicare. Eugenio Borgna ci ha insegnato quanto questa esperienza di «lontananza emozionale e di indicibile estraneità» sia dolorosa. La patria, è qualcosa di più della «terra dei padri». I tedeschi usano la parola Heimat, che ha una connotazione semantica più forte, contiene all’interno la parola «Heim», casa, e indica il luogo in cui si è nati o in cui si ci sente a casa. Lo storico Hermann Heidegger – figlio del filosofo del Novecento Martin Heidegger – racconta che hanno la stessa radice «Heim», casa, «Heimat», patria e «heimlich», segreto. In questo senso nel luogo d’origine si percepisce un’intimità e ci si sente a casa, perché si avverte che qualcosa ci protegge, facilita le relazioni e ci tutela; si sente che il luogo natio custodisce il “segreto” della nostra vita, ciò che di più intimo abita in noi. Il tuo amore per la Bosnia è davvero speciale, perché alla fine dichiari che vorresti ritornare là «per sempre». L’avverbio temporale segnala il profondo legame con il tuo mondo: «per sempre», infatti, non è solo un modo di dire, ma è la formula di un promessa solenne, di un impegno amoroso, quasi un voto. Seneca scriveva a Lucilio: «Ulisse si affretta verso le rupi della sua Itaca come Agamennone alle famose mura di Micene; nessuno ama la patria perché è grande, ma perché è sua». Questo attaccamento è consistente, perché senti una forte appartenenza alla tua terra, la senti “tua”. Tuttavia, l’origine non è solo un punto nel passato, né una derivazione, ma è un processo. E nel processo della crescita ci sono momenti di estraniazione più o meno forte. Il processo è dato da un insieme di avvenimenti che devono accadere. In questo senso quello che ci costituisce è solo iniziato, ma può proseguire ovunque. Lo scrittore Claudio Magris, nel libro “L’infinito viaggiare” (Mondadori 2008), dice che la casa natale non è necessariamente nell’infanzia, ma si trova alla fine del viaggio. Scrive Magris: «Quest’ultimo è circolare; si parte da casa, si attraversa il mondo e si ritorna a casa, anche se a una casa molto diversa da quella lasciata, perché ha acquistato significato grazie alla partenza, alla scissione originaria. Ulisse torna a Itaca, ma Itaca non sarebbe tale se egli non l'avesse abbandonata per andare alla guerra di Troia, se egli non avesse infranto i legami viscerali e immediati con essa, per poterla ritrovare con maggiore autenticità». Ti auguro di ritrovare la tua patria, ma ti assicuro che il luogo che ospita tutti noi ha bisogno anche di te, della tua storia e della tua esperienza; compagni e insegnanti ti vogliono bene e la tua presenza arricchisce tutti di una cultura di cui nessuno può fare conoscenza autentica se non tramite la tua voce. Come tu ami molto la tua città, Dante amava moltissimo Firenze, perché era nato lì («noi, che pure prima di mettere i denti abbiamo bevuto l’acqua dell’Arno e amiamo Firenze»). Poiché ora anche tu sei una fonte che alimenta la vita di altre persone, nella trama delle relazioni ci aiuterai a considerare che, oltre alle nostre piccole e care Heimat, come scrive Dante, dovremo imparare ad avere «per patria il mondo, come i pesci il mare» (De Vulgari Eloquentia,(libro I, VI).
Un caro saluto,
Alberto